
Nell’attuale scenario ecclesiale, il malessere di molti presbiteri non nasce solo da fattori esterni, ma affonda le radici nella fragilità del legame spirituale, umano e pastorale con il proprio Vescovo. Il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi offre linee chiare e profetiche, spesso disattese nella prassi. Riscoprirle potrebbe essere la chiave per rigenerare la comunione e ravvivare la missione[1].
Non si può più eludere la domanda che molti si pongono, in silenzio o a voce alta, nei presbiteri: perché tanti preti stanno male? Certo, le motivazioni sono molteplici e complesse: la crisi di senso, l’invecchiamento del clero, l’isolamento relazionale, la solitudine affettiva, la fatica di essere guida in un mondo che cambia rapidamente. Ma al fondo, spesso, vi è una sofferenza più sottile e più profonda: la percezione di non appartenere realmente a una comunione viva.
Il prete e il suo vescovo
Il prete è, per sua natura, un uomo inserito in una relazione: con Dio, con il popolo, con il Vescovo, con il presbiterio. La sua identità non è autosufficiente né autoreferenziale: nasce e cresce dentro una trama di legami. Quando uno di questi legami si allenta – o peggio si spezza – ne risente tutta la persona, e non solo la sua “efficienza pastorale”.
In particolare, il legame con il Vescovo – come figura di riferimento sacramentale e affettivo – ha una valenza strutturale. Come sottolinea il Direttorio, “l’unione di volontà e di intenti con il Vescovo approfondisce l’unione con Cristo”. Non si tratta di una subordinazione funzionale, ma di una comunione mistica, ecclesiale e missionaria. Il presbitero non agisce da sé: è inserito in un corpo, partecipa a un’unità più grande, si sente generato e custodito in una relazione di amore e corresponsabilità.
Quando questa comunione viene percepita come fragile, distante o puramente gerarchica, il prete si ritrova spiritualmente orfano. Non ha più un riferimento affettivo e paterno che lo sostenga. Non ha più un fratello maggiore con cui confrontarsi, un amico con cui confidarsi. E così il rischio è duplice: o ripiega su sé stesso, chiudendosi in una pastorale solitaria e difensiva, oppure sviluppa un’attitudine passiva, adattandosi per sopravvivere, senza più slancio né visione.
Tanti sacerdoti oggi lamentano proprio questo: di non essere riconosciuti nel loro cammino personale, nelle loro fatiche, nelle loro intuizioni pastorali. Di sentirsi semplici “funzionari del culto” o “ingranaggi di un’organizzazione”, più che persone amate e accompagnate. La loro crisi, quindi, non è solo affaticamento da eccesso di lavoro, ma ferita alla dignità vocazionale, al bisogno di essere visti, ascoltati, stimati.
Prete-vescovo: una relazione non formale
Ne derivano dinamiche relazionali spesso segnate da tensioni, sospetti, senso di inadeguatezza o di abbandono. E non sono rari i casi in cui la mancanza di una relazione significativa col Vescovo – non nutrita da incontri veri e dialogo fraterno – genera un senso latente di fallimento o di non appartenenza, fino a minare l’identità stessa del ministero. È qui che si annida, in molti casi, la radice spirituale della depressione presbiterale.
Di fronte a questa realtà, l’invito del Direttorio assume una forza profetica: non bastano riunioni, decreti, circolari, o richiami alla fedeltà e alla comunione. Occorre una riforma dello stile relazionale dentro la diocesi, a partire dalla consapevolezza che la comunione è generativa, e che ogni prete ha bisogno, come chiunque, di sapere che la sua vita è significativa per qualcuno, amata da qualcuno, custodita da qualcuno.
Solo così si rigenera la fiducia. Solo così l’obbedienza diventa libertà, la missione entusiasmo, la solitudine occasione di comunione. Il disagio non sparirà con una migliore pianificazione. Ma può essere trasfigurato quando il legame con il padre e fratello nella fede – il Vescovo – torna a essere una sorgente di vita, non una formalità istituzionale.
Il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi ci offre una sintesi potente e concreta del volto episcopale: il Vescovo deve essere padre, fratello e amico dei suoi sacerdoti. Queste tre parole, profondamente evangeliche, non sono ornamenti poetici, ma coordinate fondamentali per costruire relazioni pastorali sane e generative. Dove questo triplice volto manca o viene deformato, si apre nel cuore del presbitero uno squilibrio affettivo e vocazionale difficile da colmare.
La paternità del vescovo
Il Vescovo è chiamato ad essere generatore di vita, “un passatore di vita”[2], non solo amministratore di strutture. Come un padre, accompagna senza controllare, corregge senza umiliare, dona fiducia e non solo indicazioni. Quando manca questo volto, il presbitero può sentirsi “figlio abbandonato” o “dipendente subordinato”. L’assenza della paternità crea un clima di freddo distacco, dove il prete si percepisce come “monade operativa”, non come parte viva di un corpo in cui è amato e riconosciuto.
