Una ricerca libera e appassionata, la connessione con il compito dell’annuncio evangelico, l’obbedienza al dettato conciliare, il necessario aggiornamento e quattro criteri di orientamento: questo in sintesi il contenuto della costituzione apostolica Veritatis gaudium (circa le università e le facoltà ecclesiastiche), resa pubblica il 29 gennaio.
La struttura del testo è peculiare. All’ampio proemio che raccoglie gli orientamenti di fondo seguono una prima parte sulle norme comuni alle università, facoltà e istituti afferenti (comunità accademica, docenti, studenti ecc.), alcune disposizioni speciali relative alle facoltà di teologia, di diritto e di filosofia e 7 articoli di norme finali. Oltre a questo, il testo, che si estende per 144 pagine, ha alcune appendici importanti. La prima riporta il proemio della precedente costituzione apostolica (Sapientia christiana, 1979) che si può agilmente leggere in forma sinottica con l’attuale, a cui seguono le norme applicative della Veritatis gaudium elaborate dalla Congregazione per l’educazione cattolica: distinte in norme comuni e norme speciali. Seguono due brevi appendici. La scrittura è duplice: da un lato la forma sistematica dei proemia, dall’altro la configurazione normativa e canonica delle singole indicazioni.
L’assonanza di Veritatis gaudium con Evangelii gaudium non è solo formale. Il desiderio struggente della ricerca sperimenta la festa del rapporto con Dio attraverso un vasto e pluriforme sistema di studi. Finalizzato non solo all’aggiornamento con le disposizioni già emanate, con lo sviluppo degli studi, il contesto culturale e civile, le nuove relazioni accademiche internazionali, ma soprattutto a «superare il divorzio tra teologia e pastorale, tra fede e vita» (n. 2), a esporsi sul versante dell’evangelizzazione. «L’esigenza prioritaria oggi … è che tutto il popolo di Dio si prepari ad intraprendere “con spirito” una nuova tappa dell’evangelizzazione» (n. 3), in un «mondo contrassegnato dal pluralismo etico-religioso» (n. 5).
Allargare la ragione
Se la Sacra Scrittura è, secondo il dettato conciliare, «anima di tutta la teologia» all’interno della Tradizione, non di meno è centrale l’«assidua e consapevole partecipazione alla sacra liturgia» (n. 2). Già la Sapientia christiana allargava il campo ai popoli e alle culture (I), oggi si riprende l’anelito di Benedetto XVI sulla dilatazione della ragione come servizio al Vangelo e alla cultura: «il problema è che non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare questa crisi e c’è bisogno di costruire leadership che indichino strade» (n. 3). Diventa necessario un pensiero aperto, dentro una Tradizione aperta e creativa. «La teologia, non vi è dubbio, deve essere radicata e fondata nella Sacra Scrittura e nella Tradizione vivente, ma proprio per questo deve accompagnare simultaneamente i processi culturali e sociali, in particolare le transizioni difficili» (n. 4). Essere a questa altezza significa saper «vivere rischiosamente e con fedeltà sulla frontiera» (n. 5). Si può persino parlare di una «apologetica originale».
I quattro criteri per un rilancio degli studi ecclesiastici si possono sintetizzare in rapide tracce. Anzitutto una concentrazione vitale e gioiosa «sul volto di Dio rivelato in Gesù Cristo come Padre ricco di misericordia» (n. 4) che apre all’esperienza liberante e responsabile di una «mistica del noi» ecclesiale, nell’ascolto del grido dei poveri della terra. In secondo luogo, un dialogo a tutto campo, «non come mero atteggiamento tattico, ma come esigenza intrinseca per fare esperienza comunitaria della gioia della Verità» (n. 4). In terzo luogo, una dimensione inter e trans – disciplinare. «Si tratta di offrire, attraverso i diversi percorsi proposti dagli studi ecclesiastici, una pluralità di saperi, corrispondente alla ricchezza multiforme del reale nella luce dischiusa dall’evento della Rivelazione» (n. 4). Se si lascia la pretesa della priorità della teologia nell’universitas studiorum non si rinuncia a una unità del sapere che è domanda impellente per ogni uomo e donna e suona critica alla dispersione compulsiva delle specializzazioni della razionalità strumentale, secondo l’auspicio di Newman e Rosmini. Il quarto criterio è «la necessità urgente di fare rete tra le diverse istituzioni che, in ogni parte del mondo, coltivano e promuovono gli studi ecclesiastici, attivando con decisione le opportune sinergie anche con le istituzioni accademiche dei diversi paesi e con quelle che si ispirano alle diverse tradizioni culturali e religiose» (n. 4).
Fra le indicazioni esplicite e le suggestioni raccolte nelle norme accenno solo a tre elementi. Anzitutto allo spazio per istituti di ricerca di secondo livello (licenza e dottorato) «ad instar universitatis», poli di eccellenza interdisciplinari. Poi l’applicazione degli impegni derivanti dall’adesione della Sant Sede al «processo di Bologna» che prevede un ruolo particolare all’Agenzia per la valutazione e la promozione della qualità delle università e facoltà ecclesiastiche (AVEPRO) e il «diploma supplement». E ancora, l’insegnamento a distanza, le pubblicazioni in forma elettronica e lo spazio concesso ai docenti di altre confessioni e all’ecumenismo. Con una domanda critica finale su una possibile eterogenesi dei fini: e cioè l’eccessiva uniformazione di processi e strumenti e il controllo centralizzato a Roma piuttosto che affidato alle conferenze episcopali.