La morale nella cultura laica

di:

andres torres queiruga

Una materia teorica, con un urgente riferimento pratico. Un tema in continua costruzione, di grande attualità, che richiede una riflessione approfondita e studi prolungati. Resta inteso che l’unico scopo di questa riflessione è quello di offrire alcune considerazioni che ne delimitino la portata, offrano impressioni più elementari e incoraggino il dialogo.

1. Il problema: religione e morale nel cambiamento della cultura

La novità del problema è dovuta a un cambiamento culturale di vasta portata, che ha introdotto una vera e propria mutazione nella comprensione di quasi tutti i principali temi e problemi umani. Anche nell’etica e nella morale (qui farò riferimento a entrambi i nomi in modo indistinto, attenendomi al loro senso radicale di ricerca di quelle regole di condotta che rendono la vita più umana e autentica: che sia “buona”). Il cambiamento è in atto da tempo, ma riguarda il mondo morale e il suo rapporto con la religione in modo particolarmente intenso, perché scuote strati molto profondi della cultura e della convivenza.

Al suo livello più profondo, consiste nel passaggio da una morale determinata in modo prescrittivo ed espressamente motivata dalla religione a un’altra che non vi cerca né la guida teorica né l’unica motivazione pratica. Fa parte dell’ampio processo di secolarizzazione; ha, quindi, radici cristiane, perché (anche se il grado di influenza può essere discusso) trova un fondamento molto decisivo nell’idea di creazione, che preserva la consistenza stessa del mondo come distinto da Dio.

Una famosa frase del giusnaturalista Hugo Grocio, afferma, a un tempo, che le leggi varrebbero «anche se Dio non esistesse» (etsi Deus non daretur), aggiungendo però tra parentesi «cosa che non può essere pensata senza blasfemia» (quod sine summo scelere dari nequit), illustra bene una dinamica del processo. Se prima, come motivazione di fondo, si diceva o si pensava che rubare è male perché Dio lo ha proibito, ora ci viene spontaneo dire che è proibito perché è male (anche se non sempre si chiarisce il perché).

Ma l’atmosfera polemica che si impose a partire dall’Illuminismo, nel quale lo scontro tra le inerzie teoriche e gli interessi del potere ecclesiastico, da un lato, e la reazione tipica dell’adolescenza rinnovatrice di molti rappresentanti delle nuove idee, dall’altro, oscurarono il panorama. La riaffermazione dell’autorità religiosa sulle norme morali, da parte dei primi, e la radicale negazione di qualsiasi tipo di presenza trascendente, da parte dei secondi, hanno portato a un scontro che persiste in molti strati della cultura occidentale.

Hegel, soprattutto nel suo breve saggio Fede e conoscenza,[1] mise in guardia con lucidità storica della grave perdita che ciò poteva provocare per tutti: la religione, immunizzandosi dalla critica, diventa incredibile; la ragione, perdendo la sua profondità trascendente, diventa pragmatica e superficiale. Accuse radicali di eteronomia contro ogni presenza del religioso nella vita etica o morale, da un lato, e una strenua difesa della visione del passato, che rifiuta di ammettere la giusta autonomia nella determinazione delle regole, dall’altro, segnano un panorama ancora irrisolto e nemmeno moderatamente chiarito nel suo senso.

Le circostanze particolari della cultura spagnola accentuano ancora di più questa difficoltà, perché, a una relativa clausura culturale e socio-politica, è seguita un’apertura democratica, rapida e per certi aspetti esplosiva. Mentre, nella cultura generale, questo contrasto non è ancora risolto in modo soddisfacente, qui sta assumendo un carattere che, a mio avviso, richiede una riflessione pacata e urgente.

2. Ipotesi di lavoro: ridefinire il ruolo della religione

Per chiarire ciò che intendo offrire alla riflessione comune, indico l’ipotesi di lavoro – nel suo significato minimo e più elementare, se mi permetto di qualificarla come tesi – che intendo proporre. Essa si compone di due parti: 1) insistere su una comprensione integrale dell’etica e 2) delucidare i principi fondamentali del ruolo della religione per una gestione comune dell’etica nell’attuale situazione critica.

2.1 Una comprensione integrale dell’esperienza etica

Innanzitutto, è necessario distinguere due livelli basilari. Fondamentalmente sono riconosciuti da tutti, ma non sempre sono sufficientemente esplicitati o portati alle loro conseguenze:

1) la determinazione delle regole, come linee guida che dovrebbero governare la condotta etica e morale: diciamo, ad esempio, che pagare le tasse è un dovere morale; e

2) la giustificazione e la motivazione dell’osservanza: so che è morale pagare le tasse, ma perché dovrei pagarle, anche se va contro gli interessi miei o del mio partito?

Quest’ultima domanda riguarda tutti, ma preannuncia già la differenza che ci permette di distinguere con precisione i ruoli delle diverse istanze sociali, in particolare tra quelli che corrispondono alla sfera comune, che coinvolge tutti allo stesso modo, e quelli propri delle diverse visioni del mondo, intenzioni o credenze specifiche. Dato che questa riflessione intende prestare un’attenzione particolare, anche se non esclusiva, al ruolo specifico della religione, è necessario distinguere con molta attenzione tra i due livelli.

