Il nucleare: complesso, costoso, per niente “green”

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Come penso sia noto a tutti, dopo una crescita cominciata alla fine della Seconda Guerra Mondiale, a partire dagli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso, il nucleare ha avuto una battuta d’arresto per tanti e giustificati motivi.

Oggi, però, è tornato alla ribalta, dal momento che la Comunità Europea, inopinatamente, l’ha inserito nella tassonomia verde quale fonte energetica con cui contrastare il cambiamento climatico.

Questa scelta ha giustamente scatenato un acceso dibattito perché il nucleare, non solo non è una tecnologia verde, ma non è neanche una fonte energetica adatta per attuare quello sviluppo sostenibile verso il quale dobbiamo andare con forza e determinazione.

Il nucleare non è una tecnologia «verde»

Le centrali nucleari attualmente in uso sfruttano la reazione di fissione dell’uranio-235: già questo è un primo aspetto di insostenibilità ambientale. Infatti, il combustibile usato, l’uranio, è una risorsa non rinnovabile e scarsa. Inoltre, i processi di estrazione sono inquinanti e pericolosi per i lavoratori.

Così, all’aspetto di insostenibilità ambientale, si somma quello di insostenibilità sociale. Ma non finisce qui, perché occorre pure considerare che i paesi con riserve di uranio economicamente sfruttabili sono pochi, in pratica solo Kazakhstan, Australia e Canada. Tre paesi, quindi, ne controllano la disponibilità, creando una evidente situazione di insostenibilità economica (almeno finché gli stati non capiranno che, in un mondo globalizzato, nessuno è autosufficiente).

Veniamo al punto cruciale: il nucleare non è una tecnologia verde, in netto contrasto con quanto affermato dalla Comunità Europea. Non lo è perché se è vero che nelle centrali nucleari viene generata elettricità praticamente senza emissioni di CO2 grandi quantità di questo gas vengono prodotte nel processo di estrazione, purificazione e stoccaggio del combustibile, nella costruzione della centrale e nella fase di dismissione della centrale a fine vita.

Considerato tutto, le stime dicono che il nucleare immette in atmosfera da 120 a 150 grammi di CO2 ogni kWh [1], per cui non è assolutamente carbon-free ed è del tutto perdente rispetto all’idroelettrico (4 g di CO2/kWh), all’eolico (8 g di CO2/kWh) e al fotovoltaico (33 g di CO2/kWh), le tre principali fonti energetiche rinnovabili [2].

A questo ulteriore aspetto di insostenibilità ambientale se ne aggiunge un altro dovuto al fatto che la siccità sta aumentando praticamente ovunque, mentre il nucleare ha, giustappunto, bisogno di molta acqua per il raffreddamento degli impianti.

Le scorie, problema irrisolto

Il nucleare è una tecnologia complessa e costosa. Una centrale da 1.000 MW ha un costo di progetto che va da 12 a 15 miliardi di dollari che lievita considerevolmente in corso d’opera. I paesi poveri, quelli che hanno più bisogno di energia, non possono assolutamente affrontare tali costi: un altro chiaro segno di insostenibilità sociale.

Ma i più gravi aspetti di insostenibilità sociale, ambientale ed economica riguardano, sicuramente, le scorie prodotte dalle centrali nucleari. Dal punto di vista quantitativo, in realtà, non è molto: ogni anno una centrale da 1.000 MW ne produce 25-30 tonnellate, pari ad un volume di 3 m3; il vero problema è gestirle.

Per ridurre la quantità di scorie e facilitare la loro gestione, si può pensare al riciclo delle barre, considerando che il combustibile esausto contiene un’energia ancora molto elevata (oltre il 95% dell’energia iniziale). Ci si scontra, tuttavia, con tre grosse criticità: la prima è che tutti gli stadi del processo di riciclo sono inquinanti per l’ambiente e molto pericolosi per i lavoratori, la seconda riguarda il fatto che quasi tutti i reattori commerciali non sono adatti a funzionare usando combustibile riciclato, mentre la terza, forse la più importante, è legata alla stretta connessione tra la filiera del riciclo e il nucleare militare.

