Francesco, docente di economia umana

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Secondo Roberto Mancini,[1] sono pochi coloro che oggi cercano di «svolgere uno dei compiti concreti e urgenti che ci sono richiesti dalla storia»: cioè, «dare alla luce un’economia umanizzata, libera dalla superstizione della competitività, della flessibilità, della crescita, dell’assurda docilità all’avidità della finanza».[2] Pochi contributi arrivano dalla politica, pochi dalle università, pochi dagli intellettuali, pochi dal mondo dei media e della cultura. Le migliori speranze e i veri contributi di lucidità vengono, oltre che dalle reti di economia solidale e da tutte le esperienze alternative al capitalismo esistenti nel mondo, dall’insegnamento di papa Francesco.[3]

Obiettivo del presente contributo è quello di evidenziare, all’interno di un doppio decalogo scritto su due tavole, il magistero del vescovo di Roma in tema di economia, contenuto prevalentemente nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium e nella lettera enciclica Laudato si’.

Prima tavola

Nella prima tavola sono riportate alcune suggestioni di carattere più generale che dovrebbero interessare di più la vita delle comunità cristiane.

1) Non si può affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Dio desidera la felicità dei suoi figli e delle sue figlie anche su questa terra, benché siano chiamati alla pienezza eterna, perché egli ha creato tutte le cose perché possiamo goderne (1Tm 6,17), perché tutti possano goderne.[4]

2) Una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valore, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. Sebbene il giusto ordine della società e dello Stato sia il compito principale della politica, la Chiesa non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia. Tutti i cristiani, compresi i pastori, sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore.[5]

3) Coloro che s’impegnano nella difesa della dignità delle persone possono trovare nella fede cristiana le ragioni più profonde per tale impegno.[6] È necessario formare un laicato non introverso, bensì capace di far penetrare i valori cristiani nel mondo sociale, politico ed economico.[7]

4) Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società. Questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido dei poveri e a soccorrerli.[8] L’esigenza di ascoltare il grido dei poveri deriva dalla stessa opera liberatrice della grazia in ciascuno di noi: ne consegue che non si tratta di una missione riservata solo ad alcuni.[9]

5) Come nel cuore di Dio c’è un posto preferenziale per i poveri,[10] così per la Chiesa l’opzione preferenziale per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica.[11] In ogni comunità cristiana i poveri devono sentirsi a casa loro. Senza l’opzione preferenziale per i poveri l’annuncio del vangelo rischia di affogare in una mare di parole.[12] L’opzione per gli ultimi, per coloro che la società scarta e getta via è un segno che non deve mancare nelle comunità cristiane.[13] La porta del cuore non spalancata ai poveri rimane chiusa anche per Dio: questo è terribile.[14]

6) Qualsiasi comunità ecclesiale, nella misura in cui pretenda di stare tranquilla senza occuparsi creativamente e di cooperare con efficacia affinché i poveri vivano con dignità, correrà anche il rischio della dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i governi. Facilmente finirà per essere sommersa dalla mondanità spirituale, dissimulata con pratiche religiose, con riunioni infeconde o con discorsi vuoti.[15]

7) Nessuno dovrebbe dire che si mantiene lontano dai poveri perché le sue scelte di vita comportano di prestare più attenzione ad altre incombenze. Questa è una scusa frequente negli ambienti accademici, imprenditoriali o professionali, e persino ecclesiali. Sebbene si possa dire in generale che la vocazione e la missione propria dei fedeli laici è la trasformazione delle varie realtà terrene affinché ogni attività umana sia trasformata dal Vangelo, nessuno può sentirsi esonerato dalla preoccupazione per i poveri e per la giustizia sociale.[16]

8) Nella situazione attuale della società mondiale, dove si riscontrano tante diseguaglianze sociali e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate, private dei loro diritti umani fondamentali, il principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica e ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà e in un’opzione preferenziale per i poveri.[17]

9) L’amore per la società e l’impegno per il bene comune sono una forma eminente di carità, che riguarda non solo le relazioni tra gli individui, ma anche le macro-relazioni, i rapporti sociali, economici e politici. Per questo la Chiesa ha proposto al mondo l’ideale di una civiltà dell’amore. L’amore sociale è la chiave di un autentico sviluppo. Per rendere la società più umana, più degna della persona, occorre rivalutare l’amore nella vita sociale – a livello, politico, economico e culturale – facendone la norma costante e suprema dell’agire.[18]

10) Le rivendicazioni sociali, che hanno a che fare con la distribuzione delle entrate, l’inclusione sociale dei poveri e i diritti umani, non possono essere soffocate con il pretesto di costruire un consenso a tavolino o un’effimera pace per una minoranza felice. La dignità della persona umana e il bene comune stanno al di sopra della tranquillità di alcuni che non vogliono rinunciare ai loro privilegi. Quando questi valori vengono colpiti, è necessaria una voce profetica.[19]

Seconda tavola

Ed ecco il contenuto della seconda tavola, con indicazioni più specifiche in tema di economia.