Tenendo conto di questa distinzione, per quanto riguarda questa prima parte, l’ipotesi può essere specificata come segue:

a) Per quanto riguarda le regole, la morale è autonoma, nel senso che non è determinata dalla religione, perché lo scopo di queste regole è la ricerca del bene umano, che, come tale, è comune a ogni persona. Più concretamente: non c’è nulla che a questo livello debba essere – in linea di principio – diverso per un credente o per un ateo: non esiste una “morale religiosa”, per lo stesso motivo per cui non esistono una fisica o una medicina religiose.

b) Per quanto riguarda la giustificazione e la motivazione, la situazione è diversa. Ogni istanza deve riconoscere la particolarità del suo ruolo specifico. Anche la religione, essendo chiaramente consapevole che la propria competenza diretta si riferisce ai credenti, anche se, nella misura in cui riguarda la vita di tutti, può fornire la propria visione come libera proposta a chiunque la ritenga conveniente.

La conseguenza che se ne può dedurre è che la determinazione delle norme rappresenta un compito strettamente comune. Poiché esse ci riguardano in quanto esseri umani, siamo tutti chiamati a collaborare e nessuno – individuo o gruppo sociale – dovrebbe essere escluso in linea di principio, qualunque sia la natura religiosa o areligiosa della propria visione del mondo. L’unica, ma indispensabile, condizione è che, a questo livello, tutta l’argomentazione sia rigorosamente etica.

Per quanto riguarda le motivazioni della visione del mondo – come discuteremo più avanti –, è normale che ogni gruppo mantenga il proprio ruolo e offra la propria proposta. Ma nel dialogo, nella misura in cui si svolge a questo livello, deve emergere esplicito il suo carattere specifico, in modo che sia chiaro che è direttamente rivolto a quelli della propria comunità di credenti, mentre rispetto agli altri vuole essere soltanto un’offerta di dialogo e di possibile accettazione.

2.2 Il profilo anomico della situazione

Vale la pena ricordare le caratteristiche peculiari della situazione spagnola. Perché è innegabile che, nell’ambito pubblico più generale e nelle volgarizzazioni mediatiche, le distinzioni non sono state debitamente tracciate e le competenze non sono state rispettate. La distinzione ha assunto lo stile della polemica intransigente e della squalifica sommaria.

La voce “ufficiale” dell’episcopato – che, in precedenza, aveva avviato percorsi di conciliazione e dato un notevole contributo all’avvento della democrazia – si è sintonizzata con il duro spirito di restaurazione dei penultimi papi, cercando di imporre una concezione tradizional(ista), allergica al riconoscimento dell’autonomia della morale e, in generale, a un aggiornamento giuridico in corrispondenza della nuova situazione socio-politica.

In molti casi esplicitamente e quasi sempre in decisioni pratiche, ha continuato a operare con la pretesa di mantenere come verità di natura religiosa o di “diritto naturale” (scolasticamente interpretate) norme morali che evidentemente si appoggiavano a condizioni culturali anacronistiche e che a volte appaiono oggi come chiaramente antievangeliche.

Bisogna anche riconoscere che la reazione di gran parte delle forze politiche e persino di alcune decisioni governative, nonché dell’opinione pubblica più diffusa, non è stata caratterizzata da equilibrio. In parte alimentata – in una dialettica di azione e reazione – dalla citata posizione gerarchica; in parte da un’ignoranza – a volte crassa e satura di intransigenza polemica – dei tentativi di rinnovamento all’interno della teologia e dei gruppi dell’avanguardia rinnovatrice nella Chiesa, il risultato effettivo è un grave disaccordo.

Non è stato fatto un vero lavoro per uno stile di convergenza basato su una riflessione serena e rispettosa aderente alla storia, né è stato creato un clima di dialogo, alla ricerca di un nuovo modello per un futuro comune. Né ha contribuito il periodo di euforia consumistica determinato da un’economia che sembrava offrire un nuovo paradiso, dove tutto era legale e persino rispettabile purché fosse valorizzato dal denaro, indipendentemente da come lo si otteneva.

Considerando l’atmosfera generale, non so se sia esagerato parlare di un certo senso di anomia, cioè di mancanza di legge, nella sfera etica e morale. Che l’influenza sia reale, non c’è dubbio; solo la sua entità è discutibile. Non mi sento competente a misurarla, né di per sé è un compito scontato, poiché è evidente che in fenomeni così complessi non c’è spazio per spiegazioni semplici o attribuibili ad un’unica causa. Studi sociologici, che analizzino l’influenza della natura anomica di questa situazione, sarebbero certamente istruttivi.

Sicuramente getterebbero una luce importante sulla sensazione – e sulla realtà – di fenomeni che incidono fortemente sulla situazione attuale: la corruzione economica, generalizzata a eccessi incomprensibili; l’aumento dell’orribile violenza di genere, che riempie di omicidi i telegiornali; la non meno orribile corruzione dei minori, che, denunciata pubblicamente dal clero, sta mostrando la sua incredibile estensione nelle loro stesse famiglie e in varie istituzioni; il disorientamento di gran parte della popolazione, priva di una proposta di idee motivanti e manipolata da mode e ideologie superficiali…

Fortunatamente, l’insistenza su questi fenomeni non deve oscurare l’intero quadro. Ci sono anche reazioni positive, sia nella cultura generale sia in quella specificamente religiosa, in parte provocate dall’impatto della negatività stessa. Appaiono continuamente iniziative di una moralità generosa, ricca di valori profondi e di autenticità.

La stessa crisi economica, mettendo in discussione le dinamiche del consumismo e svelando le crudeli ingiustizie del sistema, sta risvegliando le coscienze e mostrando la necessità di elaborare nuovi patti di convivenza, di organizzazione socio-politica e di ricerca di senso. Quanto alla teologia, ha prodotto opere che riconoscono espressamente l’autonomia morale.[2]

3. La gestione della moralità nella cultura secolare

Un simile panorama richiede una reazione da parte della società nel suo complesso, al fine di cooperare alla creazione di un nuovo clima morale. Vale la pena di menzionare i due livelli fondamentali: la determinazione delle regole e la giustificazione e motivazione del loro rispetto.