Quindi, stante l’improbabilità di riciclare le barre delle centrali, si continua, di fatto, ad accumulare scorie di materiale ad alta radioattività, per tempi lunghissimi: da 10.000 a 100.000 anni.

La costruzione di depositi «adatti e sicuri» in cui conservarle si è rivelata una strada lastricata di molti intoppi, soprattutto perché non è banale definire cosa significhi «adatto e sicuro» per i tempi lunghissimi in questione.

L’esempio del previsto deposito di Yucca Mountain negli Stati Uniti ne è la chiara dimostrazione: i lavori sono cominciati nel 1982 e si sarebbero dovuti completare nel 2012 con una spesa stimata di 96 miliardi di dollari, ma nel 2009, dopo aver già investito 19,5 miliardi di dollari, gli Stati Uniti hanno dichiarato fallito il progetto proprio perché, andando avanti con i lavori, si è messo in evidenza che il deposito non avrebbe avuto tutte le garanzie di sicurezza richieste.

Ciò che non è riuscito agli Stati Uniti è stato, invece, realizzato dalla Finlandia [3]: in questo paese, infatti, verrà aperto il primo deposito al mondo di scorie nucleari; si trova nella foresta di Olkiuoto, ha richiesto 40 anni di lavoro e un investimento di 3 miliardi di euro (Figura 1).

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Figura 1. Il deposito di scorie radioattive nella foresta finlandese di Olkiuoto

A parte il fatto, piuttosto preoccupante, che a ridosso della data di apertura si sta ancora discutendo su come trattare le scorie prima di tombarle, l’aspetto più sconvolgente è che a fronte di tanto lavoro e di tanti soldi spesi il deposito avrà una vita molto breve, ossia meno di 80 anni, dal momento che nel 2100 sarà già riempito e dovrà essere chiuso.

Le scorie, quindi, restano un problema che non siamo in grado di risolvere e che, dunque, lasciamo, con grande irresponsabilità, sulle spalle delle prossime generazioni. Come è stato giustamente sottolineato da J. Johnson [4]: It is at best irresponsible, at worst a crime, to leave the waste to be addressed by generations not yet born.

Se le scorie sono per sempre, anche una centrale nucleare è per sempre, perché ogni sito che l’ha ospitata ne porta indelebilmente i segni: la centrale, una volta dismessa, non scompare, ma viene trasformata in enormi silos, in cui devono essere tombate le scorie e le parti dell’impianto a cui, per ragioni di sicurezza, non si potrà mettere mano umana per tempi lunghissimi, e di cui, ancora una volta, si dovranno occupare le future generazioni.

Incidenti

Parlando di insostenibilità e sicurezza, non si può fare a meno di ricordare gli incidenti già occorsi. Limitando il discorso a quelli più gravi, cioè quelli che hanno riguardato la fusione, totale o parziale, del nocciolo, il primo da menzionare è quello avvenuto nel 1979 alla centrale di Three Mile Island in Pennsylvania: un incidente le cui conseguenze si sono trascinate per 40 anni almeno; solo nel 2019, infatti, tutto sarebbe stato messo in sicurezza, a centrale chiusa.

Curiosamente, pochi giorni prima di questo incidente, che gettò nel panico l’industria nucleare americana, uscì sugli schermi il film Sindrome cinese, con Jane Fonda e Jack Lemmon, che prevedeva proprio un incidente di tal genere, il che dà l’idea di quanto fosse forte lo scetticismo dell’opinione pubblica su questa industria già negli anni Settanta del secolo scorso.

Venendo a tempi relativamente più recenti, i non giovanissimi ricordano senza dubbio l’incidente di Chernobyl del 1986 le cui drammatiche conseguenze possono essere così riassunte (dati ripresi dai report dell’International Atomic Energy Agency, IAEA) [5]:

  • 53.500 km2 di area contaminata in Russia
  • 200.000 km2 di area contaminata in Europa (contaminazione da Cesio-137)
  • 50 persone morte immediatamente
  • 4.000 bambini e adolescenti affetti da cancro alla tiroide
  • 4.000 morti successive attribuite all’incidente di Chernobyl
  • 2.700.000 persone con necessità di essere supportate psicologicamente per oltre 20 anni dall’incidente.

