Appunti di un viaggio trinitario

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trinita

Seicentoventi pagine. Una cifra ragguardevole per un libro come quello che Antonio Ranzolin – per lunghi anni docente di religione e cultore della teologia ortodossa – ha pubblicato con l’editrice Asterios. Ed è un testo impegnativo come appare dal sottotitolo “Appunti di un viaggio trinitario”. Eppure… chi inizia a leggerlo, e lo fa con la dovuta attenzione, dato il tema, subisce il fascino di una trattazione inedita sul tema della Trinità. Non è un testo scolastico dedicato alla dogmatica, ma un affascinante viaggio nella teologia e nella spiritualità della patristica greca antica e contemporanea.

L’autore definisce “Appunti” il contenuto dei 19 capitoli del libro. Ma è una definizione decisamente modesta che non fa giustizia della ricchezza di queste pagine. Oltre seicento abbiamo ricordato. Eppure il testo vero e proprio, il testo base, avrebbe dimensioni ben più ridotte, se ignorassimo la stupefacente abbondanza delle note. Sì, si potrebbe procedere nella lettura senza sostare sui richiami biografici e bibliografici e sorvolando sulle citazioni, ma si perderebbe l’occasione di incontrare la preziosità e la bellezza di testi che l’Oriente teologico ci ha consegnato.

Perché Antonio Ranzolin si è cimentato in un’opera così ardua che richiede passione per la verità teologica, eccellente padronanza della lingua greca, paziente raccolta di scritti e documenti e minuziosa ricerca di citazioni appropriate?

Lo spiega nel capitolo I, che apre con una citazione di Voltaire il quale irride il dogma trinitario. Seguono Immanuel Kant, secondo il quale la dottrina trinitaria è «del tutto inutile»; Corrado Augias, che trova la Trinità un argomento «assai complicato e piuttosto noioso… un residuo di teologia medievale»; Piergiorgio Odifreddi, secondo il quale «non si può credere ciò che non si capisce» e il dogma trinitario è di una «irrazionalità letteralmente incredibile… un delirio»; Richard Dawkins il quale ricorda che «fiumi di inchiostro e di sangue medievali sono stati sprecati per definire il “mistero” della Trinità»; Thomas Jefferson il quale ritiene che il ridicolo sia l’unica arma contro le proposizioni inintelligibili, e la Trinità è una di queste, cioè un «mero abracadabra».

Il timore dell’autore è che anche un certo numero di cristiani ritenga «cavillosa e contorta… l’intera problematica trinitaria». Cita quindi il teologo greco Giovanni Romanidis il quale scrive in risposta a simili letture: «In una prospettiva filosofica non c’è maggiore sciocchezza del parlare di tre ipostasi e di una sola sostanza. Si tratta, assolutamente, di una stupidaggine, dal punto di vista della ragione e della filosofia. Una pura stupidaggine. Ma non dal punto di vista teologico», cioè della fede.

E a quanti pensano di «scuotersi di dosso la polvere del Dio inesistente della dogmatica, per emigrare nella città del Dio della Bibbia», l’autore ricorda la perentoria affermazione di Romanidis: «Non c’è né può esserci distinzione tra teologia patristica (e dunque dogmatica) e teologia biblica o ermeneutica: La teologia biblica è la teologia patristica e la teologia patristica è la teologia biblica».

Antonio Ranzolin si dice certo che si possono trovare termini “vitali” per parlare della Trinità, «quel mistero adorabile che sempre mistero rimarrà», perché la Trinità è «vita della nostra vita. Dal Dio trinitario e per il Dio trinitario siamo stati creati: la Trinità è iscritta, in tal modo, nel DNA del nostro essere uomini». Senza dimenticare che, nella patria trinitaria, ritroveremo anche noi stessi: la gloria dell’essere uomini. E cioè la gloria dell’essere divenuti, finalmente, ciò che siamo: deiformi».

Inizia così un lungo viaggio intorno al mistero del “Dio trisolare”, in cui l’autore immagina di essere in cammino verso Emmaus in compagnia di Cleopa, uno dei due discepoli ricordato dall’evangelista Luca, e insieme al misterioso Viandante capace di accendere il cuore. Ed è con Cleopa che l’autore  condivide di volta in volta le sue emozioni interiori, spesso al termine di ogni capitolo, a sottolineare la sovrabbondanza di luci provenienti dal mistero contemplato.