3.1 La determinazione delle norme

La determinazione concreta delle norme è un compito importante e urgente, che deve dare luogo a una riflessione attenta al momento socio-culturale. Anche qui è necessario distinguere due momenti importanti: l’intenzionalità specifica della morale e, successivamente, la modalità di due diverse influenze che la riguardano.

3.1.1 Preservare l’intenzionalità etica: il bene delle persone

Non è necessario insistere sul fatto che lo scopo dell’etica o della morale è quello di ricercare quella che è stata definita la “vita buona”, cioè di trovare linee guida per la condotta che aiutino l’autentica realizzazione delle persone, degli individui e della società. Nella sua elaborazione, essa deve escludere la difesa di interessi, qualunque essi siano, che sono in contrasto con tale realizzazione.

In linea di principio, questo sembra – e credo sia – ovvio. Ma basta osservare le discussioni, in generale, o ascoltare i sermoni religiosi, in particolare, per percepire che non è questo il tono, la musica di sottofondo, che accompagna l’elaborazione delle teorie e la percezione dei messaggi. La sensazione che mi rimane è che il rispetto della morale sia qualcosa di “obbligatorio” che ci viene imposto. Il bene che viene così ricercato – in sé e per sé – può essere reale; ma finisce per essere percepito come un servizio o uno strumento per qualcosa di diverso dal proprio essere: sia esso la felicità immediata, il bene dello Stato o la gloria di Dio.

È indispensabile introdurre un cambiamento radicale nell’annuncio della morale. I buoni educatori lo sanno bene: il ragazzo o la ragazza devono passare dallo stadio “convenzionale”, in cui le regole dei genitori sono percepite come un peso o un’imposizione (“perché me lo comandano loro, ma potrebbero non comandarmelo, e così sarei più felice”), a comprenderle come l’unico tipo di comportamento che permette di vivere bene la propria vita. È il passaggio dall’eteronomia all’autonomia.[3]

Di conseguenza, l’intenzionalità etica deve presiedere come principio inviolabile a ogni dialogo e a ogni discussione. Presiedere alla propria posizione, in primo luogo, senza cercare vantaggi personali o difese partitiche, ideologiche o religiose. E ammettere che, allo stesso modo, presiede alla posizione degli interlocutori, presupponendo anche in loro la stessa volontà di cercare il bene degli individui e della società.

Non è mai facile. Tuttavia, non è cosa da poco riconoscere il principio in sé, come invito a sforzarsi di coltivarlo nel dialogo. Altrimenti continuerà a prevalere uno dei modi più sterili di affrontare questi temi: “voi la pensate così per uno slogan di partito o per obbedienza al papa; noi difendiamo il popolo, ma voi difendete la vostra ideologia o la vostra religione…”.

Sto semplificando, ma basta rivedere, ad esempio, le discussioni sull’aborto o sull’eutanasia, per percepire che non sempre prevale la razionalità strettamente etica, né la fiducia che l’altra parte cerchi, come noi, il bene delle persone e della società.

3.1.2 La religione come “contesto della scoperta” delle norme morali

Parlando di norme, è decisiva una nota distinzione di ampio raggio epistemologico nella ricerca: la distinzione tra “contesto della scoperta” e “contesto della giustificazione”.

Il primo consiste nelle condizioni e nelle possibilità che, come la situazione storica o la visione del mondo dei diversi partecipanti, influenzano effettivamente il risultato della ricerca: senza la lettura di Alexander von Humboldt e il viaggio sul Beagle, Darwin non sarebbe mai arrivato alla teoria dell’evoluzione.

La seconda si riferisce alla questione di principio, cioè alle ragioni intrinseche che garantiscono e giustificano la validità o la verità del risultato in sé e per sé, indipendentemente dal percorso lungo il quale è maturato: in breve, il valore del darwinismo dipende dalle ragioni che adduce in campo biologico.

È innegabile che storicamente la religione abbia fatto da matrice a quasi tutte le norme morali che l’umanità ha adottato nel tempo e nelle diverse culture. Il cambiamento radicale prodotto dalla scoperta moderna dell’autonomia del mondo non annulla la sua influenza, ma occorre ridefinirla con grande precisione. Rinunciarvi significherebbe buttare via la ricchezza di un sapere millenario. Ma mantenerla intatta sarebbe un anacronismo sterile, che porta la religione a invadere competenze che non le sono più esclusive e può diventare fonte di conflitti insolubili.

In realtà, come vedremo, credo che la mancanza di chiarezza su questo punto stia ostacolando seriamente il dialogo. Infatti, ci impedisce di utilizzare correttamente gli importanti e significativi progressi dell’ultima posizione di Habermas. Succede in lui e può succedere anche nell’utilizzo che se ne fa in teologia, come, ad esempio, quello di O. González de Cardedal, che da tempo sta facendo una riflessione molto seria e informata sulla questione (chiarirò questa osservazione più avanti).[4]

La cosa curiosa è che, restando nel problema della determinazione delle regole, il cambiamento del ruolo della religione non è così radicale come sembra. Si dà solo il caso che ora l’influenza sia espressamente situata dove, in sostanza, è sempre stata implicitamente presente: nel contesto della scoperta. Questo è, infatti, ciò che è implicito nel rifiuto tradizionale del volontarismo etico: la tradizione più forte sostiene che qualcosa “non è cattivo perché è proibito, ma è proibito perché è cattivo”.