Quell’incidente, peraltro, è tutt’altro che concluso, tanto è vero che si è dovuto costruire un secondo sarcofago per coprire il reattore incidentato ed evitare il rilascio in atmosfera degli isotopi radioattivi prodotti dalla fusione del nocciolo.

Questo secondo sarcofago è costato un miliardo e mezzo di euro, una spesa, coperta dalla Banca Europea per la Ricostruzione con la sponsorizzazione di 45 paesi, che si aggiunge agli 8,5 miliardi di dollari investiti dalla comunità internazionale e ai 15 milioni di dollari che l’IAEA ha messo a disposizione per l’assistenza tecnica e sanitaria. Naturalmente il costo umano è stato di ben altra portata, non traducibile in termini di mero denaro.

L’ultimo grave incidente è quello di Fukushima. La IAEA parla di 10.000 persone evacuate, di 642 km2 di area contaminata (escluse le foreste) e di un’ampia zona che non potrà essere abitata per lungo tempo, ma nel suo report più recente dice anche che è ancora troppo presto per stimare le reali conseguenze dell’incidente [6, 7].

Occorre inoltre sottolineare che gli effetti biologici – ad esempio, sindrome acuta da radiazioni e aumento dell’incidenza del cancro –, psicologici e sociali di un incidente grave, occorso in una centrale nucleare, sono pesantissimi, duraturi e, soprattutto, subdoli perché possono manifestarsi anche dopo molto tempo: chi è stato contaminato ha la sensazione di avere in tasca una bomba a orologeria che non sa quando esploderà.

Fissione nucleare: un bilancio

Un ultimo aspetto, non secondario, da considerare, riguarda i tempi di costruzione di una centrale nucleare stimati attorno ai 15-20 anni, ma che normalmente si prolungano sino a 35-40: un tempo troppo lungo, perché di energia «pulita» abbiamo bisogno subito.

In definitiva, l’attuale tecnologia nucleare è molto costosa, pericolosa, complessa da gestire, ha bisogno di tempi lunghi, lascia pesanti fardelli sulle spalle delle prossime generazioni e genera complicati problemi politici e sociali difficili da risolvere.

Ci si può aspettare che le cose cambino in futuro? Nonostante la ricerca scientifica nel settore del nucleare da fissione sia molto attiva, non avremo grandi novità in tempi brevi. Infatti, i reattori di quarta generazione sono ancora sulla carta, o in fase di prototipo, e la prospettiva dei piccoli reattori nucleari modulari (SMR), di cui tanto si sta discutendo in questo periodo, è ancora più dannosa, perché produrrebbe una diffusione sul territorio di impianti a rischio, con accresciute difficoltà a esercitare un controllo efficace sulle scorie radioattive e, quindi, a garantire la sicurezza delle popolazioni e dell’ambiente.

Per quanto riguarda specificatamente il problema delle scorie radioattive, uno studio abbastanza recente, uscito su una prestigiosissima rivista scientifica [8], ha valutato che l’uso degli SMR, comparati ai grandi reattori di progettazione tradizionale, porterebbe a un maggior accumulo di rifiuti nucleari; in particolare, il volume del combustibile nucleare spento aumenterebbe di un fattore di moltiplicazione pari a 5,5, quello dei rifiuti ad alta radioattività di un fattore 30 e, infine, quello dei rifiuti a bassa e intermedia radioattività di un fattore 35.

Infine, è giusto spendere due parole per quanto riguarda l’Italia, i cui cittadini, con ben due referendum, nel 1987 e nel 2011, hanno espresso, a larga maggioranza, un parere negativo sullo sviluppo dell’energia nucleare.