In questa prospettiva, la paternità episcopale non è un concetto simbolico o ornamentale, ma un cardine teologico, relazionale e spirituale su cui poggia la vita del presbiterio e la fecondità della missione.
Come ogni vera paternità, anche quella del Vescovo non nasce da sé, ma da un’origine ricevuta e trasmessa. Il Vescovo è padre perché trasmette una vita che viene da un Altro: è chiamato ad essere il custode e il testimone dell’origine apostolica, colui che collega la comunità e il presbiterio alla Tradizione viva della Chiesa, garantendo l’unità con Cristo Capo. È nel suo legame con l’Eucaristia, con la Parola e con la Chiesa universale che egli può svolgere il compito di “passatore di vita”, generando e rigenerando la comunione tra i suoi preti non come amministratore o funzionario, ma come padre generativo.
In tal senso, il Vescovo non è il padrone del presbiterio, ma colui che ne custodisce l’identità profonda, che si fa segno visibile di un’origine comune e di una vocazione condivisa. Nella sua persona si riflette la presenza di Cristo buon Pastore, che ama, unisce e dona sé stesso. Quando questo legame è vissuto con autenticità e spirito evangelico, anche gli stessi vincoli giuridici della Chiesa appaiono come espressione naturale di una comunione spirituale profonda (cf. Apostolorum Successores, 190).
Ma la paternità non si limita alla trasmissione dell’origine: è sostegno nella crescita. Un padre autentico non chiede che i figli siano suoi cloni, ma li accompagna a diventare ciò che sono, aiutandoli a sviluppare le loro potenzialità, a maturare nella libertà, a portare frutto nella loro specifica vocazione. Così anche il Vescovo, padre dei presbiteri, non annulla le differenze ma le valorizza; non impone la sua volontà, ma guida e incoraggia; non uniforma, ma fa spazio alla grazia di Dio all’opera in ciascuno.
Il Direttorio dei Vescovi lo esprime con chiarezza: il Vescovo “si comporti con i suoi sacerdoti non tanto come un mero governante con i propri sudditi, ma piuttosto come un padre e un amico” (191). La paternità episcopale è tale quando sa coltivare un clima di affetto, di fiducia, di ascolto reciproco, in cui l’obbedienza non viene vissuta come imposizione, ma come atto libero e convinto di comunione e corresponsabilità.
Un padre non ordina dall’alto: spiega, condivide, motiva, coinvolge, e nel farlo educa alla libertà, non alla dipendenza. La sua autorevolezza nasce dalla relazione, non dalla distanza.
Il Vescovo è padre anche perché traghetta i suoi presbiteri verso il futuro. Non li mantiene nell’infanzia clericale, ma li accompagna a diventare adulti nella fede e nel ministero. L’obiettivo non è il controllo, ma la corresponsabilità nella missione, la crescita di una fraternità evangelica che sappia leggere i segni dei tempi e rispondere con creatività e fedeltà.
Un padre autentico non teme l’autonomia dei figli, perché non confonde la comunione con l’omologazione. Così anche il Vescovo deve aiutare i suoi preti a “dare il meglio di sé”, mettendo a frutto i doni ricevuti, con la maturità e la libertà dei figli di Dio. In questo modo, la comunione non si appiattisce sulla disciplina, ma si radica in un progetto condiviso, in una visione comune, in un amore reciproco che rende la missione ecclesiale credibile e fruttuosa.
In un tempo in cui la figura paterna è spesso contestata o assente, il Vescovo è chiamato a riscoprire la propria paternità come un’avventura spirituale. Non si è padri per decreto, ma per relazione. E la paternità verso i presbiteri si costruisce giorno dopo giorno, nell’ascolto, nella prossimità, nel perdono, nella stima reciproca.
È padre il Vescovo che sa piangere con chi piange, che sa gioire dei successi dei suoi, che corregge senza umiliare, che sostiene senza invadere. È padre quel Vescovo che non si pone al centro, ma che fa spazio all’altro, che non prende per sé, ma dona. È padre colui che non teme di essere “passatore di vita”, cioè mediatore di un’origine, di un cammino, di un futuro che non gli appartiene, ma che custodisce per conto di un Altro.
Nella vita dei presbiteri, il Vescovo può diventare davvero una figura fondamentale per la fedeltà, la gioia e la perseveranza nel ministero. Ma ciò sarà possibile solo se egli sceglierà di vivere la sua paternità non come un titolo onorifico, ma come un’esigenza profonda del Vangelo, come un dono da accogliere e un compito da esercitare con umiltà, sapienza e passione.
Solo così potrà essere – come il Padre celeste – colui che genera alla vita, sostiene nel cammino e guida con amore verso la pienezza.