È vero che per poterla portare oggi alla sua piena conseguenza, essa presuppone due novità: a) la scoperta dell’autonomia del mondo, sempre più riconosciuta in teologia, e b) un nuovo concetto di rivelazione, già ampiamente favorito dai progressi della critica biblica, ma ancora non portato in modo soddisfacente alla sua conseguenza su questo punto.

La Rivelazione non può più essere vista come un “dettato” divino, ma come un “rendersi conto” di ciò che Dio sta attivamente cercando di mostrare a tutti noi nelle e attraverso le realtà create. Non è questa la sede per approfondire questo delicato argomento. Spero che si possano dare alcune indicazioni sintetiche.[5] Quando Mosè (simboleggiamo nel suo nome tutto ciò che la tradizione gli attribuisce) scoprì le regole morali della comunità e le proclamò come comandamenti del Signore, disse la verità. Ma la disse perché, considerando la dinamica della realtà, si rese conto e comprese che esse indicavano le linee di condotta che Dio – essendo il creatore dell’essere e del modo di essere del mondo – cercava di manifestare come adeguate al bene della comunità.[6]

La coscienza dell’autonomia non nega la realtà dell’azione divina, ma obbliga a vederla come si realizza in e attraverso le cause create (“cause secondarie” dicevano gli scolastici). La critica biblica insegna che non si tratta di aspettare “voci dal cielo” che manifestino le linee di condotta. Quello che ci viene chiesto è di esaminare con dedizione e attenzione “le leggi e i valori” di cui Dio ha dotato “le cose create e la stessa società”, per “scoprirli, impiegarli e ordinarli a poco a poco”, in quanto espressione “assolutamente legittima” della loro autonomia.

Ho appena parafrasato le parole del Concilio nella Gaudium et spes, n. 36 (che vi invito a rileggere con molta attenzione), per sottolineare che si tratta di qualcosa di molto serio dal punto di vista teologico e, ripeto, molto tradizionale nella sostanza. Per questo motivo, vale la pena notare che questa ridefinizione, pur evidenziandone i limiti, lungi dall’annullare qualsiasi influenza della religione, ne chiarisce anche le possibilità specifiche… e può aiutare a recuperarne il prestigio.

Oggi come ieri, per fare un esempio importante, la fede cristiana nella paternità universale di Dio crea un contesto di scoperta che può facilitare la comprensione che tutte le persone – definite come figli e figlie – sono uguali in valore e dignità. Non a caso san Paolo proclamava l’uguaglianza essenziale, senza discriminazioni di religione o di razza, di sesso o di condizione sociale (cf. Gal 3,28); né a caso Hegel affermava che solo il cristianesimo affermava definitivamente la libertà di tutti (non solo dell’imperatore o dei cittadini) e il valore assoluto di ogni persona.

Lo stesso si potrebbe dire dell’idea del “Regno di Dio”, che mantiene la sua forza illuminante come orientamento nella ricerca etica di una società più giusta, libera ed egualitaria.

3.1.3 Ambiguità e carattere indiretto dell’influenza

Naturalmente, questa verità non equivale a una licenza a pensare che tutto quanto viene interpretato come una scoperta dal contesto della religione sia positivo e corretto. Come per tutto ciò che passa attraverso la mediazione umana, l’influenza della religione non ha sempre avuto effetti positivi. Ha portato, ad esempio, molti teologi e alte gerarchie a negare la libertà di coscienza nella sfera religiosa o a giustificare la disuguaglianza sociale come voluta da Dio.

Logicamente, ciò che diciamo del contesto religioso vale anche, sia in positivo sia in negativo, per i contesti non religiosi. In positivo, i rappresentanti della cultura non religiosa moderna sono stati, ad esempio, più lucidi del cristianesimo ufficiale nel tratteggiare – anche contro di esso – le vere conseguenze del Vangelo per la giustizia sociale e la libertà di coscienza.

Allo stesso tempo, non si può negare che le idee antireligiose nate da questa cultura abbiano portato ad assolutizzazioni della libertà e del potere umano, che non erano estranei a campi di concentramento, gulag o killing fields.

La conclusione è chiara: l’influenza non è univoca e deve agire indirettamente, come aiuto alle decisioni prese nel contesto della giustificazione. È in questo contesto che sarà necessario chiarire criticamente come sfruttare al meglio le influenze positive e come ridurre quelle negative.

In breve, meriteranno di essere accettate nella misura in cui, entrando in questo campo, le loro argomentazioni dimostreranno il loro valore all’interno dei parametri della “razionalità etica”. O meglio: dovranno dimostrare che le conseguenze scoperte ed espresse nel “gioco linguistico” della religione permettono di scoprire orientamenti comportamentali che possono essere sostenuti da ragioni appartenenti all’etica ed espresse anch’esse nel “gioco linguistico” della stessa.

Nel dialogo strettamente etico, la religione non può argomentare a partire dall’autorità della paternità di Dio nella Bibbia. Ma può mostrare come questa verità abbia aperto gli occhi al suo interno – e può aprirli anche agli altri ora – per percepire più facilmente le ragioni etiche che sostengono l’uguaglianza.

 3.2. Motivazione e giustificazione della vita etica

Pur essendo molto importante e quasi sempre al centro delle discussioni, la determinazione delle regole non è tutto, né forse la questione principale della vita etica. In breve, il problema si risolve sempre nella decisione di rispettare o meno le norme, anche quelle riconosciute come tali.