Per il nostro paese un ritorno a questa fonte energetica risulterebbe una vera follia. Lo sarebbe non solo per tutti i motivi qui evidenziati, ma anche perché l’Italia ha un territorio sismico densamente popolato, non ha riserve di uranio e, ormai, non ha più neppure le competenze per costruire e gestire una centrale nucleare, cosa che ci renderebbe dipendenti dalle nazioni che posseggono uranio e tecnologia.

C’è da aggiungere che, per l’Italia, la gestione delle scorie nucleari sarebbe un problema molto serio, posto che non abbiamo ancora trovato un accordo su cosa fare delle scorie prodotte dalle vecchie centrali nucleari dismesse. Ciononostante, l’attuale governo sta spingendo per riportarci sulla strada del nucleare.

Fusione nucleare: la grande illusione

Se con la scelta della Commissione Europea si vuole potenziare il nucleare da fissione, c’è anche chi ci vuole illudere del fatto che la fusione nucleare ci darà prestissimo energia pulita, sicura e inesauribile. In realtà si tratta – almeno per molto tempo ancora – di una vera e propria illusione.

Come è noto, si possono generare enormi quantità di energia non solo dalla fissione di atomi pesanti, ma anche dalla fusione di atomi leggeri: il processo che alimenta il nostro Sole. Il processo di fusione nucleare è, infatti, paragonabile al «Sole in bottiglia»: sicuramente una frase ad effetto, capace di colpire la fantasia del pubblico, ma che nasconde cosa significhi.

Vale la pena confrontare ciò che davvero avviene nel nucleo del Sole, a 150 milioni di chilometri dal nostro pianeta. All’interno del Sole c’è un plasma di protoni che, a quattro per volta, grazie a temperature e pressioni elevatissime – 16 milioni di gradi centigradi e 500 miliardi di atmosfere – fondono per dare luogo ad un nucleo di elio, con un difetto di massa tale da produrre un’enorme quantità di energia secondo la famosa formula di Einstein: E = mc2.

Poiché queste condizioni non potranno mai essere riprodotte nei laboratori terrestri, neppure in quelli più avanzati, si cerca di ovviare all’impossibilità di replicare il processo di fusione solare imitandone solo il principio. Si ricorre, infatti, ai nuclei di due isotopi dell’idrogeno – il deuterio e il trizio – che non hanno alcuna predisposizione a fondersi perché, essendo entrambi carichi positivamente, si respingono violentemente.

Quando però si riesce, in qualche modo, a portarli a contatto entra in gioco una forza nucleare attrattiva che agisce solo a cortissimo raggio, ma che è molto più intensa della repulsione fra cariche uguali: in tali circostanze i due nuclei fondono con la formazione di un nucleo di elio (He), l’espulsione di un neutrone e l’emissione di una grandissima quantità di energia che si manifesta sotto forma di calore.

Il problema, non l’unico, è che al fine di «costringere» i nuclei di deuterio e trizio a scontrarsi per poi incollarsi occorre mantenere confinato il tutto per il tempo necessario a produrre la fusione. Si utilizzano principalmente due approcci.

Il primo si basa sul confinamento magnetico del plasma, caldissimo, formato dai nuclei di deuterio e trizio: un campo magnetico potentissimo generato dall’esterno costringe questi nuclei a muoversi lungo traiettorie circolari in modo che, giro dopo giro, acquistino l’energia necessaria per dare luogo al processo di fusione. Il campo magnetico deve essere intensissimo e per mantenerlo tale servono magneti superconduttori che devono lavorare a temperature molto basse (– 268 °C): cosa tecnicamente molto difficile.

L’altro approccio è quello basato sul confinamento inerziale che consiste nel bombardare con potentissimi impulsi laser un piccolo contenitore in cui è presente una miscela solidificata – in quanto freddissima – di deuterio e trizio: si verifica così una intensissima compressione che determina, contestualmente, la risalita di pressione e temperatura, sino a una sessantina di milioni di gradi, tanto da innescare la fusione.