La fraternità amicale nel presibiterio
La comunione presbiterale implica camminare insieme, nella condivisione delle fatiche, delle gioie, delle scelte. Quando il Vescovo si pone troppo in alto, come figura distante o irraggiungibile, si rompe l’equilibrio fraterno, e si crea uno scarto che non è solo funzionale, ma umano. Il presbitero si sente solo nel portare il peso del ministero. Invece, la fraternità episcopale dovrebbe esprimersi in vicinanza, condivisione sincera, anche nella vulnerabilità.
Gesù ha detto ai suoi: «Non vi chiamo più servi, ma amici» (Gv 15,15). L’amicizia è uno stile pastorale. Significa fiducia reciproca, confidenza, libertà nel confronto, attenzione personalizzata. Senza questa dimensione, tutto si appiattisce nella formalità. L’autorità, priva di affetto, perde di credibilità e di calore. Molti preti non desiderano un Vescovo perfetto, ma un uomo che si lasci incontrare, che si mostri umano, vicino, autentico.
Quando queste tre dimensioni si intrecciano armonicamente, il Vescovo diventa per i suoi sacerdoti davvero segno di Cristo Capo e Servo. Quando invece si privilegia il ruolo del governante – amministratore di crisi, selezionatore di incarichi, difensore dell’istituzione – allora si genera distanza, paura, e talvolta ostilità. E la Chiesa ne soffre tutta, perché senza la comunione affettiva e concreta tra Vescovo e preti, anche il Vangelo perde credibilità.
Uno dei nodi più delicati e fraintesi nella relazione episcopale è il tema dell’obbedienza. Spesso invocata, raramente compresa nel suo significato più autentico. Il Direttorio ricorda che “l’esercizio dell’obbedienza viene reso più soave […] se il Vescovo manifesta agli interessati i motivi delle sue disposizioni”. Ma la prassi concreta, in molte diocesi, racconta tutt’altra storia.
In molte situazioni, l’obbedienza appare come un atto esecutivo richiesto unilateralmente, senza il supporto di un vero dialogo, senza spiegazioni, senza processi di discernimento comunitario. La logica è spesso quella dell’ordine e della delega, del “si fa perché te lo dico io”, e non quella evangelica dell’ascolto reciproco, della fiducia condivisa, del confronto adulto. In questo modo, l’obbedienza si trasforma da dinamismo spirituale a peso morale, da scelta liberante a vincolo imposto.
Quando il prete non comprende il senso delle decisioni che lo riguardano, o quando percepisce che esse sono motivate da logiche di potere o da equilibri politici, allora l’obbedienza ferisce, invece di edificare. Nascono delusione, amarezza, risentimento. L’obbedienza, per essere evangelica, dev’essere figlia della comunione, non della subordinazione. Quando manca la comunione, anche l’obbedienza più fedele diventa fonte di sofferenza e logoramento.
Per risanare questo nodo, serve una cultura del dialogo e della corresponsabilità, dove i presbiteri siano riconosciuti come interlocutori maturi, non come semplici esecutori. Serve che il Vescovo sia capace di spiegare, coinvolgere, motivare, e anche – quando necessario – di ascoltare il dissenso con rispetto. Solo così l’obbedienza torna ad essere un atto libero di amore verso la Chiesa, non una rinuncia forzata alla propria dignità.
Il Direttorio ammonisce: “abbia uguali premure ed attenzioni verso ciascun presbitero”. Eppure, molti sacerdoti avvertono disparità di trattamento, favoritismi, criteri opachi nelle nomine e nelle valutazioni. Alcuni si sentono penalizzati per il loro pensiero libero o per la loro sincerità; altri, invece, sembrano godere di una considerazione privilegiata per la loro docilità o silenziosità.
La comunione ecclesiale non può sopportare questo tipo di squilibri. La fraternità presbiterale si spezza quando la giustizia è percepita come assente o disattesa. E il primo segno di giustizia è la trasparenza: nel discernimento, nelle scelte pastorali, nei criteri con cui si affidano incarichi e si valutano le persone.
Inoltre, la Chiesa non può più permettersi di soffocare i carismi. Ogni presbitero è un dono per la Chiesa. Ognuno ha una propria storia, sensibilità, esperienza. Il Vescovo, come padre e pastore, è chiamato a far fiorire questi carismi, non a uniformarli. L’uniformità non è unità. E il controllo, spesso, nasce dalla paura di perdere potere, non dalla cura per il bene comune.
Quando il Vescovo incoraggia l’iniziativa, la creatività pastorale, la ricerca di nuove vie, allora i presbiteri si sentono parte viva di una Chiesa in movimento. Ma quando ogni proposta è vissuta come un pericolo, e ogni deviazione come un atto di ribellione, allora nasce il conformismo, la mediocrità, la stanchezza. La comunione non è mai omologazione. È sinfonia di voci diverse, unite da uno stesso Spirito.
