VI Per annum: Ma io vi dico!

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Anche oggi la liturgia ci mette di fronte ad una alternativa che, a prima vista, sembra non abbia vie d’uscita. Il tema è la Legge: tenerla o eliminarla? È noto che su questo problema si danno facilmente due atteggiamenti opposti, che potremmo chiamare legalismo o anarchia. Si trovano facilmente persone che formano l’uno o l’altro di questi due gruppi.

I primi privilegiano ciò che viene chiamato “ordine”, che può sussistere solo dentro una regola, i secondi inneggiano alla “libertà” delle scelte.

Il buon senso aiuta presto a capire che il punto chiave è proprio la parola “scelta”, il che suppone che l’uomo sia una creatura “libera”. E questo va bene. Ma si capisce pure in fretta che una libertà senza regola non porta molto lontano, e l’anarchia non è mai stata l’ideale di una società ben impostata.

Le letture di questa domenica ci aiutano a trovare una strada che sia praticabile perché una vita possa dirsi buona, e questo si può ottenere solo se le regole sono irrorate da un ideale, che ne fa un’esperienza liberante, lontano da un moralismo soffocante. L’ideale si pone traguardi alti, sempre migliorabili, il legalismo, invece, tarpa le ali e impedisce alla persona di crescere.

È obbligatorio scegliere

La scelta è nel cuore della prima lettura (Sir 15,15-20): «Se vuoi, osserverai i comandamenti; l’essere fedele dipenderà dal tuo buon volere». Questo è un piccolo inno alla libertà dell’uomo, che viene precisato però da una regola che pone dei limiti: «Dio non ha comandato a nessuno di essere empio e non ha dato a nessuno il permesso di peccare» recita la conclusione del brano. Nessun male può essere oggetto di un ordine, o di una legge; d’altra parte, la libertà non significa il permesso di fare qualsiasi cosa, perché la libertà è per il bene, non certo per il peccato. Abbiamo già qui l’ampio orizzonte aperto alla libertà, che è il bene, e insieme il suo confine, al di là del quale c’è solo il peccato.

A proposito di peccato, mi piace ricordare quanto scrive Giuliana di Norwich nel suo Una rivelazione dell’amore: «Il peccato è niente, si conosce solo per la sofferenza che produce» (c. 27, p. 194), dove “niente” significa “mancanza di essere”, qualcosa come vuoto e nulla, qualcosa che non costruisce ma sminuisce la persona, e da questo nasce l’afflizione del fallimento, mentre il bene, al contrario, proprio perché realizza la vocazione originaria dell’uomo, porta gioia e appagamento.

Il testo biblico prosegue con: «Egli ti ha posto davanti il fuoco e l’acqua; là dove vuoi stenderai la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte; a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà».

Parlare di fuoco e acqua significa evocare due opposizioni inconciliabili: le figure restano in se stesse vaghe, perché il fuoco può nutrire la vita e distruggerla, così come l’acqua ha le stesse due possibilità contrastanti, tanto che la neo-volgata si preoccupa di materializzarle con l’aggiunta «il bene e il male».

Poi si dice che Dio dà agli uomini ciò che loro piace. Questo non significa che Dio ama mandare gli uomini in rovina se gli piace, al contrario. Se Dio acconsente a ciò che l’uomo sceglie per il proprio piacere, significa che lascia a lui la libertà e la responsabilità delle sue azioni. Per il vero, il piacere richiama la soddisfazione, e suscita il desiderio: è qui che va esercitata la sorveglianza perché la scelta sia quella corretta.

La ricerca del solo piacere è pericolosa. Quando è istinto cieco, può provocare molti danni: «La radice di tutti i mali è la cupidigia» (1Tm 6,10), che Aelredo di Rievaulx glossa così: «La radice di tutte le virtù è la carità» (Specchio della carità 2,3). Pan per focaccia, si direbbe. Si tratta di quelle sintesi in bianco e nero che servono a volte a uscire dalla confusione di pensieri contrastanti.

Sapienza mondana e sapienza divina

Il brano di 1Cor 2,6-10 è la prosecuzione di quello di domenica scorsa, in cui Paolo continua a esporre la contrapposizione tra la sapienza mondana, tipica dei «dominatori di questo mondo», che sarà ridotta al nulla, e la «sapienza divina, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria». Questo è il paradigma che permette di discernere tra scelta sbagliata e scelta giusta.

