La Chiesa latinoamericana al Conclave

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Parte da una «quasi certezza», secondo gli addetti ai lavori, il Conclave che avrà inizio il prossimo 7 maggio. Il successore di papa Francesco, primo papa latinoamericano della storia, molto difficilmente proverrà dall’area di America Latina e Caraibi. La motivazione è facilmente comprensibile: difficile – è il pensiero diffuso – che, dopo un papa latinoamericano, scelta che nel 2013 era stata dirompente, ce ne sia subito un secondo.

È opinione diffusa che un papa europeo sia più adatto ad approfondire e a dare più stabilità ai molti «cantieri» rimasti aperti durante il pontificato di Francesco; altri, diversamente, pensano alla possibilità che ulteriori intuizioni e sviluppi possano arrivare da nuovi continenti, l’Asia in particolare.

Valutazioni del tutto comprensibili, naturalmente anche se si potrebbe, per contro, obiettare che proprio una persona dello stesso continente di Francesco potrebbe, con il proprio stile e talenti, dare continuità alle principali strade aperte dal predecessore.

Si tratta, in ogni caso, di giudizi labili, come i paginoni pieni di pronostici e di papabili di questi giorni. I cardinali si stanno incontrando, e stanno pregando insieme, attenti, come in ogni conclave, al «soffio» dello Spirito. Che potrebbe portare ovunque. Restiamo, tutti noi, in preghiera e in attesa.

Uno «strano» Conclave

Il punto, piuttosto, è un altro, e riguarda l’impressione di uno «strano» Conclave, dal sapore un po’ “triste”, per quello che resta il subcontinente con il maggior numero di battezzati, nel mondo, circa 400 milioni, oltre che quello che ha dato alla Chiesa il papa degli ultimi dodici anni.

Francesco ha portato con sé il vissuto e la storia di quelle terre, un cammino originale sgorgato dopo il Concilio Vaticano II, non solo una generica ventata di aria fresca o un’attenzione ai poveri, vista superficialmente come dato sociologico.

Oggi, però, il dolore per la sua morte rischia di essere ancora troppo fresco. Senza contare che, in questi dodici anni, è stato proprio il papa a «rappresentare» questa parte di mondo – che pure dal punto di vista ecclesiale era ed è non poco frastagliata –, a prendersi gran parte della scena. Ad esempio, proprio per il fatto che c’era un papa sudamericano, la presenza dell’America Latina all’interno dei dicasteri romani non è stata particolarmente ampia e, al momento della morte di Francesco, soltanto il Dicastero per la dottrina della fede, peraltro di prima grandezza, era guidato da un latinoamericano, il cardinale argentino Víctor Manuel Fernández, molto vicino al papa.

23 cardinali in Sistina

Prima, però, di ulteriori riflessioni, è opportuno proporre una breve presentazione della, comunque, folta pattuglia latinoamericana al conclave. Si tratta di 23 cardinali elettori, un numero non indifferente, anche se, in percentuale, simile alla consistenza del 2013 (19 porporati), essendo, questo, un conclave più partecipato. Di questi, solo 3 c’erano anche nel 2013.

17 sono sudamericani, in rappresentanza di ben otto Paesi (mancano solo Bolivia e Venezuela, che hanno un cardinale ultraottantenne), 2 messicani (erano 3 nella precedente elezione), 2 centroamericani e 2 caraibici.

Va detto che, nei primi anni di pontificato, il Sudamerica era stato sottorappresentato nel Sacro collegio, a vantaggio, piuttosto, dell’America centrale. Una traccia, forse, dell’influenza avuta, in quel periodo, dal cardinale honduregno Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, oggi ultraottantenne.

Solo negli ultimi Concistori, papa Francesco ha dato un nuovo assetto al Sudamerica, sia implementando la presenza dei connazionali argentini, sia scegliendo alcune figure di indubbio prestigio e a lui più vicine. Basti pensare che dei 17 sudamericani ben 5 sono stati creati nel Concistoro dello scorso dicembre, e 3 in quello dell’anno precedente.

Queste ultime nomine hanno, appunto, rappresentato un’iniezione di significative personalità nel Sacro collegio, ma l’impressione di questi giorni è che non siano moltissimi, al di là delle loro qualità, i cardinali ben conosciuti fuori dal Continente.