Il nodo delle relazioni
Non è solo questione di prassi organizzative o di gestione delle risorse. Il vero nodo, oggi, è la qualità delle relazioni. Dove c’è comunione autentica, tutto il resto si costruisce: le difficoltà si affrontano, le fatiche si condividono, le soluzioni si cercano insieme. Dove invece la relazione è debole, ferita o inesistente, anche le strutture più efficienti si svuotano.
Il Vescovo, in quanto pastore del suo presbiterio, è chiamato a riplasmare la cultura relazionale della sua Chiesa. Ciò implica:
- Essere presente: non solo nei momenti ufficiali, ma nella vita quotidiana, nei passaggi delicati, nelle crisi personali.
- Ascoltare davvero: non per raccogliere informazioni, ma per entrare nel cuore del presbitero.
- Accompagnare con discrezione e verità: senza invadere, ma nemmeno abbandonare.
- Favorire la corresponsabilità: fidarsi del prete, coinvolgerlo, accettare la sua libertà e le sue fatiche.
- Formare alla sinodalità reale: dove ogni voce è ascoltata e ogni decisione è frutto di discernimento condiviso.
La comunione è la prima missione del Vescovo. È la sorgente della pace del presbitero. È il volto visibile della Chiesa.
In un tempo segnato da crisi multiple – vocazionali, spirituali, affettive – non bastano interventi emergenziali o riforme organizzative. Serve una conversione dello sguardo, una riforma delle relazioni. Serve che i Vescovi tornino a essere davvero padri, fratelli e amici. E che i presbiteri si sentano riconosciuti come figli, compagni e collaboratori, non come dipendenti o sudditi.
È la carità, più della legge, a fondare la comunione ecclesiale. È l’amore che rende autorevole l’autorità. E solo la carità è capace di generare obbedienza felice, fraternità vera, ministero fecondo. Se il Vescovo è segno di Cristo, lo sia non solo nella cattedrale, ma nella relazione viva con ciascuno dei suoi preti. Così il Vangelo potrà continuare a essere credibile, anche nella debolezza delle nostre strutture.
[1] In questo contributo faccio particolare riferimento al n. 76 del Direttorio che qui riporto in forma integrale: “Il Vescovo, padre, fratello e amico dei sacerdoti diocesani. I rapporti tra il Vescovo e il presbiterio debbono essere ispirati e alimentati dalla carità e da una visione di fede, in modo che gli stessi vincoli giuridici, derivanti dalla costituzione divina della Chiesa, appaiano come la naturale conseguenza della comunione spirituale di ciascuno con Dio (cf. Gv 13, 35). In questo modo sarà anche più fruttuoso il lavoro apostolico dei sacerdoti, giacché l’unione di volontà e di intenti con il Vescovo approfondisce l’unione con Cristo, che continua il suo ministero di capo invisibile della Chiesa per mezzo della Gerarchia visibile.
Nell’esercizio del suo ministero, il Vescovo si comporti con i suoi sacerdoti non tanto come un mero governante con i propri sudditi, ma piuttosto come un padre e un amico. Si impegni totalmente nel favorire un clima di affetto e di fiducia in modo che i suoi presbiteri rispondano con un’obbedienza convinta, gradita e sicura. L’esercizio dell’obbedienza viene reso più soave, e non già indebolito, se il Vescovo, per quanto è possibile e salve sempre la giustizia e la carità, manifesta agli interessati i motivi delle sue disposizioni. Abbia uguali premure ed attenzioni verso ciascun presbitero, perché tutti i sacerdoti, benché dotati di attitudini e capacità diverse, sono ugualmente ministri al servizio del Signore e membri del medesimo presbiterio.
Il Vescovo favorisca lo spirito di iniziativa dei suoi sacerdoti, evitando che l’obbedienza venga intesa in maniera passiva e irresponsabile. Si adoperi affinché ciascuno dia il meglio di sé e si doni con generosità, mettendo in gioco le proprie capacità al servizio di Dio e della Chiesa, con la maturità di figli di Dio” (CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi Apostolorum successores, n. 76).
[2] Cfr. Xavier Lacroix, Passatori di vita. Saggio sulla paternità, EDB, 2005.






Non sarà invece perché il sacerdote, chiamato ad essere “eunuco per il Regno dei Cieli”, “alter Christus”, si trova in realtà a dover fare l’amministratore, il “presidente” di assemblee di condom…. pardon, liturgiche, l’orso Baloo per ragazzi distrattanemte parcheggiati in oratorio da famiglie interessate a tutt’altro? Tutto, tranne l’unica sua vera ragion d’essere, l’esser cioè pastore di anime? Colui che agisce “in persona Christi”?
