Un po’ di «amore in prestito»

di:

disabili

«… e chiedo amore in prestito da Cristo
per amarti di più da quel che sono».[1]

Questa mattina credo d’aver vissuto qualche istante di visione, tutta interiore. Non angeli in volo e non una qualche Madonna luminosa ed eterea, bensì un sorta di percezione sintetica, probabilmente mistica, chiara, netta, complice l’Eucarestia che stavo celebrando e le persone che avevo attorno, ospiti permanenti di una delle case delle Missionarie della Carità, a Phnom Penh.

Si tratta per lo più di persone sole che non avrebbero altro luogo dove andare. Molte di loro hanno disabilità permanenti nel corpo e nella psiche, malattie debilitanti e deformanti fin dalla nascita e che si aggravano con l’andare degli anni. Partecipano alla Messa regolarmente ma talvolta mi sembrano presenti, talvolta assenti, forse perché ancora sotto l’effetto dei medicinali presi la sera prima per dormire o lenire i dolori. In ogni caso, io con le suore, celebriamo comunque l’Eucarestia nella certezza, confermata dalla visione sintetica di questa mattina, che quel sacrificio, quel corpo e quel sangue di Cristo, portano a compimento le membra sciupate di quelle persone, siano esse in grado di rispondere o meno al mio celebrare. O al donarsi infinito di Cristo.

Chiacchiero spesso con la superiora della casa e ultimamente mi diceva che le patologie importanti in Cambogia seguono l’onda della storia: negli anni ’90 del secolo scorso, dopo decenni di guerra, avevamo la tubercolosi in compagnia dell’aids poi, via via, la ricerca scientifica e la farmacologia hanno fatto progressi e hanno consentito di gestire queste situazioni. Ora – in realtà da qualche lustro ormai – abbiamo a che fare con una nuova frontiera, quella delle malattie psichiche, del cervello, della mente, del cuore, dell’anima. Già solo provare a distinguere e capire quanto di biologico, quanto di psichico e di affettivo e quanto di spirituale vi sia implicato nelle cause e nell’evoluzione di queste patologie richiederebbe competenze, studi, approfondimenti impossibili ad un solo uomo.

In Cambogia ci vorrebbero ambiti di studio e ricerca interdisciplinari e transdisciplinari sempre a metà fra una disciplina e l’altra perché una da sola non basta. Ci vorrebbero luoghi di ricerca, di dialogo e reciproca contaminazione, per esempio, fra la sociologia che si occupa delle forme del convivere sociale e la psicologia che si occupa della formazione della persona e delle sue interazioni fondamentali, fino alla psichiatria, direi però una psichiatria fenomenologica, che si occupa dell’unicità di ciascuna persona superando il rischio, talvolta inevitabile, di scadere nella pura somministrazione di psicofarmaci, comunque necessari. Senza i quali – lo so benissimo – non potrei nemmeno celebrare l’Eucarestia presso le suore di cui sopra! La loro casa non è un ospedale psichiatrico e nemmeno un istituto di cura. Semplicemente è casa per chi non ha casa, famiglia per chi non ha famiglia. Persone così, per quanto nella vita non siano riusciti a farsi una vita, rimangono «creature degne d’amore»[2] anche se il nostro amore non dovesse bastare.

Il popolo cambogiano, in particolare gli adulti di adesso, hanno vissuto il dramma dei Khmer rossi, la carestia e la fame degli anni Ottanta, la rinascita ancora segnata dalla guerra civile degli anni Novanta, tutto abbondantemente appesantito dalla promiscuità, dalla delocalizzazione e dallo sradicamento, dalle separazioni dai genitori o dai propri cari: la sociologia, la psicologia, la psichiatria e chissà quali altre discipline hanno a che fare oggi con questo retroterra e con tutte le patologie che esso produce con cinica consequenzialità.

Ogni qualvolta celebro quell’Eucarestia ho di fronte a me una piccola parte di questo popolo, certo minoritaria, ma consistente, che vive sotto il peso di quelle che Teilhard De Chardin chiamava «passività esterne di diminuzione … incidenti, accidenti, di ogni gravità e genere, nonché interferenze dolorose (disagio, shock, amputazioni, morti) … che costituiscono il residuo più oscuro e disperatamente inutilizzabile dei nostri anni». Alcune di queste diminuzioni «ci hanno sventrato e afferrato fin dal nostro nascere; difetti naturali, inferiorità fisiche, intellettuali, morali, che hanno spietatamente limitato il campo delle nostre attività». Altre diminuzioni «ci attendevano più tardi, brutali come un incidente, insidiosi come una malattia. Tutti noi, un giorno o l’altro, ci siamo resi conto, o ci renderemo conto, che uno di questi processi di disorganizzazione ha preso piede nel cuore stesso delle nostre vite».[3]

Che fare di tutto questo? Patire, solo patire? Ecco il mio cruccio, la mattina, quando celebro presso quella casa: innestare questa insopportabile varietà di dolori, spesso muti, soli e improduttivi, in una storia che li porti più in alto, li faccia valere in quanto prezioso sacrificio, tanto vero e tanto puro, offerta di sé, come e con Cristo, sull’altare dove celebro. Quando poi distribuisco la Comunione e vado a porre il Cristo tra le mani secche e deformate di uno degli ospiti, sempre lui proprio lui, mi rendo conto che è Cristo che vuole finire tra quelle mani: ché seppur incapaci di qualsiasi lavoro, rimangono capaci di accogliere quel corpo eucaristico per il quale, mirabilmente, «ogni stilla di sofferenza umana e di pianto acquista valore soprannaturale di redenzione e di Grazia».[4]

Mario Tobino, nel suo Le libere donne di Magliano, si chiedeva se «la pazzia è davvero [solo] una malattia?». La stessa domanda potrebbe valere per tutti quei difetti naturali, inferiorità fisiche, intellettuali, morali, che spietatamente limitano il campo delle nostre attività. Sono solo difetti, solo inferiorità? Oppure – incalzava Tobino – la pazzia non potrebbe essere piuttosto «una delle misteriose e divine manifestazioni dell’uomo?». Chi ha il coraggio di rispondere a simili domande? Lo stesso psichiatra confidava: «Adesso sono venticinque anni che vivo tra i matti e la notte sempre più me li sogno: volti che vicinissimi mi ridono spastiche risate … donne mi piangono davanti con i capelli disciolti e so che non ho nessuna possibilità di consolarle».

Io continuo a celebrare l’Eucarestia, tanto più in quella casa, e «chiedo amore in prestito da Cristo». «Per amarti di più da quel che sono». Di più da quel che sei. Di più da quel che siamo. Di più.


[1] R. Barsacchi, Marinaio di Dio, Firenze 1985, p. 62.

[2] Così Mario Tobino, psichiatra italiano, definiva i suoi pazienti, Cf. M. Tobino, Le libere donne di Magliano, Milano 1963.

[3] Cf. P. Teilhard de Chardin, L’ambiente divino. Saggio di vita interiore, Brescia 1994.

[4] C. Gnocchi, Pedagogia del dolore innocente, Milano 2016, p. 41.

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