I due percorsi sperimentali

Il primo approccio è quello seguito a Cadarache in Francia da parte di un folto gruppo di paesi, compresi USA, UE, Cina, India e Italia, noto come «Progetto ITER» (Figura 2): sono già stati spesi 20 miliardi di euro senza essere ancora riusciti a produrre quantità di energia maggiori di quelle utilizzate. I report scientifici [9, 10] dicono molto chiaramente che la strada sarà ancora molto lunga e in salita, perché, ogni volta che viene fatto un piccolissimo passo in avanti, emergono nuovi problemi da affrontare.

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Figura 2. Il Tokamak è il cuore del progetto ITER; è infatti la macchina che utilizzando un potente campo magnetico confina il plasma caldo formato da nuclei di deuterio e trizio che vengono accelerati in modo da acquistare l’energia necessaria alla loro fusione

Presso la National Ignition Facility (NIF) del Laurence Livermore National Laboratory in California (USA) si sta invece studiando il secondo approccio. Il 13 dicembre del 2022 i giornali di tutto il mondo hanno riportato, con grande enfasi, che il gruppo di ricerca del NIF aveva ottenuto un importante risultato (Figura 3) [11, 12]: l’energia di 192 laser focalizzata su una sferetta contenente deuterio e trizio ha indotto in pochi nanosecondi la loro fusione, generando una quantità di energia (3,15 MJ) leggermente maggiore a quella iniettata dai laser nella sferetta (2,05 MJ).

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Figura 3. L’energia fornita da 192 laser viene concentrata su una sferetta contenente nuclei di deuterio e trizio inducendo la reazione di fusione

La cosa, però, passata sotto silenzio, è che i 192 laser hanno consumato circa 400 MJ, ai quali va aggiunta l’energia richiesta dalle altre apparecchiature costruite e utilizzate per preparare e seguire l’esperimento.

Oltre a vincere la sfida energetica – cioè produrre più energia di quella consumata – per generare energia su scala commerciale, si deve vincere anche un’altra sfida: modificare l’apparecchiatura per far sì che produca energia non per una piccolissima frazione di secondo, ma in modo continuo. La maggioranza degli esperti concorda sul fatto che con questo metodo così complicato è impossibile generare elettricità a costi commerciali competitivi.

C’è il fondato dubbio che i laboratori di ricerca, per assicurarsi i necessari e ingentissimi finanziamenti pubblici, cerchino di «vendere» ai decisori politici e ai cittadini – tutti – i risultati conseguiti come successi strepitosi. C’è da aggiungere che la competizione, presente da decenni, tra confinamento magnetico e confinamento inerziale, spinge ciascun gruppo di addetti a dimostrare di essere il migliore.

Inquietudini e perplessità

Sullo sfondo – e resta un fattore sempre da sottolineare – c’è l’inquietante spettro militare, perché il compito primario del NIF non è quello di studiare la fusione per ottenere elettricità, bensì di sfruttarla a fini bellici.

Oltre a ciò, la fusione nucleare fa insorgere molte altre perplessità.

La prima riguarda il fatto che, indipendentemente dal modo con cui viene ottenuta, ammesso che ci si riesca, occorre disporre dei due citati isotopi dell’idrogeno. Ora, mentre il deuterio è abbastanza abbondante, il trizio è molto raro; è radioattivo e decade con un tempo di dimezzamento di 12 anni.

Quindi, ci si imbarca in un’impresa titanica, conoscendo, già in partenza, la penuria della materia prima. Chi lavora nel settore ci sta dicendo che il trizio potrà essere ottenuto “in situ” bombardando con neutroni il litio 6, cosa che però significa aggiungere complessità a complessità [13].

Un’ulteriore perplessità è connessa alla radioattività indotta nei materiali dai neutroni prodotti assieme all’elio nella reazione di fusione, il che vuol dire che la struttura stessa del reattore diventa radioattiva e che, in fase di dismissione dell’attività, genera, pure, scorie.

Anche se in questo caso i tempi di decadimento degli isotopi radioattivi non sono così lunghi come quelli creati dalla fissione, è un falso in atto pubblico definire il nucleare da fusione una tecnologia «pulita», poiché lascia, a sua volta, il problema della difficile gestione delle scorie [13].