C’è un’infinità di giovani, adulti e anziani che, senza che nulla lo esiga o nessuno glielo chieda, vivono tranquillamente senza legami coniugali o relazioni stabili e neppure relazioni occasionali: perché il celibato dovrebbe essere così drammatico per un prete? Perché si deve andare a finire sempre su questo argomento? C’è una certa abilità, tutta sagrestile, nell’inventarsi problemi fittizi per nascondere quelli veri, a generare dibattiti sul nulla per distogliere l’attenzione da cose che nessuno vuole veramente risolvere o anche solo affrontare.
La causa è evidente: i vescovi sono autoreferenziali e i preti non fraternizzano tra loro. IL fatto che i vescovi hanno acquisito CONFRATELLI DALL’ESTERO oltre che ad essere uno sgarbo ai CONFRATELLI VESCOVI ESTERI che li hanno mandati solo per studiare, li relegano ad essere preti di categoria ZERO.. il VESCOVO È GUIDATO DALLO SPIRITO SANTO che si esprime ” con le sue sante leggi ” almeno leggiamo…il nostro POPOLO HA BISOGNO CHE IL PRETE VADA IN MEZZO AL SUO POPOLO più del pane… Voi siete SALE, LIEVITO, LUCE… avete mai visto un prete camminare per le strade della parrocchia?..tutti x uno uno x tutti A.M.D.G
Articolo veramente ben fatto.
Posso testimoniare di un sacerdote che conosco il quale ha chiesto di poter lasciare la parrocchia di Roma per andare a fare il parroco in un paesino a causa del totale abbandono da parte del Vescovo di Roma negli ultimi anni. Emblematiche le numerose e mail inviate senza aver ricevuto mai risposta. Impensabile essere ricevuto di persona. Ogni sacerdote lasciato a sé stesso e alla sua creatività. Spesso allo sbando.
Un tempo i giovani preti vivevano in casa del parroco ed erano almeno 3 preti, poi una volta diventati parroco portavano in casa i genitori o la sorella. Dal punto di vista affettivo non erano di solito soli, almeno per molti anni. Certo c’erano anche le perpetue e allora lì potevano esserci dei rischi di cadere in errore ma erano casi isolati almeno in Italia. Comunque avevano un ruolo preciso gratificante nella società, oggi?
Uno dei pochi arcivescovi che è stato accanto ai suoi preti è stato il cardinale Siri. Leggete il libro “Paternità spirituale del cardinale Giuseppe Siri -Lettere personali ai suoi sacerdoti 1946-1987)”.
Il Vescovo ed i preti devono FRATERNIZZARE… non si parla nemmeno tra parroco e viceparroci… tutti x uno uno x tutti A.M.D.G
Tanti preti stanno male perché sono costretti a reprimere la loro natura, cioè rinunciare all’affetto di una donna e dei figli. Ma la natura non accetta repressioni e prima o poi si fa sentire: come quando si abbattono alberi per costruire dove la natura non vuole ed essa allora risponde con frane e alluvioni che buttano giù l’opera insensata dell’uomo. La natura è terribile e meravigliosa, quando si pretende di reprimerla esplode. I preti dovrebbero potersi sposare e creare le loro famiglie, oltretutto così capirebbero i problemi di chi è sposato e ha figli, mentre spesso parlano di famiglia senza averne esperienza diretta.
Condivido appieno il pensiero di questo commento , come costui che si dichiara non credente, mentre io credo che costui lo sia più credenti di molti che si credono tali frequentando le parrocchie. È vero quanto dice : non si può andare contro natura perché la natura stessa si rivolta contro, ma soprattutto non si può e non si deve negare quello che per natura ci è stato dato per diritto; il comando di DIO è quello che dice AMATEVI E PROCREATEVI, e questo io credo che racchiude tutti i comandamenti di CRISTO GESÙ, e poi rammentiamo quello che la chiesa ritiene un Sacramento ” il Matrimonio” questo stesso sacramento che vieta ai suoi presbiteri, è un vero controsenso tra il dire e l’agire nel mondo ecclesiastico non è vero? A voi la scelta di decidere sulla verità , Ancor di più perché DIO non chiede la castità come viene imposto invece dalla chiesa a coloro che fanno la scelta di vivere da servo di DIO , i servi di DIO ESISTONO. anche tra la gente comune che ha famiglia figli e nipoti e provate a dire il contrario? A voi la scelta . Buona vita nel SIGNORE CRISTO GESÙ 🙏🏻
Assolutamente non è così. Nel Protestantesimo dove i preti si sposano c’è una crisi ancora maggiore nei pastori. Mi dispiace ma non avete c’entrano il punto.
L’articolo invece mette in luce i veri problemi. Mi dispiace contraddirvi.
La Chiesa ha esempi di Amore tra un sacerdote e una donna.. una relazione pura.. un’amicizia vera.. in cui la presenza di una donna nel cuore del sacerdote è un singolare dono di Grazia.