1) La necessità di risolvere le cause strutturali della povertà non può attendere, non solo per un’esigenza pragmatica di ottenere risultati e di ordinare la società, ma per guarirla da una malattia che la rende fragile e indegna e che potrà solo portarla a nuove crisi. I piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie. Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali dell’inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e, in definitiva, nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali.[20]

2) Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato. La crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga, richiede decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati ad una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, ad una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo.[21] Il mercato da solo non garantisce lo sviluppo umano integrale e l’inclusione sociale.[22]

3) Così come il comandamento «non uccidere» pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, così oggi dobbiamo dire no a un’economia dell’esclusione e della diseguaglianza sociale (inequità) e ad un’economia che uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa: questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame: questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie d’uscita.[23]

4) Le teorie della «ricaduta favorevole», che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesca a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo sono indifendibili. Si tratta di teorie che non sono mai state confermate dai fatti, esprimono una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare e ad imperare è la globalizzazione dell’indifferenza.[24]

5) Una delle cause dell’economia dell’esclusione, dello scarto e della morte si trova nella relazione che abbiamo stabilito con il denaro, perché accettiamo pacificamente il suo predominio su di noi e sulle nostre società. Bisogna dire un no forte e chiaro alla nuova idolatria del denaro.[25] Il denaro deve servire, non governare.[26] Il principio della massimizzazione del profitto, che tende ad isolarsi da qualsiasi altra considerazione, è una distorsione concettuale dell’economia.[27]

6) La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana.[28]

7) Il fine dell’economia e della politica è il servizio agli uomini, a cominciare dai più poveri e i più deboli, ovunque essi si trovino, fosse anche il grembo della loro madre. Ogni teoria o azione economica e politica deve adoperarsi per fornire ad ogni abitante della terra quel minimo benessere che consenta di vivere con dignità, nella libertà, con la possibilità di sostenere una famiglia, di educare i figli, di lodare Dio e di sviluppare le proprie capacità umane. Questa è la cosa principale. Senza questa visione, tutta l’attività economica non avrebbe senso.[29]

8) È indispensabile promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale. Perché vi sia una libertà economica della quale tutti effettivamente beneficino, a volte può essere necessario porre limiti a coloro che detengono più grandi risorse e potere finanziario. La semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi realmente e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso contraddittorio che disonora la politica.[30] Una visione economica esclusivamente orientata al profitto e al benessere materiale è – come l’esperienza quotidianamente ci mostra – incapace di contribuire in modo positivo ad una globalizzazione che favorisca lo sviluppo integrale dei popoli nel mondo, una giusta distribuzione delle risorse, la garanzia di un lavoro dignitoso e la crescita dell’iniziativa privata e delle imprese locali.[31]

9) Bisogna passare da un’economia che punta al reddito e al profitto in base alla speculazione e al prestito a interesse ad un’economia sociale che investa sulle persone creando posti di lavoro e qualificazione. Dobbiamo passare da un’economia liquida, che tende a favorire la corruzione come mezzo per ottenere profitti, a un’economia sociale che garantisca l’accesso alla terra e alla casa per mezzo del lavoro[32] come ambito in cui le persone e le comunità possano mettere in gioco molte dimensioni della vita. La realtà sociale del mondo di oggi, al di là degli interessi limitati delle imprese e di una discutibile razionalità economica, esige che si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro per tutti.[33]

10) In ogni nazione, gli abitanti sviluppano la dimensione sociale della loro vita configurandosi come cittadini responsabili in seno ad un popolo, non come massa trascinata dalle forze dominanti. L’essere fedele cittadino è una virtù e la partecipazione alla vita politica è un’obbligazione morale. Ma diventare un popolo è qualcosa di più, e richiede un costante processo nel quale ogni nuova generazione si vede coinvolta. È un lavoro lento e arduo che esige di volersi integrare e di imparare a farlo fino a sviluppare una cultura dell’incontro in una pluriforme armonia.[34]


[1] Ordinario di filosofia teoretica all’Università di Macerata e docente di Economia Umana dell’Accademia di Architettura dell’Università della Svizzera Italiana a Mendrisio, autore di numerosi saggi, in cui riesce a coniugare il rigore del ricercatore con la passione e il coinvolgimento del cittadino responsabile al quale sta a cuore la sorte della “res publica”.
[2] Roberto Mancini, La rivolta delle risorse umane-Appunti di viaggio verso un’atra società, Pazzini Editore 2016, pag. 67. Di Roberto Mancini, interessanti altri due testi editi da Franco Angeli: Trasformare l’economia – Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche (2014) e Ripensare la sostenibilità, Le conseguenze economiche della democrazia (2015).
[3] Roberto Mancini, La rivolta delle risorse umane-Appunti di viaggio verso un’atra società, cit. pag. 68.
[4] Evangelii gaudium n. 182.
[5] Evangelii gaudium n. 183.
[6] Laudato si’ n. 65.
[7] Evngelii gaudium n. 102.
[8] Evangelii gaudium n. 187.
[9] Evangelii gaudium n. 188.
[10] Evangelii gaudium n. 197.
[11] Evangelii gaudium n. 198.
[12] Evangelii gaudium n. 199.
[13] Evangelii gaudium n. 195
[14] Udienza del 19 maggio 2016.
[15] Evangelii gaudium n. 207.
[16] Evangelii gaudium n. 201.
[17] Laudato si’ n. 158.
[18] Laudato si’ n. 231.
[19] Evangelii gaudium n. 218.
[20] Evangelii gaudium n. 202.
[21] Evangelii gaudium n. 204.
[22] Laudato si’ n. 109.
[23] Evangelii gaudium n. 53.
[24] Evangelii gaudium n. 54.
[25] Evangelii gaudium n. 55.
[26] Evangelii gaudium n. 58.
[27] Laudato si’ n. 195.
[28] Laudato si’ n. 189.
[29] Lettera del 15 giugno 2013 al Primo Ministro del Regno Unito David Cameron in occasione dell’incontro del G8 /17-18 giugno 2013).
[30] Laudato si’ n. 129.
[31] Discorso ai partecipanti alla conferenza internazionale della Fondazione Centesimus annus pro Pontifice (13 maggio 2016).
[32] Discorso in occasione del conferimenti del premio “Carlo Magno” (8 maggio 2016).
[33] Laudato si’ n. 127.
[34] Evangelii gaudium n. 220.

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