Bosnia: Dodik allo scontro con le istituzioni

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«La resa non è un’opzione»: con queste parole, pronunciate con la consueta spavalderia, Milorad Dodik ha reagito alla decisione che, in un Paese con un assetto istituzionale funzionante, avrebbe dovuto porre fine alla sua carriera politica. Lo scorso 6 agosto, la Commissione Elettorale Centrale (CIK) della Bosnia Erzegovina ha revocato con voto unanime il suo mandato di Presidente della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba del Paese: una conseguenza diretta della condanna definitiva, di pochi giorni prima, a un anno di prigione e sei di interdizione dai pubblici uffici per non aver rispettato le decisioni dell’Alto Rappresentante della comunità internazionale.

Ma nell’intricato mosaico istituzionale della Bosnia Erzegovina, un verdetto non è necessariamente la fine di una storia. E Milorad Dodik, da decenni dominus della politica serbo-bosniaca, non è un leader che accetta di uscire di scena. C’è un’ironia profonda nella sua traiettoria: l’uomo che oggi sfida l’ordine internazionale fu, nei primi anni Duemila, la speranza dell’Occidente, un «volto nuovo» e moderato su cui puntare per la ricostruzione post-bellica.

Scontro frontale

La sua risposta non è stata un passo indietro, ma un rilancio che porta la sfida al cuore stesso dello stato: un referendum, fissato per il 25 ottobre, in cui chiede ai cittadini della sua entità di rifiutare la sentenza, la sua destituzione e l’autorità stessa delle due istituzioni che lo hanno condannato e destituito, ossia la Corte statale e quella sorta di viceré internazionale che è l’Alto Rappresentante, che considera illegittimo, poiché la sua nomina non ha ricevuto la ratifica del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Una mossa che trascina la vicenda dal piano giudiziario a quello dello scontro frontale, innescando una crisi costituzionale che minaccia di far saltare l’intero, e fragile, impianto degli accordi di Dayton del 1995.

Questo punto di rottura non è improvviso, ma il culmine di una strategia decennale. La strategia di Dodik è quella di un progressivo e sistematico logoramento delle istituzioni centrali bosniache. Un primo, plateale atto di sfida risale al 2016, quando organizzò un referendum sulla festa nazionale della Republika Srpska.

La data del 9 gennaio è doppiamente simbolica: commemora il giorno del 1992 in cui i serbi di Bosnia proclamarono la loro repubblica, atto considerato il preludio della guerra, e coincide con la festa ortodossa di Santo Stefano. Proprio per questa sovrapposizione tra ricorrenza civile e religiosa, la Corte costituzionale bosniaca l’aveva dichiarata illegittima perché discriminatoria nei confronti dei residenti non ortodossi. Nonostante ciò, Dodik andò avanti, inviando un segnale chiaro: la volontà politica dell’entità serba, e la sua, venivano prima delle leggi dello Stato.

Il punto di svolta arriva nel luglio 2021, quando l’Alto Rappresentante uscente, l’austriaco Valentin Inzko, come ultimo atto del suo mandato, impone una legge che vieta la negazione del genocidio di Srebrenica, toccando un nervo scoperto della narrazione serba. La reazione di Dodik è immediata: bolla la legge come un’imposizione straniera e avvia il boicottaggio delle istituzioni statali.

Il referendum «populista»

È con il suo successore, il tedesco Christian Schmidt, che la sfida alle istituzioni raggiunge il punto di non ritorno. Nel giugno 2023, il parlamento della Republika Srpska, su impulso di Dodik, ha approvato due leggi che creano una sorta di barriera legale intorno all’entità: una per disapplicare le sentenze della Corte costituzionale statale sul proprio territorio e un’altra per bloccare la pubblicazione delle decisioni dell’Alto Rappresentante nella gazzetta ufficiale locale.

La reazione di Schmidt non si è fatta attendere. Il 1° luglio 2023, usando i cosiddetti «poteri di Bonn» – gli ampi poteri che gli consentono di imporre leggi e rimuovere funzionari – ha annullato le due norme e, contestualmente, ha modificato il Codice penale, rendendo la mancata applicazione delle sue decisioni un reato. Pochi giorni dopo, il 7 luglio, Dodik ha firmato i decreti di promulgazione delle leggi annullate, compiendo il passo che lo avrebbe portato dritto in tribunale. Il processo, iniziato a febbraio 2024 tra rinvii e ostruzionismi, si è concluso con la condanna che ora la Commissione Elettorale ha reso esecutiva.

Il referendum del 25 ottobre rappresenta, dunque, l’azzardo finale in questa lunga sfida lanciata allo stato e ai suoi garanti internazionali. Il quesito che verrà posto ai cittadini è un manifesto politico: «Accettate le decisioni dello straniero non eletto Christian Schmidt e le sentenze del tribunale incostituzionale della BiH pronunciate contro il presidente della Republika Srpska, nonché la decisione della Commissione Elettorale di revocare il mandato al presidente della Republika Srpska Milorad Dodik?».

L’obiettivo è evidente: ottenere una legittimazione popolare per disconoscere le fondamenta stesse dello stato di diritto, contrapponendo la «volontà del popolo» alla legge. «Il mandato mi è stato dato dal popolo, e solo il popolo può togliermelo», ha ripetuto Dodik».

Ancora una sfida al diritto internazionale

Di fronte a questa sfida, la comunità internazionale appare, come spesso accaduto nei Balcani, divisa. L’Unione Europea e il Regno Unito hanno condannato fermamente l’iniziativa, ribadendo che le sentenze dei tribunali «devono essere rispettate» e che sottoporle a un voto popolare è contrario ai principi democratici.

Ma da Belgrado e Mosca sono arrivate parole di tutt’altro tenore. Il vice primo ministro serbo, Ivica Dačić, ha definito la destituzione di Dodik «un attacco diretto alla Republika Srpska», minacciando che «il popolo serbo non resterà a guardare». Mosca ha fatto eco a Belgrado, agitando lo spettro di «conseguenze dannose» per la stabilità regionale e confermando il suo ruolo di protettrice delle istanze serbe contro le pressioni occidentali.

Lo scontro, quindi, trascende la figura di Dodik. In gioco c’è la tenuta dell’architettura di Dayton, un equilibrio complesso e fragile che ha garantito trent’anni di pace, benché al prezzo di uno sviluppo economico deludente. Mentre a Banja Luka compaiono manifesti con lo slogan «Quando la gente ha fiducia, le sentenze non contano» e la Republika Srpska si avvia verso un appuntamento che potrebbe ridefinire l’intera mappa geopolitica dei Balcani, Sarajevo e la comunità internazionale preparano le loro contromosse.

Il 25 ottobre, in un piccolo territorio dell’Europa Sud-orientale, si deciderà se la legalità internazionale e le istituzioni statali possano ancora prevalere sui nazionalismi locali, o se il fantasma della disgregazione jugoslava sia destinato a riemergere in nuove, pericolose forme. Il futuro della Bosnia è appeso al filo di un referendum.

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Un commento

  1. Massimo 3 settembre 2025

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