La guerra senza vincitori

di:

profughi

«La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia». Così Benito Mussolini il 10 giugno 1940. Lasciamo da parte il cinico opportunismo dietro l’entrata in una guerra che sembrava già finita (i tedeschi erano alle porte di Parigi e vi sarebbero entrati quattro giorni dopo), dietro l’idea che sarebbe bastato «un pugno di morti per sedersi al tavolo delle trattative di pace».

Qui, di altro vorremmo parlare: del fatto che, da allora, il costume di invitare gli ambasciatori del Paese nemico al ministero per rimettere nelle loro mani una formale dichiarazione di guerra, magari intorno a una tazza di tè, tra inchini, strette di mano e rassicurazioni di amicizia personale, quel costume, insomma, è finito definitivamente nel dimenticatoio della storia.

La guerra totale

Era, forse, l’ultimo residuo di un tempo in cui le guerre rispettavano canoni di cavalleria (come l’invito a «Messieurs les Français» a sparare per primi, lanciato da un ufficiale inglese alla battaglia di Fontenoy, nel 1745), prima di dare inizio alla solita pratica di sbudellamento reciproco che, beninteso, non ha mai avuto niente di cavalleresco.

Dopo la Seconda Guerra mondiale, le guerre si fanno, non si dichiarano. Il 25 giugno 1950, la Corea del Nord lancia la sua «Guerra di liberazione della patria» senza nessun orpello diplomatico.

Gli Stati Uniti manderanno fino a mezzo milione di uomini in Vietnam (per raffronto, ne erano stati impiegati 266.883 in Italia tra il 1943 e il 1945), senza dichiarare guerra a nessuno. Né lo fecero nel 1991 in Iraq, né in Serbia nel 1999, né nel 2003, di nuovo contro l’Iraq.

Anzi, le guerre spariscono addirittura dal vocabolario: diventano «operazioni di polizia internazionale», «operazioni umanitarie di ristabilimento della pace», e, per i più espliciti, «operazioni militari speciali». Il vecchio sogno di abolire la guerra è riuscito solo nel lessico ufficiale.

Insomma, dopo il 1945 le guerre sono entrate in una nuova fase. O perlomeno, hanno adattato le forme a un contenuto già evidente almeno dall’epoca delle guerre napoleoniche e della guerra civile americana: la guerra totale non risparmia nessuno, e soprattutto non fa distinzione tra civili e militari.

A Fontenoy, vi erano due eserciti schierati di fronte l’uno all’altro, e quando i tiri cominciarono (da parte dei francesi, in effetti), solo soldati morirono o furono feriti. Nella Prima Guerra mondiale il rapporto tra vittime civili e militari era già quasi pari (42 per cento), per poi rovesciarsi nella seconda (tra 60 e 67 per cento) e diventare quasi sistematico nei conflitti successivi al 1945.

La mutazione

Oggi, però, assistiamo a un’altra mutazione genetica della guerra: non ci sono più vincitori.

La storia successiva avrebbe provato quanto prematura e azzardata fosse la dichiarazione di «mission accomplished» lanciata da George W. Bush sulla portaerei Abraham Lincoln il primo maggio 2003. Ugualmente azzardata la convinzione di aver definitivamente eliminato i talebani dall’Afghanistan nel 2001.

Per venire all’attualità, dal febbraio 2022 è in corso, da parte dei commentatori, il gioco di saltare da un piede all’altro in continuazione, dichiarando ora la vittoria della Russia ora quella dell’Ucraina. La realtà corre più veloce della loro penna: fin dal febbraio 2022, era possibile intravedere che questa guerra non solo non avrebbe avuto vincitori ma avrebbe avuto solo sconfitti.

L’Ucraina, oltre a pezzi di un territorio che le erano stati affidati arbitrariamente da Stalin e da Krusciov proprio per tenerla sul filo del ricatto permanente, ha perso l’illusione di essere un paese sovrano come, per esempio, la Svizzera o la Norvegia; la Russia ha perso di propria iniziativa parte della sua sovranità regalandola alla Cina, si è privata della sua sponda europea, rischia di perdere la sua sponda indiana, vacilla nel Caucaso e anche in Asia Centrale, abbandona ignominiosamente i suoi alleati in Medio Oriente, si è messa in un vicolo cieco economico, e così via.

