Necessariamente vescovo?

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In una recente intervista il card. Ouellet, prefetto della Congregazione per i vescovi, lamenta un incremento delle rinunce alla nomina episcopale nel corso degli ultimi dieci anni. Si sarebbe passati da un 10% al 30% di candidati che scelgono oggi di rinunciare, dando ragione di questa loro decisione.

Sarebbe interessante sapere quale sia la distribuzione geografico-ecclesiale della sommaria statistica offerta dal card. Ouellet; come sarebbe importante mettere mano a una catalogazione più precisa delle ragioni addotte dai candidati per giustificare la rinuncia alla nomina episcopale.

Essere cristiani per fede

In ogni caso, ricondurre dati di tipo empirico al giudizio complessivo e indistinto che dette rinunce sono da iscriversi all’interno di una generale «crisi di fede», che si sarebbe oramai diffusa a macchia d’olio nella Chiesa, mi sembra essere un po’ avventato oltre che genericamente indeterminato.

Non solo perché non è poi così chiaro cosa veramente venga inteso con «crisi di fede», che sembra essere diventata una sorta di tappabuchi a cui ricorrere nei casi più disparati quando si ha a che fare con processi di trasformazione in atto all’interno della Chiesa stessa (e non si sa cosa fare davanti a essi). Alla fin dei conti sembra che tale «crisi di fede» si definisca intorno a una questione meramente numerica: il «calo» del cristianesimo sacramentale sarebbe di per sé la crisi della fede stessa, o la fede entrata in crisi nella Chiesa. Il giudizio è un po’ avventato e in parte fuorviante, in primo luogo perché all’«ampia» partecipazione sacramentale di un tempo (quale, poi?) non corrispondeva necessariamente una fede effettiva e praticata con coerenza.

Anzi, il nostro tempo è il primo da secoli in cui il cristianesimo non si trasmette più sociologicamente (ossia non ha a che fare con la fede personale), ma rappresenta una scelta libera della persona di adesione al Vangelo di Gesù e di riconoscimento nella comunità dei suoi discepoli e discepole (ossia si è cristiani e si appartiene alla Chiesa esattamente per fede) – almeno per quanto riguarda il cattolicesimo occidentale.

Vocazione e discernimento della fede

Ma torniamo alla questione dei vescovi. In dieci anni sono cambiate molte cose nella consapevolezza e nella disciplina ecclesiale, e sono cambiate anche le condizioni per cui una persona può accettare e assumersi in buona fede la responsabilità di diventare vescovo nella Chiesa cattolica. Di questo bisognerebbe tenere conto quando si parla di un aumento di rinunce all’episcopato, perché esse potrebbero essere invece esattamente il caso di una scelta di fede realmente praticata e di una leale adesione alla Chiesa (e non il loro contrario, come sembra lasciar pensare il rubricarle tutte sotto il grande mantello magico della «crisi di fede»).

Inoltre, credo occorra distinguere attentamente fra scelta amministrativa (candidatura all’episcopato) e vocazione della fede (accettare o meno la nomina), perché la fede del prete che si realizza nella forma dell’esercizio del suo ministero non coincide automaticamente con una sua destinazione al diventare vescovo. Quando si apre la possibilità di un tale passaggio, mi sembra che un serio e sincero discernimento vocazionale sia il minimo che il candidato deve a se stesso, alla Chiesa locale a cui può essere eventualmente destinato e a tutta la Chiesa cattolica. Un serio e sincero discernimento può giungere anche alla scelta di fede che riconosce che non si è chiamati al ministero episcopale, e di questo si rende ragione alle istanze amministrative ecclesiali.

Fare il vescovo: oltre la fede stessa

Ma vi è un altro aspetto da considerare, ossia che una retta e onesta fede non è oggi sufficiente per compiere un buon servizio alla Chiesa tutta come vescovo. L’incarico è attualmente così complesso e gravoso che richiede competenze e abilità (di governo, di scelta dei collaboratori e collaboratrici più stretti, di gestione amministrativa e finanziaria, di collaborazione con soggetti pubblici, di comunicazione, e così via) che non dipendono dalla sola fede e non vengono infuse con l’ordinazione episcopale. Rendersi conto di non avere tali necessarie competenze e riconoscere che quello episcopale non è un ministero che si svolgerebbe all’altezza della misura complessiva richiesta oggi, mi sembra essere atto di onesta fedeltà alla Chiesa stessa e a tutta la comunità cristiana.

E questo ci porta a quei fratelli nella fede che di tale gravoso impegno ministeriale si fanno carico per il bene della nostra fede e della comunità dei discepoli e delle discepole del Signore. Assumono un peso che va ben oltre quello del «solo» Vangelo.

Sotto papa Francesco, che ha troncato netto con l’equazione nomina episcopale-carriera ecclesiastica, non accettano (nella gran parte dei casi, ormai) la nomina episcopale né per compiacenza né per potere, ma perché desiderano continuare a prendersi cura della fede, in un modo che loro non hanno disposto, e perché vogliono sinceramente bene alla Chiesa. Poi sbaglieranno, in alcuni passaggi non saranno all’altezza, scivoleranno sulla proverbiale buccia di banana, non bucheranno lo schermo e così via (la litania dei limiti potrebbe essere infinita)… però, credo, che un grazie glielo dobbiamo comunque – come anche ogni possibile alleggerimento del peso extra che devono portare.

 

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