Paolo attribuisce all’ignoranza il fatto che i «dominatori di questo mondo» abbiano crocifisso «il Signore della gloria», impedendosi così di ottenere la salvezza e di essere invece «ridotti al nulla». Dice che «la sapienza divina non l’hanno conosciuta», ma forse questo significa molto di più di una semplice ignoranza, e fa pensare che chi si sente dominatore del mondo è radicalmente incapace di conoscere, o meglio, di “riconoscere” quella sapienza che è l’esatto opposto della sua: semplicemente non ha occhi per vedere ciò che non appartiene al suo orizzonte. Questa sapienza è rivelata da Dio per mezzo dello Spirito perché è stata preparata «per coloro che lo amano». Ancora una volta ci viene ricordato che l’atto di fede, e la comprensione che ne deriva, non può essere semplicemente la conclusione di un ragionamento, ma appartiene al campo dell’amore, della fiducia, dell’affidarsi, del rischio.

Il “di più” richiesto al cristiano

Tocca al vangelo (Mt 5,17-37) dilatare gli orizzonti di una visione puntigliosa e angusta della Legge e delle sue norme. Il brano è piuttosto lungo, ma vale la pena leggerlo per intero. Gesù parte dalla Legge, che era ben nota ai suoi ascoltatori, ma li spinge a fare un passo in più: «non sono venuto ad abolire (la Legge), ma per dare compimento».

Come prima si contrapponevano due “sapienze”, quella umana e quella divina, qui si contrappongono due “giustizie”: quella di scribi e farisei e quella dei discepoli di Gesù. La seconda si qualifica come un “compimento”, un “di più” che apre spazi senza frontiere: sono precetti, ma tali che non permettono mai di dire: “sono arrivato”!

Sono cinque norme (altre due le vedremo domenica prossima) che vengono, per così dire, rivisitate da Gesù e dilatate, sia in basso che in alto, con la cura delle radici se si vuole che l’albero produca frutti, e sviluppi le sue potenzialità a livelli mai immaginati prima.

«Non uccidere», recita la prima norma, ma la radice di questo istinto omicida è l’insulto al fratello, anche solo trattandolo da stupido e da pazzo. E, per completare l’opera, Gesù ricorda che tale radice va risanata prima di presentarsi a Dio per l’offerta sull’altare.

Si noti che questo ha da farsi nel caso che il fratello abbia qualcosa contro di te, ciò per cui – secondo noi – toccherebbe a lui venire a scusarsi! Ma ogni problema di precedenze salta davanti alla considerazione per cui si può stare di fronte a Dio solo con un cuore riconciliato e pronto a riconciliarsi. E questa riconciliazione deve avvenire in spirito di fraternità, non affidandosi a processi e a tribunali.

Il secondo precetto recita «Non commettere adulterio», ma anche qui Gesù risale al “desiderio”, che va sorvegliato e controllato prima che prenda il sopravvento, e il discorso è fatto con una radicalità impressionante, al punto da dover arrivare a recidere un membro del corpo che fa da ostacolo pur di non perdersi per intero.

Ma c’è di più: non solo dobbiamo evitare ciò che fa male a noi, ma ci tocca stare attenti a non mettere altri in situazione di pericolo, come il caso di chi ripudia la moglie con un semplice “atto di ripudio”, perché, facendo così, la espone all’adulterio.

Viene, infine, in questa lista di precetti legali, la proibizione dello spergiuro, ma anche qui si compie un deciso taglio alla radice: «ma io vi dico: non giurate affatto»! In effetti, se ci pensiamo bene, l’aggiungere il giuramento a una promessa, o per mostrare la verità di una nostra affermazione, significa che non ci si fida l’uno dell’altro!

E su questo, dopo aver ricordato che giurare in nome di Dio, o di Gerusalemme, o per la nostra testa, è del tutto futile, perché significa appoggiarsi su cose su cui non abbiamo alcun potere, arriva la splendida conclusione: «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno»!

C’è tutta un’etica della parola in questa frase, e mi ricorda quanto ebbe a scrivere qualche anno fa, in uno dei suoi bellissimi libri, p. Timothy Radcliffe, per il quale uno dei problemi più urgenti del nostro tempo è proprio quello di ricuperare il valore morale della parola, sia nel senso di dire ciò che veramente si pensa, sia di mantenere con serietà e onestà ciò che a parole si promette.

Nella girandola delirante di sms e notizie false, o di fake news come si ama dire, bisogna riconoscere tutta l’attualità e l’urgenza di una simile raccomandazione.

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