Per chiarezza, indico anche qui la forma che assume l’ipotesi di lavoro su questo punto: 1) a differenza di quanto accade nella determinazione delle norme, in questo campo l’influenza della religione è diretta; perché 2) la religione può influire approfondendo la giustificazione, con l’appoggio assoluto nella Trascendenza divina, e rafforzando la motivazione, attraverso la fiducia in Dio e la prova storica, soprattutto come è culminata in Gesù di Nazaret.

3.2.1 La contraddizione della libertà e la questione del fondamento

La ragione sta nel fatto che nell’etica si manifesta la contraddizione tipicamente umana della libertà finita, che non permette di risolvere in modo completo la tensione tra ciò che si vede come un dovere e la motivazione e la decisione di farlo.

Questa contraddizione è universale e riguarda ogni tipo di opzione di visione del mondo, come dimostra l’antica e significativa convergenza di due “confessioni” molto vicine nel tempo: quella del pagano Ovidio – «Vedo il meglio e approvo, ma seguo il peggio» (Metam., 7,19-20) – e quella del cristiano Paolo: «Non faccio ciò che voglio, ma faccio proprio ciò che odio» (Rm 7,19).

La convergenza mostra che si tratta di una questione umana in quanto tale, e ha quindi un carattere universale. Ciò significa, in primo luogo, che, appartenendo all’essenza stessa dell’etica, rientra nella sfera della sua autonomia, che non dev’essere violata. Ma significa anche che è aperta a qualsiasi influenza che possa confermare e aiutare l’effettiva realizzazione della vita etica.

La difficoltà e la complessità dei problemi che l’etica incontra in questo campo della giustificazione e della motivazione è ben nota.[7]

Le proposte si moltiplicano in un accumulo storico che non evita intersezioni o confusioni, sia nei metodi (empirismo, intuizionismo, fenomenologia…) sia nelle idee (utilitarismo, eudaimonismo, stoicismo…).

La presente riflessione, evitando discussioni di scuola o di sistema, si concentra sui due orientamenti che, in qualche modo, sono presenti in tutti i lavori di giustificazione: quello deontologico, che si riferisce all’esperienza fondamentale del dovere (non c’è umanità senza la distinzione etica tra comportamenti etici buoni e cattivi, quali che siano i modi concreti di interpretarla in ciascun caso) e quello teleologico, che mira al raggiungimento di una vita buona (non c’è umanità senza cercare, in un modo o nell’altro, un tipo di realizzazione migliore, quali che siano le idee proposte).

Il problema radicale può essere riassunto nella duplice domanda: perché e per cosa rispettare le norme etiche o morali.

La ricerca della risposta è uno dei compiti fondamentali dell’etica, che rientra nella sua autonomia: la dignità della persona, l’evidenza aprioristica dell’imperativo categorico, la forza dei valori etici, la coerenza del discorso razionale, l’impulso e la luce della tradizione… Ma, poiché riguarda la vita nella sua complessità, questa giustificazione va oltre l’ambito puramente etico e riceve sostegno dai diversi contesti in cui la vita si svolge. In un dialogo sereno e consolante, tutti possono e dovrebbero completarsi a vicenda.

Nella presente riflessione, è rilevante una distinzione fondamentale tra 1) i contesti religiosi (a loro volta molto diversi), che hanno e tengono conto della Trascendenza; e 2) quelli non religiosi, che si limitano all’immanenza puramente mondana. Questi ultimi, essendo situati sullo stesso piano del mondo, esercitano la loro influenza “in parallelo” con l’etica. Con due conseguenze: da un lato, delineano con forza i propri limiti; dall’altro, il loro aiuto non può infrangere i limiti dell’immanenza mondana.

Con questo non intendo né limitare l’autonomia dell’etica né sublimare i suoi limiti, per aprire la porta a un’influenza eteronoma del religioso. Da Bonhöffer in poi, la teologia attuale è ben avvertita di non ricorrere al dio-tappabuchi o, ancor meno, al dio-delle-discariche (deus-das-cloacas). Dio può avere senso solo come potenziamento/salvezza dell’essere umano, e solo dal basso: dalla solidarietà nel possibile superamento dei limiti e nella lotta contro il male: «non è questo che significa conoscermi?», diceva il profeta nell’Antico Testamento (Ger 22,15-16), confermato da Gesù nel Nuovo Testamento: «quando date da mangiare agli affamati» (Mt 25,34-36).

Ma è necessario prendere sul serio la questione se la giustificazione autonoma dell’etica in quanto tale racchiuda e soddisfi l’intera questione umana. C’è chi pensa di sì: lo proclamava, ad esempio, Tierno Galván, sostenendo di sentirsi comodamente installato nell’immanenza. Ma ci sono molti che pensano il contrario: dal diffuso “non sappiamo” dell’agnosticismo, all’affermazione dell’“assurdità” a tinte forti di Schopenhauer, Sartre o Camus.

In etica, il significato di questa insoddisfazione è stato ben espresso da due pensatori significativi.

Sigmund Freud, alludendo più direttamente alla motivazione, riconosceva la sua incapacità di sapere perché dovesse fare il bene quando era contro il suo stesso interesse.[8]

E Max Horkheimer, riferendosi più espressamente alla giustificazione, ha ripetutamente affermato che solo nella Trascendenza sarebbe possibile trovare una giustificazione ultima.[9] È in questa difficoltà, così profondamente e dolorosamente umana, che la religione può avanzare la sua offerta.