La stessa mamma di Gesù ha vissuto una relazione sponsale pura con il Suo Sposo Giuseppe.. amatissimo.
È un evento di Grazia che accade quando entrambi.. l’uomo e la donna.. sono attratti dalle cose di lassù.. vivono una vita interiore.. spirituale.. ricca.. staccati da terra.. amando intensamente..
👋
Articolo ben fatto perché commento esperienziale del Direttorio.
Condivido che l’atteggiamento relazionale chiave è la CORRESPONSABILITÀ nel DISCERNIMENTO SINODALE (ascolto … colloquio spirituale …) che crea COMUNIONE.
Il Vangelo va annunciato nella FRATERNITÀ del PRESBITERIO, “corona” del Vescovo, altrimenti viene tradito e crea divisione e fazioni. (…)
Il prete diventato vescovo molte volte si dimentica di essere stato prete.
Dopo esperienze poco edificanti, ora, grazie a Dio e al vescovo Gianpiero, stiamo vivendo in diocesi lo spirito del
direttorio. Farò la mia parte perché duri a lungo.
Quando guardo il volto di un sacerdote e sento il momento di crisi.. fatta di solitudine.. di insonnia.. di assenza.. non penso al vescovo.. il vescovo c’è sempre e nei limiti del possibile forse più.. sa che possono attraversare questi momenti e vuole esserci per sostenerli.. c’è Gesù.. il Maestro attraverso la guida spirituale.. la celebrazione eucaristica quotidiana.. spesso più di una.. .. .. ..no.. non è questo.. .. .. .. a volte manca la carezza di uno sguardo di mamma.. una premura che ti fa sentire importante.. un sorriso che ti riempie il cuore.. oh Gesù per le vie del mondo come faceva? quando il cuore era colmo.. si fermava e cercava la Mamma.. spesso in una donna pia.. anziana.. su cui appoggiava il volto stanco e amareggiato.. e ritrovava la forza di andare avanti.. ..
I vescovi vogliono solo comandare, nessuno dovrebbe comandare nessuno. I vescovi bloccano grandi uomini di fede e santi, ricordiamo cosa il vescovo fece a padre pio. Il loro è solo abuso di potere. Lasciate liberi i carismatici perché questi fanno la vera preghiera!
Preti e vescovi devono ritornare al vangelo. Niente stato sovrano della chiesa. niente gerarchia di potere e di ipocrisia. Niente ordinazioni sacrali inutili e menzognere, ma riconoscimento dei doni che sono abbondanti nel popolo di Dio purtroppo trascurato e non valorizzato. troppe santità dichiarate a suon di miracoli “comprati”, troppe ideologie moralistiche neganti l’amore e l’accoglienza, troppa cultura dominante d’oggi diventata la normalità nella chiesa. Sono prete di 80 anni, e da 80 anni mi dicono: Severino quando sarai vecchio vedrai come cambierai idea. Ho 80 anni non ho cambiato idea perché non ho creduto alle idee, ma allo stile nuovo di Gesù che è rimasto l’unico mio maestro. Se il laicato non si sveglia ed il clero non entra in una sorte di sciopero sia nelle celebrazioni che nel governo… non ci sarà nulla di fatto
Severino presbitero
Veramente nell’articolo si parla di Vescovi come padri.
È la stessa cosa per i laici. Ci si allontana dalla Chiesa perché non vengono riconosciuti i talenti. Il vescovo è lontano, il sacerdote spesso troppo concentrato su se stesso, sui propri impegni e sulle proprie aspirazioni-realizzazioni, la propria carriera da portare avanti. Tutti viviamo momenti di crisi: quello che manca oggi è la possibilità di confrontarci, di parlarne liberamente…manca l’ accompagnamento sia per i presbiteri che per i laici…in un momento che vede i sacerdoti sempre più burocrati e i laici sempre più calati nello spirituale…..forse è questo l’errore!!! Un inversione di ruoli che porta solo sterilità.
Da quando è stato pubblicato questo Direttorio non ho mai visto che il vescovo, entrato in diocesi successivamente, l’abbia mai messo in pratica, anzi…
Quindi sono perfettamente d’accordo con questa frase: “Ma la prassi concreta, in molte diocesi, racconta tutt’altra storia”, che non legherei però soltanto al tema dell’obbedienza, ma ad ogni considerazione e ad ogni riga dell’articolo.
Mi chiedo: come vengono scelti i vescovi diocesani? Si pensa di continuare a farlo male come si è fatto finora?
