
Ho scoperto di recente questa situazione: Omar e Lamin hanno dovuto lasciare la loro casa, il Gambia, dopo che una siccità persistente ha negato loro l’ultima possibilità di un futuro assieme ai loro cari. Hanno sperimentato l’incubo della barca (ogni notte si svegliano sudati, avvertendo che l’acqua sommerge completamente la barca e che loro stanno per annegare), ma sono riusciti a raggiungere le Canarie. Essendo minorenni, sono stati per un po’ affidati a un Centro di accoglienza. Ma il giorno in cui hanno compiuto 18 anni (sono nati lo stesso giorno), sono stati messi su un aereo per Barcellona. Si sono ritrovati direttamente in strada. Senza conoscere nessuno. Fino a quando la Parrocchia di Sant’Anna, un vero e proprio «ospedale da campo», modello a cui papa Francesco ci chiama tutti, ha aperto loro le porte (come a centinaia di migranti e persone in gravi condizioni di vulnerabilità) e lì trascorrono la maggior parte della loro giornata. La comunità li accompagna in ogni necessità e con il cuore, con l’obiettivo primario di regolarizzare la loro situazione. Loro non hanno perso la speranza.
Questa è una notizia che ho letto di recente: «Tredici bambini di Gaza malati di cancro lasciano l’Egitto per essere curati in Spagna». Una nota agenzia di stampa condivide questo titolo sui suoi social network. Con profonda preoccupazione, leggo sotto la notizia commenti come questi: «Perché l’Egitto non li cura?». «Perché a te non capita quando sei in Thailandia?». «Aiutano anche i valenciani?». «Che vadano a Dubai. Hanno una medicina spettacolare. Ah, no, lì non li vogliono». «Poi, io otto mesi di attesa per l’ortopedico». «Qualcuno mi spiega perché siamo l’ONG del mondo?». «Sicuramente per questi i finanziamenti si trovano». «Gli spagnoli prima di tutto, grazie». Di fronte a un simile diluvio di infraumanità, sono io a perdere la speranza.
Consulto il Libro dell’Esodo (32,7-14). Lì, Dio, devastato dopo aver salvato Israele dalle grinfie dell’Egitto e dopo che i suoi figli lo hanno rifiutato e hanno adorato un «vitello d’oro», dice a Mosè che li «distruggerà». Il profeta intercede per loro e conclude il suo appello con decisione: «Allontana l’incendio del tuo furore, pentiti della minaccia contro il tuo popolo». Il brano si conclude constatando che, in effetti, «il Signore si pentì della minaccia che aveva pronunciato contro il suo popolo».
C’è ancora tempo perché coloro che trattano il prossimo come una bestia si «pentano» della loro durezza di cuore? Mosè, un uomo, ce l’ha fatta con Dio… Ma temo che, in questi tempi bui, molti non meritino più di essere chiamati «uomini».
“Arrepiéntete”
Esta es una realidad que he conocido recientemente: Omar y Lamin tuvieron que abandonar su hogar, Gambia, después de que una sequía sin tregua les negara la última oportunidad de un futuro con los suyos. Padecieron la pesadilla de la patera (cada noche se despiertan entre sudores sintiendo que el agua cubre la barcaza por completo y se ahogan), pero pudieron llegar a Canarias. Siendo menores, estuvieron un tiempo tutelados en un centro de la Administración. Pero, el día que cumplieron 18 años (nacieron el mismo día), les metieron en un avión rumbo a Barcelona.
Directamente, se vieron en la calle. Sin conocer a nadie. Hasta que la Parroquia de Santa Anna, auténtico “hospital de campaña” al que nos llama a todos el papa Francisco, les abrió sus puertas (como a cientos de migrantes y personas en situación de grave vulnerabilidad) y allí pasan la mayor parte del día. La comunidad les acompaña de un modo integral y desde el corazón, con el objetivo primero de poder regularizar su situación. Tienen esperanza.
Esta es una noticia que he leído recientemente: “Salen de Egipto 13 niños gazatíes con cáncer que serán tratados en España”. Una conocida agencia informativa comparte este titular en sus redes sociales. Con profunda desazón, leo comentarios como estos: “¿Por qué no los trata Egipto?”. “Pero que no te pase nada a ti en Tailandia”. “¿Están ayudando a los valencianos también?”. “Que vayan a Dubái. Tienen una medicina espectacular. Ah, no, que allí no los quieren”. “Luego, yo ocho meses de espera para el traumatólogo”. “¿Alguien me explica por qué somos la ONG del mundo?”. “Seguro que para estos sí hay financiación”. “Los españoles primero, gracias”. Ante semejante alud de infrahumanidad, soy yo el que pierdo la esperanza.
Acudo al Libro del Éxodo (32, 7-14). Allí, Dios, devastado después de salvar a Israel de las garras de Egipto y de que sus hijos le rechacen y adoren a un “becerro de oro”, le asegura a Moisés que los “destruirá”. El profeta intercede por ellos y finaliza su alegato con rotundidad: “Aleja el incendio de tu ira, arrepiéntete de la amenaza contra tu pueblo”. El pasaje concluye constando que, efectivamente, “se arrepintió el Señor de la amenaza que había pronunciado contra su pueblo”.
¿Aún estamos a tiempo de que se “arrepientan” de su dureza de corazón los que miran al semejante como si fuera una rata? Moisés, un hombre, lo consiguió con Dios… Pero me temo que, en estos tiempos oscuros, muchos ya no merecen llamarse “hombres”.





