Rinaldi: immaginare l’umano

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Nel tentativo di ritessere le trame per un umanesimo ospitale e messianicamente ispirato, il punto di vista del Prof. Fabrizio Rinaldi, condensato in Antropologia teologica (EDB, Bologna 2022, pagine 304, euro 25), giunge davvero come il benvenuto.

L’autore, presbitero della diocesi di Modena, è attualmente docente di Teologia sistematica presso la Pontificia Università Gregoriana, nonché all’Istituto Superiore di Scienze religiose di Modena, dove ricopre anche l’incarico di Direttore.

Antropologia del quotidiano

La calibratura della sua proposta – agile, densa e ben articolata – appare capace di stare all’altezza tanto delle sfide più autentiche dell’animo umano, come di quelle configurantesi nel fronteggiamento della drammatica storica, attraversando per intero e senza sconcerto i fenomeni di frammentazione e liquidazione in seno alle società odierne.

Lo stile lineare e il taglio nitido della sua scrittura non solo non vanno a detrimento della complessità argomentativa di questa fondamentale disciplina teologica, ma si offrono come pregevole mediazione per le sue tematiche e in vista di un più agevole accesso da parte di non pochi/e potenziali lettori/trici.

Tutto ciò, insieme a numerosi riferimenti al quotidiano e ad esemplificazioni tratte dai processi gnoseologici attivi in altre scienze, rende il testo appetibile anzitutto, ma non unicamente, a chi voglia avviare una seria riflessione teologica intorno al mistero dell’umano esistere.

Al contempo si rivela operante in Rinaldi una quanto mai adeguata triplice convergenza: precisione nella determinazione del target (o, più opportunamente, destinatari/e); chiarezza sui versanti delle finalità teologico-formative e dell’urgenza di perseguirne gli obiettivi; conseguente messa in atto di una notevole e dinamica capacità di sintesi.

Esistere nel contemporaneo

Lo studio sembra aver intercettato con successo alcune faglie problematiche intorno al fenomeno umano presenti nella cultura occidentale. Davanti a tali evidenze l’autore reagisce in modo costruttivo, intessendo proficuamente con esse un dialogo promettente, e rilanciando fiducioso in direzione di quelle istanze ad esse più congeniali, circolanti in seno alla plurimillenaria riflessione biblica, magisteriale e teologico-cristiana. Non solo questo però.

Con sapiente abilità l’intreccio ermeneutico proposto da Rinaldi si sostanzia anche di costanti e pertinenti riferimenti alle indagini svolte nei diversificati campi delle scienze umane – filosofia, psicologia, sociologia, pedagogia, ecologia… solo per nominarne alcune tra le più considerate.

L’autore dichiara da subito di voler fare riferimento al metodo teologico della “correlazione”. Cosa intende? Il riferimento è senz’altro al procedere metodico ideato da Tillich, con anche un’eco di matrice hegeliana (Aufhebung).

Significa che, a presiedere l’intero processo riflessivo, va posto un dispositivo metodico in grado non solo di rendere inoperosa la rottura, che paralizza e contrappone il piano dell’esperienza dal discorso razionale, ma atto al tempo stesso a conservarla, elevandola al piano di una possibile nuova significazione.

E così si muove il Nostro, in quel saper mettere «in dialogo i vissuti dei credenti di oggi con le esperienze di chi ha incontrato Gesù di Nazaret» (p. 9). Un duplice rischio va evitato: da una parte, il personalismo del discorso teologico, allorché si perda «di vista le fonti storiche della tradizione cristiana» (ibid.) – Scritture sante in primis. Per contro, se non viene strutturalmente implicata l’esperienza di chi parla e di chi ascolta, il tutto si riduce a mera teoria, e ben presto ad un’ennesima versione ideologica di stampo religioso.

Oltre i dualismi moderni

Si provi a questo punto a seguire, a titolo esemplificativo, solo un paio delle suddette faglie prese in carico dall’analisi dell’autore. La prima ad apparire conserva – al modo di un epilogo sul piano epistemologico – i tratti caratteristici di quella vicenda che, sì, ha marcato profondamente la modernità, ma la cui storia affonda le proprie radici in ben altre origini filosofico-culturali.