Articoletto importante questo di Domenico Morrone: complimenti! Tuttavia mi viene da dire che il problema è sui due versanti, sia dalla parte del presbitero sia dalla parte del vescovo, e in fondo si riferisce alla stessa questione: come il presbitero concepisce il proprio ministero e come il vescovo concepisce il proprio ministero. Se entrambi vivono il proprio ministero come un lavoro da impiegato, da ufficio, da burocrate – è questa la realtà in molti casi – ad un certo punto per forza il presbitero si ammalerà. Se un presbitero chiama il vescovo perché desidera parlare con lui e la prima possibilità è tra un mese e mezzo, io credo che qui ci sia un problema serio da parte del vescovo. Per non parlare del fatto che molti vescovi non sanno neanche dove e come vivono i loro presbiteri.
Buon pomeriggio , ho trovato questo articolo veramente interessante e pertinente sulla salute della nostra Chiesa di oggi così come, ho trovato altrettanto assennati e pertinenti i commenti aggiunti. Si capisce che chi ha scritto, conosce bene la materia ecclesiale e non si puó che condividere molto di quanto ha scritto, anche se fra le righe, si percepisce una malcelata, pur se onesta, critica al rapporto fra Vescovi e presbiteri tuttavia, mi permetto di fare alcune precisazioni, frutto di una passata vicinanza al mondo ecclesiale di credente praticante. Prima di tutto, farei una importante distinzione fra clero secolare e religiosi in quanto questi ultimi, pur sottostanti all’autorità dei Vescovi, hanno una loro distinta gerarchia fatta di Padri Generali, Provinciali.e Superiori che già, in teoria dovrebbe soddisfare quelle esigenze dei presbiteri menzionate, inoltre, i religiosi vivono in comunitá di piú presbiteri o diaconi soffrendo meno i problemi di solitudine ed isolamento. Per ció che invece attiene al clero secolare, non si puó non condividere i commenti dei Sigg. Coco ed Addario, entrambi mettono a fuoco problematiche reali. Infatti é vero che la sempre maggiore distanza dalla adesione al Vangelo ha creato questo senso di malessere sia nel.clero che nei fedeli. Per come la vedo e percepisco io, ogni presbitero e fedele ha giá un Buon Padre per esercitare quel rapporto padre/figlio invocato nell’articolo, caso mai, quello che puó difettare, é uno scarso o talvolta insufficiente rapporto di fraternità.
Il sacerdote, sempre secondo il mio punto di vista, non dovrebbe avvertire sensi di solitudine, isolamento o abbandono perché, dovrebbe essere immerso nell’amore della comunitá parrocchiale o ecclesiale di cui.fá parte come in una famiglia, inoltre, si auspicherebbe che avesse un direttore Spirituale che lo accompagni e sostenga nei momenti difficili.
Cosí come il vescovo, laddove nella Chiesa chi ha maggior responsabilità, scende di rango diventando ancor piú servitore e, a tal proposito mi piace ricordare la “Lavanda dei piedi di Gesú agli Apostoli”, ancora di piú, si inserisce nella comunitá delle comunitá moltiplicando la comunione e partecipando all’edificazione della Comunione ecclesiale spinta dal soffio dello Spirito Santo.
É pur vero che piú la Chiesa é diventata apparato scollato dal Vangelo e, più se ne sono accentuati i difetti secolari, con la preponderanza di atteggiamenti burocratici, autoritaristici e scostanti, che hanno prodotto rivalità su desideri di carriera fra i Sacerdoti, insofferenze, invidie, ingiustizie, clientelismo, formalismo liturgico talvolta, fine a sé stesso e, incurante della sete e fame di amore, fraternità, senso di appartenenza, coinvolgimento interiore dei fedeli. Sono spariti atteggiamenti fondamentali e puri dei cristiani che sono sempre chiamati all’accoglienza ma, anche al discernimento, amo il Papa e tutta la Chiesa ma, qualche volta, come faceva Gesú, bisogna dare a Cesare ciò che é di Cesare ed a Dio ció che é di Dio e non si puó servire Dio e mammona, quindi qualche volta, non mi dispiacerebbe che il Papa pur stringendo la nano a tutti, cerchi di correggere fraternamente i vari politici che si avvicendano, talvolta per scopi non troppo limpidi, e lasciar credere che talvlta il male fatto sia approvato dalla Chiesa e che prevalga un’ipocrisia che fá soffrire i credenti. Aggiungo che, cosí come si espresse Papà Francesco, forse anche un pó più sobrietà nel porsi davanti al mondo, non farebbe male, in fondo come rimarcó Don Tonino Bello, l’unico paramento usato da Gesú fù il grambiule usato per Lavanda dei piedi. Forse, sono.andato un pó fuori tema, ma come scrive il.Signor addario, questi temi oggi, sono molto complessi e coinvolgono molteplici tematiche ed argomenti tutti correlati che poi sono la grande sfida che la Chiesa deve affrontare per guidarci alla realizzazione del Regno del Signore.
La questione è differente.
Ci sono vescovi che desiderano che i loro preti siano solo degli impiegati.