3.2.2 Religione e morale: le sfere kantiane e l’orizzonte teonomico

Credo che, di solito, non si sottolinei a dovere che il cuore della filosofia kantiana è l’affermazione di questa insoddisfazione. Kant rileva la contraddizione aprioristica tra l’adempimento etico dell’imperativo categorico, che di per sé esige la felicità, e l’impossibilità di fatto di raggiungerla, data la finitudine della natura. Per questo motivo, vede la conciliazione possibile solo attraverso l’idea di Dio che, essendo l’autore della natura e della libertà, ha la capacità di garantire la speranza di conciliazione tra etica e felicità. Tuttavia, non è riuscito a trarre tutte le conseguenze.

Soprattutto, non ha raggiunto una chiarezza totale sull’articolazione tra l’influenza della religione e l’autonomia dell’etica. Di fatto, l’impressione che diede alla filosofia fu il carattere eteronomo della religione. Non si può negare che di fatto la religione abbia operato in questo modo molte volte e possa continuare a farlo. Egli stesso ricorre al tipico esempio del sacrificio di Isacco,[10] contro l’interpretazione “ufficiale” mostrò che il comandamento religioso dovrebbe essere rifiutato da un’autonomia etica:

«Abramo avrebbe dovuto rispondere a questa pretesa voce divina: “che io non debba uccidere il mio buon figlio, è certissimo; ma che tu, che mi appari, sia Dio, non ne sono sicuro, né potrei esserlo, anche se quella voce risuonasse dai cieli visibili”».[11]

Ha perfettamente ragione in ciò che ha detto. Ma, come lui la interpreta, non è l’autentica verità della religione, perché il letteralismo nell’interpretazione della Bibbia che prevaleva ai suoi tempi (di cui erano responsabili i teologi) non gli permetteva di mettere correttamente in relazione il rapporto tra ragione e rivelazione (anche se fece importanti passi avanti).

Egli simboleggiava ciò parlando di due sfere concentriche: quella interna, che rappresentava la ragione, e quella esterna, la rivelazione. La seconda contiene la prima, cosicché, oltre alle verità della ragione, la rivelazione ne contiene altre al di là del suo scopo.[12]

Di conseguenza, Kant ammette che la ragione non abbraccia tutto; ma ha il diritto di scagionare le verità della rivelazione nella misura in cui rientrano nella sua sfera. Per questo motivo non ammette come etico il “comando” divino di sacrificare il proprio figlio.

Come si vede, Kant ha effettivamente ragione; anzi, in fondo, annuncia la soluzione corretta, poiché non accetta l’esistenza del comandamento. Ma l’interpretazione prevalente della rivelazione non gli offriva la possibilità di riconoscere pienamente la conseguenza che, in linea di principio, non ci può essere contraddizione tra etica e religione: secondo la lettera della Bibbia, non c’è mai stato e non ci potrà mai essere un tale comando divino. Perché la rivelazione nasce dall’interno, dall’immanenza creativa di Dio alla radice stessa dell’essere umano: la remissione alla Trascendenza non esercita un’influenza “in parallelo”, ma attraversa “in verticale” e conserva tutto ciò che è stato acquisito in ambito etico.

Ecco perché preferisco l’“orizzonte” all’immagine delle sfere. Sempre davanti a noi, l’orizzonte si mostra in cerchi aperti e dinamici, che si aprono (o possono aprirsi) davanti a noi. L’esplorazione dell’immanenza divina può fermarsi alla contemplazione della realtà del mondo e allo studio del suo funzionamento interno: questo è, ad esempio, l’orizzonte legittimo e sufficiente delle scienze.

È anche l’orizzonte dell’etica, in quanto disciplina filosofica che determina autonomamente le norme, esaminandone le interrelazioni e le conseguenze nella vita e nella convivenza umana: per questo Kant ha capito – dall’interno del primo cerchio – che non può essere eticamente corretto che un padre uccida il figlio.

Ma quando si pensa che l’orizzonte non si ferma all’immanenza, ma – a partire da essa e mantenendo il suo valore universale – si estende oltre l’empirico e il visibile, la rivelazione può aprire nuove prospettive. È stata analizzata in quanto crea uno specifico “contesto di scoperta” rispetto alle norme. Ma ora vediamo che può anche scoprire direttamente, sia nella sua origine sia nella sua destinazione, profondità che non si trovano nell’immanenza mondana.

Per questo parlo di “orizzonte teonomico”: la religione mostra, a ritroso, il fondamento ultimo del nostro essere in Dio e, in avanti, il suo destino di piena realizzazione nella comunione con lui. Ecco perché le norme etiche esprimono in modo identico le “leggi” etiche del nostro essere e le “leggi” che Dio vuole per la nostra salvezza: come abbiamo già detto, esprimono la stessa realtà in due contesti linguistici diversi.

3.2.3 Né la religione della “matrigna annientatrice” né l’etica del “ragno parricida”

Credo che i tempi culturali siano maturi per una riflessione – almeno quella più disinteressata, che cerca la chiarezza del pensiero, l’autenticità della religione e la pulizia dell’etica – possa entrare con uno spirito nuovo nelle vie del dialogo e della collaborazione. La struttura che ho cercato di scoprire può aiutare a unire le forze nello squisito rispetto della legittima autonomia sia dell’etica sia della religione. Il titolo di questa sezione indica due pericoli importanti. Tenendo conto di ciò, spero sia sufficiente qualche breve indicazione.