La si nomini come dualismo relativo, non afferendo al livello più propriamente ontologico/metafisico. Se ne può ravvisare l’innesco teorico in un ben preciso lasso temporale. Corrisponde al momento stesso in cui il codice unitario della visione biblica, specificamente intorno al mistero dell’umano, entra sempre più stabilmente in contatto con il dispositivo culturale e linguistico di marca ellenistica. Lì, storicamente, accade che quella «tensione non eliminabile», caratterizzante biblicamente la vita umana, venga letta e restituita in termini dicotomici – anima/corpo – dal nuovo sistema di referenze semantiche, slittando verso «prospettive dualiste, le quali inevitabilmente finiscono per rendere secondario uno dei due elementi (in genere il corpo)» (p. 15).

Dualismo che, in regime di modernità, vede uno dei suoi più paradigmatici tornanti – non ancora interamente alle spalle – nella giustapposizione inconciliabile fra i livelli naturale e soprannaturale. Su questa scia si potrebbero citare altre forme di separazione, trasversalmente prese in esame nel saggio. A partire da quelle che scindono identitariamente il soggetto: da una parte, l’inaggirabile suo essere finito e, dall’altra, l’incondizionato dell’anelito all’infinito che, inestirpabile, lo abita. Per continuare con la versione che lo divide tra ideale e reale – ovvero, la dimensione individualista, in intimo e insonne contrasto con quella di carattere sociale-plurale.

Fino a toccare l’intero della natura relazionale dell’esistenza umana, percepita dallo strappo che oppone fra loro, e a tutti i livelli, le istanze dell’inter-dipendenza e della ricerca di un assoluto – per riferimento sia al trascendente, sia all’ambiente; tanto al versante dell’interiorità, quanto a quello dell’alterità…

A questo proposito, don Fabrizio riporta un suo ricordo personale, legato all’incontro con «una giovane donna che aveva combattuto alacremente per conquistare la propria autonomia» (p. 237) e che si era imposta di non voler avere debiti verso nessuno. Allorché i suoi amici, organizzatole una festa a sorpresa per i suoi quarant’anni, espressero tutta la loro ammirazione «riconoscendo che era riuscita a diventare una donna adulta e indipendente come aveva sempre desiderato», lei sussurrò a bassa voce come in realtà si sentisse «una donna molto sola» (p. 238).

Il testo del prof. Rinaldi, mentre annota che con «Agostino inizia a svilupparsi l’idea di due livelli distinti nel rapporto tra Dio e l’uomo», non è reticente nell’indicare che proprio la radicalizzazione di questa impostazione «è foriera di molti problemi», finendo per «ridurre la grazia di Dio a qualcosa di esterno alla vita umana» (p. 25).

«Guardare l’uomo da una prospettiva teologica» (pp. 7-24) significa piuttosto riconoscere con esattezza l’imprescindibilità e, dunque, la necessità di un ritorno all’originaria visione unitaria, facendosi carico, al contempo, della storicità effettiva – ovvero, della storia degli effetti – di quella esegesi culturale e teologica che su di essa si è applicata nel corso dei secoli. Per questo, insieme ai contributi più validi forniti dalle scienze nel campo dell’antropologia, la referenza alle Scritture sante ebraico-cristiane non può non essere costante e abbondante.

E senza più i contorni pretestuosi dell’avvio occasionale, per un sistema teologico teorizzato autonomamente altrove – bensì quelli epistemicamente preconizzati da DV 24: «sia dunque lo studio delle sacre pagine come l’anima della sacra teologia». Nella prospettiva inquadrata dalla sponda epistemologica, va senz’altro affermato che il tentativo elaborato dal Nostro in questo sintetico manuale è perfettamente riuscito.

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Una libertà graziosa

Una seconda faglia, insistendo maggiormente sul piano tematico-contenutistico, potrebbe essere individuata a trama di una/ogni biografia, con il seguente titolo: “Una storia di libertà – tra grazia e peccato”. Indiscutibilmente l’autore segue saldamente, con attenzione e convinzione, il vettore del libero disporre di sé che, fra l’ingovernabile e il misurabile, caratterizza l’unicità dell’umana esistenza.

In questo senso, centrali, non solo dal punto di vista redazionale ed editoriale, appaiono i capitoli riservati all’adeguato posizionamento biblico della questione, dal cui tracciato emerge senza ambiguità che, se nell’originario progetto divino «qualcosa è andato storto», non per questo è da «attribuire a Dio intenzioni malvagie».