Altri che considerano i loro preti meno di zero (il vescovo di una grande diocesi del nord dice tanto “uno vale uno”).
Le questioni esposte da Morrone sono importantissime, soprattutto la dove scrive che il vescovo dovrebbe “Ascoltare davvero: non per raccogliere informazioni, ma per entrare nel cuore del presbitero”. Quanti vescovi conoscono realmente i loro preti? Quanti sono presi da pregiudizi per notizie (la maggior parte delle volte infondate) vengono riportate da altri preti magari gelosi o invidiosi? Quanti chiamano i preti per sapere come stanno quando non li vedono da un po’? Senza parlare dell’importanza della scelta delicata delle destinazioni.
Mi fermo qui: potrei scrivere un seguito all’articolo.
Anche per i Vescovi: andrebbero scelti meglio e non come accade ora tra carrieristi e lacchè.
I preti stanno male perchè la loro identità dottrinale è infedele al Vangelo. E’ stato il clericalismo a produrre un profilo teologico gravemente viziato da elementi sacrali, che hanno collocato il prete ed il vescovo fuori dalla sfera della laicità evangelica. Nelle prime comunità cristiane il clero nemmeno esisteva ed ogni ministero aveva caratteristiche laicali. Nessuno si faceva chiamare sacerdote perchè il sacerdozio era patrimonio dell’intera comunità. Occorre pertanto rifondare l’identità teologica dei presbiteri e dei vescovi, proseguendo e sviluppando il processo di riforma che il concilio vaticano II aveva timidamente avviato. La differenza ontologica tra “sacerdozio ordinato” e “sacerdozio comune” (LG 10) deve essere abolita e deve assumere una connotazione funzionale basata sulla diversità carismatica. In buona sostanza deve essere avviata una coraggiosa opera di declericalizzazione che, a partire dal presbiterato e dall’episcopato, investa ogni settore ecclesiale Il cammino sinodale incorso è solo una tappa di un più ampio processo di radicale rinnovamento. Solo in tal modo il clericalismo e gli abusi che ne conseguono potranno essere superati.
Il suo intervento è davvero molto interessante e apre parecchie piate di discussione ma devo farle notare che lei ha parlato del timido avviamento del Vaticano II per poi smentirlo poco dopo dicendo che ciò che dice deve essere abolito! Il problema del malessere dei preti oggi è qualcosa di molto complesso (cum – plettere), nel senso che vengono messi insieme moltissimi fattori e non solamente la relazione con il Vescovo! I preti sono uomini, ordinati molto spesso da ragazzi poco più che ventenni (ricordiamo che presbiuterós in greco significa anziano); vengono sin da subito caricati di una responsabilità enorme che è la guida delle anime e spesso sono soli (che poi il Signore manda i discepoli a due a due) e tanti altri fattori di cui non ho parlato! Certamente la sua provocazione è interessante: il prete e il vescovo provengono dal laòs cioè dal popolo e sono chiamati per il popolo ed il clericalismo da sempre è stato una piaga per la Chiesa ma risolto questo, mi auguro che presto avvenga, ciò sarà solamente uno dei tanti fattori da risolvere. Il Concilio Vaticano II ha gettato le fondamenta per un’ecclesiologia di comunione più impegnata nella diaconìa che nella difesa del potere gerarchico.
Ci sarebbero MOLTE sue affermazioni su cui discutere, se non fosse che, dal tono con cui parla, si avverte da subito che sono ideologiche, come per esempio quella che all’inizio, nelle comunità cristiane, non esistevano sacerdoti e ministri ordinati (basterebbe solo pensare alle lettere di san paolo a Tito e Timoteo su come deve essere e comportarsi il “vescovo”). Ad ogni modo la comunità cristiana che lei vagheggia in questo suo commento esiste già: si chiama protestantesimo (in tante e varie sfaccettate forme). Se non le sta bene la Chiesa Cattolica, invece che perdere tempo a criticare i suoi dogmi e i suoi fondamenti (tutti ribaditi per altro nell’ultimo Concilio Ecumenico Vaticano II) passi al protestantesimo…tutto quello di cui lei parla è pienamente realizzato nel protestantesimo! E forse….et proprio per questo che sta di fatto scomparendo e divenendo sempre più insignificante. Dio le apra gli occhi!
Il “vescovo” ai tempi delle lettere di Paolo aveva nulla a che fare con il vescovo di oggi.
Purtroppo.
Il protestantesimo non sta scomparendo, ma alcune sue forme sono in crisi.
I Pentecostali per esempio sono 300 milioni e sono in aumento dappertutto, gli avventisti in un secolo sono decuplicati, gli anabattisti hanno un aumento inarrestabile.
Metodius, non rispondo alle tue provocazioni. Quando metterai di nasconderti sotto un nome fasullo ? Quando avrai il coraggio di assumerti la responsabilità di ciò che scrivi ?