Vale la pena tornare all’esempio di Kant. Sicuramente la sua posizione ha scandalizzato molti, che hanno sentito minacciata l’integrità della fede. Ma, visto in prospettiva, è chiaro che egli ha reso un grande servizio e ha offerto una lezione duratura. Quando la lettera della religione incrocia la sfera dell’etica, si tratta di una dogana esigente ma giusta: in questo caso, l’interpretazione tradizionale non poteva passare al vaglio. L’importante è che questa critica abbia l’effetto positivo di costringerci ad aggiornare l’idea tradizionale di rivelazione, liberando l’immagine di Dio da un letteralismo che oggi lo trasformerebbe in un idolo che genera ateismo,[13] e, allo stesso tempo, permetta una lettura che recuperi il significato sublime del suo simbolismo strettamente religioso.

A volte, a ragione e a volte a torto, la critica etica della religione è esistita nel corso della storia e certamente continuerà a esistere in futuro. Ma è anche accaduto, e deve continuare ad accadere, che esista una critica religiosa dell’etica: da quella dei profeti contro gli abusi della ricchezza e del potere politico, agli appelli della teologia della liberazione. Se la dialettica si esercita in un dialogo aperto e in uno spirito di cooperazione, le difficoltà non scompariranno; ma rappresentano, per sé stesse, un fenomeno normale e produttivo, di cui bisogna approfittare.

L’importante è imparare le lezioni del passato, per mantenere nel presente una chiara distinzione tra i due livelli, esaminando con attenzione due aspetti: 1) ciò di cui si discute è un problema di determinazione delle regole o della loro giustificazione o fondatezza; oppure 2) si tratta di un fallimento di principio o di un abuso di fatto.

È evidente che, a partire dalla modernità, la critica dell’etica prevale fortemente sulla religione. Il cambiamento culturale ha portato alla luce l’insoddisfazione delle norme tradizionali che, soprattutto in questioni importanti nel campo della giustizia sociale e della vita sessuale, erano anacronistiche. Ma il lungo periodo di egemonia religiosa nella morale e la tendenza ecclesiastica a continuare a mantenere la propria autorità nel dettare le regole hanno avuto due effetti deleteri: l’accusa di eteronomia e, cosa ancora più grave, l’identificazione della religione con la morale. Così, sia i critici sia i difensori erano generalmente convinti che attaccare la morale significava attaccare la religione, e che più la critica avanzava, più la religione declinava… fino alla sua possibile estinzione. Questo, anche in un autore moderato come José Antonio Marina, portò alla convinzione che, sebbene nata al suo interno, l’etica stesse diventando una “progenie parricida” della religione.[14]

Inoltre, ci permette di chiarire un’affermazione che ho accennato prima: questa situazione intacca persino il tentativo cordiale e benintenzionato di Jürgen Habermas: quando parla di “traduzione” e “riscatto” dei valori presenti nella tradizione del religioso, vede in essi solo il loro valore etico. Il religioso non viene assassinato nella violenza della critica, ma tende ad annullarsi nella “dolce morte” della sua totale inclusione nell’etica. Questo costituisce anche un monito affinché l’etica non incorra nel pericolo che denuncia nella religione: quello di oltrepassare i propri limiti, di non riconoscere l’autonomia della religione e di negare la realtà dei suoi valori.

Ma qui penso innanzitutto alla religione. Da tempo, sono convinto che questa situazione sia diventata per essa una trappola mortale: a causa della ferita artificiale di una visione distorta del suo ruolo nella morale, sta subendo un’emorragia di milioni di fedeli. Questa non è, ovviamente, l’unica causa; ma ignorare la sua fortissima influenza è davvero suicida. Per fortuna, in linea di principio, le cose non stanno così e non devono stare così.

3.2.4 Una religione liberata per dedicarsi alla sua specifica missione

Per il bene della propria salute e, in ultima analisi, per il bene della verità evangelica, la religione deve accettare una dura cura dimagrante. Riconoscendo l’autonomia delle norme etico-morali, essa è libera di dedicare il nucleo dei suoi sforzi al suo ruolo diretto e specifico, cioè al fondamento assoluto dell’impegno morale e di offrire un incoraggiamento evangelico per la sua realizzazione. Come insegna la psicologia, gli eccessi dei bambini sono normalmente una reazione contro un padre castrante o una madre assorbente. Solo una religione e una Chiesa che assumano con maturità storica il loro ruolo autentico faciliteranno il passaggio dell’etica da una “prole parricida” a una “figlia emancipata”. Una volta ristabilito il giusto rapporto, sarà possibile un dialogo proficuo e una collaborazione efficace. Per il bene di tutti.

È comprensibile che, per la religione, sia difficile riconoscere l’autonomia delle norme etiche. Per cominciare, sembrerebbe minare la sua autorità nel campo della morale e mettere in discussione la verità della Bibbia. Ciò spiega le resistenze ad ammetterla, con esempi tanto estremi e inusitati come quello dei cardinali della Chiesa che si oppongono pubblicamente al papa nel suo intento di rinnovamento in questo campo.

Non è quindi difficile percepire il giusto rapporto, riferendosi all’esperienza più umana. Un padre o una madre non hanno né il diritto né l’autorità di “dettare” le regole di comportamento ai loro figli adulti; ma fanno molto bene e possono essere di grande aiuto quando li motivano e li incoraggiano a rispettare i doveri etici che essi stessi riconoscono.

In ambito teologico, trovo espressivo affermare che la Bibbia “non è un libro di morale”, ma che “è un libro profondamente morale”. In effetti, sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento, essa contiene la maggior parte delle norme morali e dei cataloghi di antiche religioni e filosofie. Ma, nel suo insieme, il suo spirito costituisce la più grande ispirazione morale della storia umana: ci apre a leggere con cuore aperto la passione dei profeti per la giustizia e la dedizione, fino alla morte, di Gesù a favore dei più bisognosi.

