Il disincanto per la morte

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rimossa

Da un po’ di tempo, forse prima della pandemia, la presenza della morte è assente dalla coscienza collettiva. Soltanto casi gravissimi, come le morti dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Jacovacci e dell’autista Mustafa Milando in Africa, riescono a destare emozione e rammarico. Eppure le notizie di uccisioni, suicidi e violenze fanno parte della cronaca quotidiana.

Al di là dell’eco che suscitano i fatti di sangue, le morti degli oltre 95 mila malati di Covid in Italia sono vissute come normalità. In un meccanismo di rimozione che lascia pensosi. Come se la morte fosse diventato un evento naturale, privo di particolare significato.

Nei paesi poveri la morte viene vissuta come fatalità della vita. Nella lotta alla sopravvivenza non si hanno energie per dedicare un pensiero a chi non c’è più e non può tornare.

Nelle culture dei paesi evoluti la rimozione della morte è vissuta perché orientati al benessere: occorre inseguire la propria felicità. Accompagnati da questa aspirazione, si perde la memoria per chi non c’è più. I ricordi svaniscono: gli anniversari si celebrano per chi è stato potente e famoso nella vita pubblica, in ambito scientifico, culturale, artistico. Si rafforza così la sensazione che, per essere significativi, occorre essere potenti e conosciuti.

I funerali sono celebrati come riti dovuti: senza partecipazione e senza vicinanza, in un calendario di eventi che prevedono anche la morte e la sepoltura, per chiudere rapidamente l’evento.

È impressionante come sia stato modificato il tempo, divenuto solo presente. Il passato è stato, come se fosse dovuto. Ora è il momento del proprio vivere.

Questo atteggiamento procura due conseguenze: si perde il filo della vita. Come se non fossimo eredi di qualcuno e di qualcosa. La cosa più seria è che si instaura un solipsismo non solo temporale, ma anche esistenziale.

Senza memoria si saltano consuetudini, valori, usi e costumi. Ognuno si sente autorizzato a pensare il mondo e se stesso con una propria sintesi.

La crisi della religiosità, ma anche della cultura civica, delle regole e dei doveri, poggia sulla presunzione di essere intoccabili. Nessuno, a nome di terzi, è autorizzato a suggerire quanto pensare e a come agire. Nemmeno la morte ha il potere di interrompere la presunzione dell’autosufficienza. Nemmeno il virus ha avuto la capacità di far riflettere. Non si sono cercate le cause, non si sono cambiati gli approcci di vita.

Eppure c’è una contraddizione che esploderà: non saprei come. Alcuni prodromi già si avvertono: non solo i problemi dell’ambiente, ma anche le relazioni, i vincoli familiari, la crescita nell’età adolescenziale e giovanile sono distorti.

Senza essere apocalittici stiamo vivendo un periodo di decadenza: non solo morale. Alcune violenze sproporzionate contro le donne, contro i propri figli, contro se stessi, dicono che sono state perdute le àncore di riferimento.

La speranza nasce dalla riscoperta di quelle virtù a cui fanno riferimento le beatitudini. Non sembri un paradosso: l’essere umili, miti, consolatori, giusti, misericordiosi, sinceri, pacifici, fedeli sono indicazioni per una felice convivenza. Non sono virtù eccezionali destinate a quanti saranno beatificati, ma costituiscono le fondamenta di una sana vita di relazione.

Il cristianesimo ha la grandezza di aver scoperto il cuore dell’umanità: ascoltarlo e seguirlo rende sicuramente felici.

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