Il male non viene dunque da Dio, semmai «deriva dal cattivo uso della libertà» umana (p. 53). Da qui ne viene, sul piano esistenziale, anche un indisponibile legame con le regioni morali e fisiche della sofferenza, la cui misteriosità non smette di interrogare tanto il singolo, quanto le scienze e le religioni. Così, immediatamente e nel secoli a venire (cfr. Capitoli III, IV – e V, VI, con uno sguardo attento al decisivo snodo storico-teologico tra Lutero e Trento), il dato scritturistico si affida a differenti linee interpretative, nella storia della predicazione e della spiritualità cristiana – non sempre congeniali, occorre ammetterlo, al portato rivelato.

Ne fa menzione esplicita Rinaldi quando sente necessaria una precisazione in ordine al valore redentivo della sofferenza. Se infatti Dio agisce sempre per il bene di ogni essere umano, attraverso molteplici mediazioni, l’incontro con il dolore, il male e la sofferenza rimangono ineludibilmente un enigma. La soluzione non risiede però nella semplificazione cinica, riassumibile nel detto «Dio ti ha dato una croce da portare», semmai nella centratura rivelativa che punta in direzione di una chiamata libera all’incondizionato dell’amore fiducioso: «chiedere ad una persona di amare, sia quando è facile che quando è difficile, è ben diverso dal far volutamente soffrire una persona» (pp. 62-68).

Forse, il cuore pulsante dell’intera ricognizione antropologico-teologica offerta da Fabrizio Rinaldi risiede nel Capitolo VII, ove non solo vengono a convergere le direttrici dei precedenti sviluppi, ma a loro volta sembrano avviarsi quelli successivi, improntati a declinare sempre più decisamente anche la dimensione escatologica, a cui l’umano è esistenzialmente orientato (cfr. Capitoli VIII-XII).

Non è qui data la possibilità di un’analisi dettagliata in merito, ma solo una considerazione, al modo di una cifra simbolica, sulla possibile “correlazione” dei due verbi scelti per il titolo: «Lasciare e ritrovare il centuplo in Cristo» (p. 143). Sulla scia, in sottotraccia, di un paradigmatico detto di Gesù – «chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà» (Mc 8,35) – il testo propone, anzitutto e in modo appropriato, una disamina su come oggi possa venire intesa la dimensione fondamentale della libertà.

Rinaldi opta opportunamente di andare nella direzione di quell’esserci-con, solo lambito da Heidegger, ma ben ricostruito dalle ricognizioni ontologiche sul soggetto singolare-plurale di J.-L. Nancy (da qualche mese ormai nell’indisponibile di Dio). Libertà viene cioè ad assumere tratti ineludibilmente intersoggettivi e, nel complesso, una figura radicalmente «comunicativa», che richiama strutturalmente l’essere-in-relazione «contrassegnat[o] da condivisione, corresponsabilità e riconoscimento reciproco» (p. 150).

Una forma-di-vita così concepita che, da una parte, si mostra apertura spontanea «al concetto di bene comune e allo sviluppo del senso di appartenenza» (ibid.). Dall’altra, l’esposizione incessante della sua vulnerabilità, se non corroborata da autentici legami fraterni (e figliali, ad iniziare dagli ambiti ecclesiali), rischia di ingenerare chiusure e sofferenze, sia nel senso di isolamenti ed emarginazioni assai profonde, sia in quello di colpevoli individualismi sempre più esasperati – anche nella sua versione collettiva.

Una comunità umanizzante

Lungo il tracciato della riflessione proposta da Rinaldi, costanti sono i richiami al magistero dell’attuale vescovo di Roma, talvolta adeguando opportunamente la propria forma linguistica a quella decisa di Francesco e della sua forte denuncia, poiché «il peccato può rendere sordi al grido del povero, incapaci di lasciarsi toccare e provocare dall’incontro con il fratello e la sorella, abituati ad uno stile di indifferenza» (p. 168).

Il teologo non può, a questo punto, non rimandare alle già più volte richiamate missione e identità vocazionale più proprie della Chiesa, essendo «una comunità in continua formazione, dove coloro che accolgono questa chiamata intessono tra loro relazioni di condivisione (koinonia) e servizio ai più deboli (diaconia), esprimendo così con le loro opere e parole una lode vivente a Dio (liturgia)» (p. 171).

Esauriti abbondantemente spazio a disposizione e pazienza di chi legge, solo sia consentito concludere con l’azzardo di uno slogan, al modo di una sintesi intorno al bel saggio di Fabrizio Rinaldi: “liberamente insieme – chiamati alla vita in pienezza”.

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Un commento

  1. Fabio Cittadini 22 maggio 2022

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