Assumere questa attitudine richiede certamente un atteggiamento modesto e realistico da parte della religione. Ma ne trarrà beneficio, perché le permette di accettare l’influenza positiva che può venire da altri contesti. Stando come stanno all’interno della sfera comune del dinamismo creativo, essi sono più competenti nell’esplorazione di campi concreti, aiutandolo così a leggere la “grammatica della creazione”.

Allo stesso tempo, dato che il rispetto genera rispetto, apre agli altri la strada migliore per poter riconoscere l’originalità dell’offerta religiosa e persino l’autorità della sua tradizione secolare.

La comprensione e l’accettazione che l’atteggiamento di papa Francesco sta ricevendo ne sono una prova significativa. Egli si concentra sui valori morali (in breve, sui problemi di giustificazione e motivazione), lasciando ai “teologi” il libero dialogo sulle questioni teoriche concrete.

Quando la fede religiosa viene interpretata nel suo senso autentico, nulla è più luminoso e più incoraggiante della visione e dell’incoraggiamento che ci vengono offerti nel cuore stesso dell’esperienza cristiana del “Dio che crea per amore”. Come Creatore, fonda e assicura la coerenza e il senso dello sforzo morale per l’autentica realizzazione: nessun fallimento e nessuna contraddizione possono separarci dalla sua incrollabile fedeltà (Rm 8,38-39). Creando per amore, entra nella vita umana solo ed esclusivamente come sostegno di infinita fedeltà e di instancabile aiuto: in Gesù, che raccoglie e porta a compimento una lunga e mirabile tradizione, offre un esempio vivente – che riesce a passare attraverso tutti i tentativi di manipolazione, esterni e interni – pieno di fiducia filiale e di dedizione senza riserve al bene degli altri.

Nel suo Vangelo, i valori specificamente religiosi sono il fondamento decisivo: «L’uomo non vive di solo pane…» (Mt 4,4: Lc 4,4). Ma essi non chiamano a un’evasione celestiale che ignori l’impegno etico, ma possono essere realizzati solo attraversandolo: in esso e attraverso di esso. Al punto che senza valore etico non può esserci valore religioso: è una menzogna dire di amare Dio e non amare il proprio fratello (1Gv 4,20); così che, in caso di conflitto, il criterio morale decide i tempi della condotta: «Se tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello» (Mt 5,23-24).

E se, per concludere, alziamo il tono, torniamo all’equivoco denunciato da Kant, Gesù ha proclamato che la chiamata religiosa non annulla l’etica invitando a uccidere, ma la potenzia incoraggiando, se necessario, a dare la propria vita: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13).


[1] Hegel, G. W. F., Glauben und Wissen, in: Werke in 20 Bänden, Suhrkamp, Bd. 2, 287-433.

[2] L’autonomia non è unanimemente accettata. M. Vidal, Ética civil y sociedad democrática, Bilbao2 2001, affronta le principali questioni concrete. X.M. Caamaño, Autonomía moral. El ser y la identidad de la Teología moral, Madrid 2013, con ampia presentazione e bibliografia; D. Mieth (ed.), La teología moral ¿en fuera de juego? Una respuesta a la encíclica «Veritatis splendor», Barcelona 1996, dialoga con la postura esposta da Xoán Paulo II. Per lo sfondo filosofico-teologico: M. Fernández del Riesgo, Ética y religión. La insuficiencia de la experiencia moral, Madrid 2016.

[3] Cf. J. Rubio Carracedo, «La psicología moral (de Piaget a Kohlberg)», in V. Camps, ed. Camps, ed., Historia de la ética, vol. 3, Barcellona 1989, 481-532.

[4] Ciudadanía y cristianía, Madrid 2016, 128-130; cosa che aveva già studiato in Ética y religión, Madrid 1977.

[5] Cf. A revelación de Deus na realización do home, Vigo 1985 (tradotto in spagnolo, seconda edizione riveduta: Repensar la revelación. La revelación divina en la realización humana, Madrid 2008).

[6] J.L. Sicre, Introducción al Antiguo Testamento, Estella2 2011.

[7] Per una visione d’insieme, si vedano, ad esempio, le sintesi di A. Cortina, «La ética discursiva», in V. Camps, ed. Camps, ed., Historia de la ética, vol. 3, cit., 533-576; L. Rodríguez Duplá, Ética, Madrid 2001.

[8] Lettera a James J. Putmam, 8-7-1915, in: Epistolario 1873-1939, Madrid 1963, 347).

[9] Cf. ad esempio La añoranza de lo completamente otro, in H. Marcuse, K. Popper e M. Horkheimer, A la búsqueda del sentido, Salamanca 1976, 105 ss. Cfr. M. Cabada Castro, El Dios que da que pensar, Madrid 1999, 178-179 e 115-237).

[10] Mi sono occupato del tema in Encrucillada 89/18 (1994) 325-342 e in Do Terror de Isaac ó Abbá de Xesús, Vigo 1999 (trad. inglese: Del Terror de Isaac al Abbá de Jesús Estella 2000; trad. portoghese: Do Terror de Isaac ao Abbá de Xesús, São Paulo 2001).

[11] Der Streit der Fakultäten, A 103 Anm.; Suhrkamp , Frankfurt a. M., XI2 1978, 333 nota.

[12] Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft¸ ed. cit., VIII, 659.

[13] Do Terror de Isaac ao Abbá de Xesús, cit., 53-54. 56-58, cito alcuni esempi.

[14] Cf. Dictamen sobre Dios, Madrid 2001. Ho dialogato con lui in: Ética y religión: “vástago parricida” o hija emancipada: Razón y Fe 249/1266 (2004) 295-314.

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