Una gradita sorpresa l’autore ce la offre all’inizio di ogni capitolo, presentando alcune figure di spicco della teologia dei primi secoli della Chiesa che fanno da ouverture alla riflessione successiva: così Gregorio Palamas ci introduce nel capitolo 2°, dove appare chiaramente che la speculazione teologica deve sgorgare da un atteggiamento di profonda orazione.

Massimo il Confessore viene presentato all’inizio del capitolo 3° e viene indicato come strenuo difensore dell’ortodossia, disposto al sacrificio della vita pur di non rinnegare la verità.

Incontreremo in seguito Basilio di Iviron, Giovanni Crisostomo, Nikolaos Loudovikos, Melitone di Sardi, Giustino, Clemente di Alessandria, Atanasio, Basilio il Grande, Ireneo, Gregorio di Nazianzo, Giovanni  Romanidis.

Un’attenzione specifica è dedicata a san Giovanni Damasceno perché ha applicato il termine “pericoresi” alla teologia trinitaria. L’autore pone come sottotitolo del capitolo XV “La danza triadica”. La “pericoresi” indica infatti la compenetrazione reciproca e necessaria delle tre persone divine sulla base dell’unica essenza divina. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo “si muovono l’uno nell’altro”, ossia si appartengono a vicenda.

I capitoli fondamentali nei quali si riflette espressamente sulle tre divine persone (il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) sono introdotti rispettivamente da Dionigi l’Areopagita, da Justin Popović e da Simone il Nuovo Teologo.

È la parte più corposa del testo ed è scritta con appassionato lirismo. Le note sovrabbondano di citazioni di rara bellezza.

Il Padre viene invocato come “Ventre fecondo”, «causa eterna di ipostasi eterne». Egli è “incausato”, “imprincipiato”, “ingenerato”.

Il Figlio, “di imprincipiata Radice l’ineffabile Germe”, viene chiamato e pregato come “Logos consustanziale”.

Lo Spirito Santo, “l’indiviso compagno del Logos” e con lui “connaturale”, “consustanziale”, “coimprincipiato”, “conregante”, “conadorato” e “conglorificato” occupa (e non poteva essere altrimenti) una parte cospicua dell’intera trattazione. Oltre ad essere pregato come “Pneuma divino”, egli è il Paraclito che santifica, parla, comanda, decide, ha una volontà, preavvisa, con-testimonia, intercede, distribuisce e scruta. Lo Spirito è indissociabile dal Padre e dal Figlio e procede dal Padre come da un’unica causa.

L’autore è consapevole che «diventeremo pazzi volendo sbirciare nei misteri di Dio» (Gregorio di Nazianzo) e che ha ragione Efrem il Siro quando afferma: «Ama la bontà del Padre, ma non indagare la sua essenza. Ama e apprezza la mitezza del Figlio, ma non investigare sulla sua generazione. Ama il soffio dello Spirito Santo, ma non tentare di scandagliarlo… Il loro nome pondera, dunque, ma non indagarne le personalità. Se tu vuoi perscrutarne l’essenza, sei perduto».

La sua lunga riflessione sulla Trinità è, quindi, soprattutto una paziente e stupita contemplazione del mistero più che un’indagine speculativa. Volendo studiare Dio in maniera scientifica o con le categorie aristoteliche, si rischia di ridurlo ad un… cadavere da sezionare. La visione ortodossa privilegia la teologia come vita piuttosto che come “scienza”. Afferma Nikos Nissiotis che la vera teologia inizia quando la teologia come scienza viene superata e abbandonata. A questo punto la teologia diventa visione, confessione, dossologia, eucaristia, martyrìa; in una parola: vita, perché “teologare intorno a Dio”, significa vivere con Dio, per Dio e secondo Dio. È convinzione dei Padri che «se preghi veramente, sei teologo» (Nilo Asceta). Il teologo – scrive G.S. Romanidis – non è «colui che prende una laurea in teologia, ma colui che è giudicato degno di vedere Dio». Ecco perché la teologia ortodossa è connotata da forti accenti mistici.

Un meritatissimo plauso all’autore e all’editore di questo libro.

  • Antonio Rranzolin, Verso Emmaus. Appunti di un viaggio trinitario, coll. Le Belle Lettere 53, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 620, € 26,00, ISBN 9-788893-131735.
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