C’è poi una grande perplessità legata al confinamento magnetico e, in particolare, al fatto che i superconduttori devono essere raffreddati ad elio liquido, un gas molto raro e sicuramente non sufficiente per la gestione di reattori a fusione su vasta scala, dal momento che, già ora, scarseggia.

Qualcuno teme addirittura che, a breve, non sarà più possibile utilizzare la tecnica NMR, così importante nella ricerca scientifica e, soprattutto, in ambito diagnostico, proprio perché si usa, come liquido di raffreddamento, l’elio.

 La strategia dell’ENI

In conclusione, la storia della fusione nucleare, dagli anni Cinquanta del secolo scorso a oggi, dimostra che questa tecnologia non riuscirà a produrre elettricità a bassi costi e in modo attendibile in un futuro ragionevolmente vicino.

Nonostante ciò, a marzo del 2023, i giornali hanno riportato che ENI, per voce del suo amministratore delegato Carlo Descalzi, vuole puntare tutto sulla fusione nucleare «perché permette di ottenere energia pulita, inesauribile e sicura per tutti: una vera rivoluzione capace di superare le diseguaglianze fra le nazioni e di favorire la pace» [14, 15]. Tale affermazione mi lascia allibita, dal momento che non si capisce come i paesi poveri potranno mai accedere ad una tecnologia così sofisticata e costosa.

Descalzi ha, poi, aggiunto che – grazie agli studi portati avanti dal MIT di Boston finanziati anche da ENI – nel 2025 sarà pronto un impianto pilota a confinamento magnetico in grado di ottenere elettricità dalla fusione e che, nei primi anni del 2030, sarà operativa la prima centrale industriale basata su questa tecnologia. È un’altra affermazione che lascia ancora più stupiti, perché ha del miracolistico: sembra che all’improvviso e velocemente possano essere risolti i tanti e i gravi problemi sinora incontrati dagli scienziati che lavorano nel settore da decenni.

In realtà si tratta dell’estremo tentativo di ENI di distrarre le persone − e in particolare il personale politico − dalla necessità e dalla urgenza di abbandonare l’uso dei combustibili fossili e di sviluppare le già mature ed efficienti tecnologie del fotovoltaico e dell’eolico.

Ancora una volta ENI ci vuole illudere di voler cambiar tutto, senza cambiare nulla. La sua classica strategia è mettere sotto il tappeto le emergenze che dobbiamo affrontare immediatamente, per poter continuare ad estrarre e vendere combustibili fossili, senza curarsi dei gravi e ben noti problemi causati dal loro uso.

Margherita Venturi, Dipartimento di Chimica “Giacomo Ciamician” dell’Università di Bologna, Gruppo Energia per l’Italia. e-mail: margherita.venturi@unibo.it


[1] http://www.stormsmith.nl/Resources/nucl%26climsumm2015.pdf

[2] https://www.nature.com/articles/s41560-020-00696-3

[3] https://www.green.it/lincredibile-deposito-rifiuti-radioattivi-450-metri-profondita-finlandia/

[4] https://cen.acs.org/articles/86/i18/Forever-Waste.html

[5] https://www.iaea.org/topics/chornobyl

[6] https://www.iaea.org/publications/10962/the-fukushima-daiichi-accident

[7] https://www.iaea.org/sites/default/files/first_interlaboratory_comparison_on_the_determination_of_radionuclides_in_alps_treated_water.pdf

[8] https://www.pnas.org/doi/full/10.1073/pnas.2111833119

[9] https://www.iter.org/proj/inafewlines

[10] https://www.abc.net.au/news/science/2023-03-19/nuclear-fission-iter-experiment-france-construction/102050226

[11] https://www.science.org/content/article/fusion-breakthrough-nif-uh-not-really

[12] https://www.nature.com/articles/d41586-022-04440-7

[13] https://thebulletin.org/2017/04/fusion-reactors-not-what-theyre-cracked-up-to-be/

[14] https://www.eni.com/static/it-IT/infografiche/longform-fusione-magnetica/

[15] https://www.agi.it/economia/news/2023-03-09/eni-descalzi-boston-fusione-nucleare-20431313/

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