Tutti i nomi

Il Paese latinoamericano con più cardinali, al Conclave, è il Brasile: sono ben 7.

Due di questi, c’erano anche nel 2013: João Braz de Aviz, prefetto emerito del Dicastero per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, e Odilo Pedro Scherer, arcivescovo di San Paolo, persona di grande esperienza pastorale. A loro, si sono aggiunti: Orani João Tempesta, arcivescovo di Rio de Janeiro, che nel 2013 ha accolto il papa alla GMG; Sérgio da Rocha, arcivescovo di San Salvador de Bahia, primate del Brasile, relatore generale al Sinodo sui giovani del 2017, componente del Consiglio dei cardinali; Leonardo Ulrich Steiner, arcivescovo di Manaus, unico cardinale dell’Amazzonia presente al Conclave e vicino, dunque, alle istanze di quell’enorme territorio, oggetto di un Sinodo, nel 2019; Paulo Cezar Costa, arcivescovo di Brasilia, attento ai giovani e al dialogo sociale e politico; infine, last but not least, Jaime Spengler, che attualmente assomma i due incarichi forse più delicati del subcontinente: quello di presidente del Consiglio episcopale latino-americano (CELAM) e quello di presidente della grande Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (CNBB).

Abbiamo, quindi, l’Argentina, con 4 porporati, 3 dei quali creati negli ultimi 2 anni. Paradossalmente, non è presente l’attuale arcivescovo di Buenos Aires, l’arcidiocesi di Jorge Mario Bergoglio, mons. Jorge Ignacio García Cuerva. C’è, invece, il suo predecessore, l’arcivescovo emerito Mario Aurelio Poli, nominato da Francesco subito dopo la sua elezione a papa. La delegazione è completata da Víctor Manuel Fernández, fino alla morte del papa prefetto del Dicastero per la dottrina della fede; Ángel Sixto Rossi, arcivescovo di Córdoba, confratello gesuita e amico di Jorge Mario Bergoglio; Vicente Bokalic Iglic, arcivescovo di Santiago del Estero e primate d’Argentina. La sua porpora è conseguenza della scelta di Francesco, dello scorso anno, di rendere questa città del Nord del Paese, dove sorse la prima diocesi argentina, sede primaziale, al posto della capitale.

Della zona più meridionale del Sudamerica, il «Cono Sur», fanno parte del Collegio, per il Paraguay, Adalberto Martínez Flores, arcivescovo di Asunción e, per l’Uruguay, il Paese più laico e scristianizzato del continente, il salesiano Daniel Fernando Sturla Berhouet, arcivescovo di Montevideo.

Vicini in diversi modi alla sensibilità di Francesco, i quattro cardinali dei Paesi andini. Il più conosciuto in Italia (e anche dai lettori di SettimanaNews) è il peruviano Carlos Castillo Mattasoglio, che abbina una solida e originale visione teologica e una forte attenzione pastorale per gli ultimi, conosce bene l’italiano e nel nostro Paese fu ordinato diacono. Negli ultimi anni, è stato scelto per diversi servizi in Vaticano, nella Pontificia Accademia per la vita, nel Dicastero per il Servizio allo sviluppo umano integrale, per il coordinamento del «Gruppo di Studio 9» su questioni dottrinali, pastorali ed etiche controverse, a latere del Sinodo.

Dell’Accademia per la vita fa parte anche il cileno Fernando Natalio Chomalí Garib, sensibile sui temi etici, ma anche su quelli sociali delle migrazioni e dell’inclusione. Luis Gerardo Cabrera Herrera, arcivescovo di Guayaquil, è il cardinale dell’Ecuador. Frequenti i suoi richiami alla pace sociale, in un contesto di sempre maggiore violenza. Luis José Rueda Aparicio, arcivescovo di Bogotá, che in passato è stato presente in zone di grande presenza di gruppi armati, è impegnato nella riconciliazione del Paese.

Cambiando regione, l’America centrale è rappresentata dal guatemalteco Álvaro Leonel Ramazzini Imeri, vescovo di Huehuetenango, molto attento ai migranti, e dal nicaraguense Leopoldo José Brenes Solórzano, primate di una Chiesa oggi perseguitata dal regime. Operano in un contesto difficilissimo anche i due cardinali dei Caraibi, il cubano Juan de la Caridad García Rodríguez, arcivescovo di L’Avana, e l’haitiano Chibly Langlois, vescovo di Les Cayes.