È legittimo pensare che la vittoria e la sconfitta si misurino in chilometri quadrati, ma non aiuta a capire come stanno veramente le cose e dunque, da un punto di vista politico, porta necessariamente a conclusioni (e ad azioni) sbagliate.

Se ci si sposta dal Donbass al Vicino Oriente, si noterà che la situazione è simile. Anche qui, come in Ucraina, la guerra è tutt’altro che finita, e per ora solo quegli inguaribili masochisti di Hamas e Hezbollah palesano la loro stoltezza fino al punto di dichiararla vinta.

Hamas e Hezbollah si comportano come il cavaliere nero dell’iconica scena di Monty Python e il Sacro Graal che, dopo aver perso le braccia e le gambe, continua saltellando sul solo tronco a minacciare re Artù e a volergli impedire di attraversare il ponte.

Al di là di quelle inopportune manifestazioni di tracotanza, che fanno ridere in un film comico ma sono penose nella realtà, questa guerra non sarà vinta da nessuno. È stata già persa da Hamas e Hezbollah, è stata sicuramente persa dalla popolazione di Gaza, dove il rapporto tra vittime civili e militari pende drammaticamente dalla parte delle prime.

Ma comunque vada a finire, sarà persa anche da Israele, anche – e forse soprattutto – se riesce nel suo obiettivo non dichiarato di eliminare il problema palestinese eliminando i palestinesi, fisicamente o materialmente, facendo terra bruciata delle loro città, delle loro strade, delle loro scuole e dei loro ospedali con una diligenza che avrebbe provocato l’invidia di Catone il Censore quando vagheggiava di distruggere Cartagine.

Non si sa bene se i dirigenti israeliani vogliano conquistare il controllo dell’intera Palestina per ragioni di sicurezza o per allucinazione religiosa. Se si trattasse di quest’ultima motivazione, cioè estendere i confini di Israele fino a raggiungere quelli della Terra promessa da Dio ai discendenti di Abramo, allora non saremmo che all’inizio di una lunghissima guerra: non solo perché nella Bibbia ci sono una decina di passaggi in merito al territorio coperto dalla promessa divina, tutti diversi l’uno dall’altro, ma anche e soprattutto perché il passaggio più citato (Genesi 15,18-21), prevederebbe l’annessione della Siria, della Giordania e di parti sostanziali dell’Egitto, dell’Iraq e dell’Arabia Saudita.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu è sufficientemente scafato da usare i suoi fondamentalisti un po’ come ricatto, un po’ come truppe d’assalto, ma di sicuro non vuole fare la guerra a mezzo Medio Oriente.

Ma se il suo obiettivo fosse quello di eliminare il problema palestinese eliminando i palestinesi, allora avrebbe solo spostato nello spazio e nel tempo una guerra di assedio a Israele che potrebbe essere più feroce che mai.

Anche se arrivasse ad espellere tutti gli arabi da Gaza e dalla Cisgiordania, se li ritroverebbe solo spostati da qualche parte (ma resta un mistero dove, visto che non li vuole nessuno), da dove riprenderebbero prima o poi la guerra o la guerriglia contro Israele.

Senza contare gli arabi con passaporto israeliano che, già cittadini di seconda classe, si vedrebbero definitivamente additati come quinta colonna del nemico fino ad essere espulsi anche loro.

Con la politica della terra bruciata, e con l’uccisione di decine di migliaia di persone, in maggioranza donne e bambini, Israele non ha fatto altro che seminare l’odio perenne e il desiderio di vendetta dei sopravvissuti. I quali, privi di canali politici, potrebbero prima o poi dar vita a organizzazioni più simili – per ferocia e inconcludenza – all’ISIS che a Hamas, che già, in quanto a ferocia e inconcludenza si è mostrato campione.

Lo sviluppo già traballante del cessate il fuoco in atto dal 19 gennaio ci dice che siamo solo all’inizio. Ma quel che sembra certo fin d’ora è che Israele si è cacciato in un’avventura da cui la stessa ragion d’essere del paese potrebbe essere spazzata via. Sansone si appresta a morire con tutti i filistei.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 20 gennaio 2025
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Un commento

  1. Aldo Ciaralli 22 gennaio 2025

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