Infine, il Messico, con il primate Carlos Aguiar Retes, arcivescovo di Città del Messico, con una solida sensibilità pastorale, già presidente del CELAM, e Francisco Robles Ortega, arcivescovo di Guadalajara, presente anche al conclave del 2013.

Ci sono, poi, almeno altri due cardinali particolarmente legati all’America Latina: lo statunitense Robert Francis Prevost, finora prefetto per i vescovi e presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, che ha vissuto a lungo in Perù, alla guida degli agostiniani, e come vescovo di Chiclayo, e l’arcivescovo di Rabat (Marocco), lo spagnolo Cristóbal López Romero, salesiano, con una significativa esperienza missionaria in Paraguay e in Bolivia.

Una Chiesa «fonte», anche per il futuro

Naturalmente, la scelta del prossimo papa, alla quale contribuiranno certamente anche i 23 cardinali latinoamericani, si annuncia molto importante e delicata per il futuro della Chiesa. Ma un punto altrettanto, importante, visto dall’America Latina, certamente di più di qualche singola carriera, è lo sviluppo di quel peculiare cammino ecclesiale continentale che, con l’elezione di papa Francesco, ha trovato piena «dignità» e centralità. Fu il teologo e filosofo brasiliano Henrique Cláudio de Lima Vaz, a proposito della Conferenza di Medellín, a parlare di «Chiesa fonte», una nozione sviluppata anche da altri teologi, come Gustavo Gutiérrez, in opposizione alla contraria nozione di «Chiesa riflesso».

Dal Concilio, insomma, sarebbe scaturita dall’America Latina una visione di Chiesa, sia dal punto di vista storico ed esistenziale, sia dal punto di vista teologico e ideale, sia dal punto di vista istituzionale, originale e «generativa», non dipendente, come qualcuno sospettava, da visioni e ideologie europee. Un percorso che ha conosciuto molte resistenze (ancora ben visibili), contraddizioni, tradimenti, ma che si è sedimentato, anche dal punto di vista magisteriale, attraverso le Conferenze generali dell’episcopato latinoamericano di Medellín (1968), Puebla (1979), Santo Domingo (1992) e Aparecida (2007).

Il pontificato di Francesco è frutto ed espressione di questo patrimonio, strettamente legato alla visione di Chiesa del Concilio Vaticano II. E non certo di un vero o presunto peronismo.

Tra i punti chiave: la centralità dei poveri, vista inizialmente come «scelta» (Medellín) e poi come «opzione preferenziale» (a partire da Puebla): un’opzione che non ha, certo, un cuore sociologico o ideologico, ma strettamente evangelico; una seconda opzione preferenziale, meno nota, ma non meno significativa, per i giovani; una visione di Chiesa come popolo di Dio in cammino nella storia, necessaria premessa a una Chiesa realmente sinodale, come si è visto, per esempio, nel cammino della Chiesa in Amazzonia; il primato dell’attenzione alla persona nella sua situazione e dell’approccio pastorale, premesse, anch’esse, di una Chiesa che annuncia il Vangelo senza rinunciare a “immergersi” nella storia.

Francesco, poi, ci ha messo molto del suo, a partire da alcune formidabili e sintetiche intuizioni, come quella della «Chiesa in uscita». Ci ha messo, naturalmente, i suoi pregi e pure gli inevitabili limiti umani.

Nel 2013, forse in modo confuso e non pienamente consapevole, si ritenne che questa visione di Chiesa, incentrata sull’evangelizzazione, potesse «risvegliare» un cattolicesimo stanco, autoreferenziale. In parte è accaduto, in parte alcuni processi si sono rivelati lunghi e complessi. Ma, anche grazie a tutto questo, la Chiesa ha compiuto un «balzo in avanti». Di sicuro, questo patrimonio non può essere disperso, semmai approfondito e reso più «corale», se si pensa che tanti, anche in questi giorni, lo continuano a trattare alla stregua di una sottocultura.

Ed è per questo che il cammino della Chiesa latinoamericana, nel Conclave di questi giorni, e nei prossimi anni, potrà essere ancora determinante.

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2 Commenti

  1. Giuseppe 6 maggio 2025
    • Pietro 7 maggio 2025

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