XXXIII Per annum: Il ramo tenero

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Paura e custodia

Nelle ultime domeniche dell’anno liturgico la Chiesa invita i credenti a innalzare/approfondire lo sguardo dal proprio impegno nel vivo della storia per contemplare, almeno alla fine dell’anno, la fine/il Fine felice del cammino dell’umanità, della storia e del creato. Chi sa dove va a finire vive sereno i suoi giorni, senza l’angoscia del totalmente sconosciuto e incerto.

Le tematiche escatologiche, riguardanti le realtà ultime e definitive possono sembrare lontane della sensibilità moderna, ma possono invece giocare un ruolo di rasserenamento di una società in cui l’angoscia esistenziale è mascherata, edulcorata o drogata da immersioni totalizzanti in realtà lavorative, di successo, di apparenza, del carpe diem edonistico, di rassegnazione ai giorni tristi, di isolamenti nel proprio particulare ecc.

Gli sconvolgimenti ambientali dovuti ai cambiamenti climatici stanno però convincendo molti a percepire l’unitarietà del tutto, la globalizzazione/comunione all’interno della casa comune del mondo e della natura (il creato, per i credenti). Gli sconvolgimenti – dovuti al comportamento tragicamente sbagliato e omicida/suicida dell’uomo nei confronti della natura – spaventano e fanno pensare.

L’emersione sempre più imponente di sovranismi malati di egoismo autoreferenziale, di dittature e persone “forti” che pensano di poter risolvere i problemi delle loro nazioni con chiusure cieche degli spazi di convivenza, la pervasività del controllo informatico dei dati personali, la pericolosità delle campagne di fake news create ad arte, le guerre elettroniche e gli attacchi degli hacker informatici fanno percepire la precarietà della convivenza pacifica e della possibilità di un’esistenza umana serena nella solidarietà e nell’accettazione reciproca degli altri esseri umani.

Nel campo ecclesiale si è compreso che con la paura non si convince nessuno, al giorno d’oggi. Ma è innegabile che la situazione attuale può indurre molti a riflettere, a cercare in un messaggio sovraumano e in una convivenza governata dall’amore, dal perdono e dalla veridicità dei rapporti un conforto e una custodia non evanescenti o ingannevoli.

La cultura odierna, almeno nei mondi cosiddetti “sviluppati” è avvezza al linguaggio apocalittico-catastrofico (mutamenti climatici, film horror e catastrofici ecc.).

Le letture di questa domenica possono essere un’occasione per chiarire l’apocalittica salvifica della parola di Dio. Quello apocalittico non è un genere letterario facilmente decodificabile in modo corretto e particolarmente attraente nel campo della fede, ma contiene risorse interpretative della realtà non esprimibili forse con altre categorie.

Daniele: incoraggiamento e resistenza

Il libro di Daniele (“Il mio giudice è Dio”) non è un libro profetico ma di natura apocalittica, rivelatoria. Riflette sulla storia e il suo risolvimento finale. Si avvale di espedienti letterari quali la finzione e le immagini allegoriche. Frutto di accrescimenti progressivi, il libro fu redatto definitivamente nel II secolo a.C. durante il periodo dell’oppressione feroce attuata da Antioco IV nei confronti dei giudei.

Con l’espediente della pseudepigrafia – fenomeno legittimo, approvato culturalmente all’epoca e alieno da intenti falsari –, venne attribuito al personaggio Daniele. Esso era venuto crescendo nel post-esilio come figura emblematica di sapienza e di capacità interpretativa delle vene profonde degli avvenimenti.

Il libro intende incoraggiare la resistenza del popolo ebraico facendo intravedere, oltre la crosta ingannevole della supremazia opprimente delle superpotenze che si sono avvicendate nei secoli, l’unico potere capace di sconfiggere il male con la vittoria definitiva nella storia e soprattutto oltre la storia.

Nella letteratura apocalittica è presente un personaggio che è portato in cielo, dove riceve da un angelus interpres la rivelazione dei veri destini del mondo al di là delle vicende storiche visibili al momento.

Composto in aramaico (2,4–7,28, eccetto 3,24-90 in greco), ebraico (1,1–2,3; 8,1–12,) e greco (3, 24-90; 13,1–14,41), il libro di Daniele vuole avere un’apertura universale, con un’ampia schiera di destinatari. La sua struttura letteraria è discussa, e la divisione degli interpreti originata, fra l’altro, dal ruolo da attribuire al c. 7, vero snodo del libro. Esso ha relazioni con i capitoli precedenti (racconti) e prepara quelli successivi (visioni).

Seguendo il commentario di L. Alonso Schökel, possiamo strutturare l’insieme in questo modo: Dn 1 Daniele alla corte di Babilonia; Dn 2–7 racconti (con struttura chiastica: Dn 2 sogno dei quattro regni; Dn 3 atti dei martiri; Dn 4–5 giudizio sui re; Dn 6 atti dei martiri; Dn 7 sogno dei quattro re); Dn 8–12 visioni (raccontate in prima persona; il montone e il capro; settanta settimane, la visione terribile; Dn 13–14 racconti (testi deuterocanonici in greco; Dn 13 Daniele e Susanna; Dn 14,1-22 Daniele e i sacerdoti di Bel; Dn 14,23-32 Daniele e il drago.

La saggezza di Daniele si manifesta questa volta non nell’interpretazione dei sogni ma nell’amministrazione della giustizia. Si dimostra, in modo ironico, che l’osservanza della Legge salva il giusto e provoca il fallimento dei nemici.

Visioni

In Dn 8–12, che contiene tre visioni, prevale nettamente la connotazione apocalittica del libro. «Vi domina la prospettiva storica della persecuzione di Antioco IV: è cominciata la grande tribolazione, ma seguirà la liberazione totale, attraverso il giudizio e la risurrezione dei morti» (Alonso Schökel).

In Dn 8 si descrive il potere crescente di Antioco V e la sua disfatta miracolosa.

In Dn 9 si parla del destino di Gerusalemme, la cui salvezza viene annunciata nella profezia delle settanta settimane.

In Dn 10–12, visione molto prolissa, si descrivono le lotte continue tra i tolomei (successori di Tolomeo I Sotere, 323-285, diadoco di Alessandro Magno che si insediò ad Alessandria d’Egitto) e i seleucidi (successori di Seleuco I Nicatore, 305/4-281, diadoco di Alessandro Magno che si insediò ad Antiochia sull’Oronte, fondata da lui nel 300), con i conseguenti danni per il popolo giudaico e la vittoria finale di quelli «che sono scritti nel libro».

Le visioni di Dn 8–12 «risultano curiosamente assai meno nazionaliste: aspettano la sconfitta di Antioco V ben più che la fondazione del “regno dei santi”. D’altra parte, questi capitoli contengono due affermazioni teologiche di grande valore: la fede nella risurrezione (12,2) e il valore del martirio (11,33.35; 12,10)» (Alonso Schökel).

Si risveglieranno

Come nelle escatologie classiche, la sconfitta del nemico è solo il penultimo atto, quello che precede l’instaurazione definitiva del regno di Dio (cf. Gl 3–4; Ez 38–39; Is 24–27.66). La nuova era sarà illuminata dai dolori del parto, che annunciano la vita e la salvezza.

L’elemento nuovo, però, è costituito dalla risurrezione dei morti per il giudizio finale. È un tema annunciato più o meno implicitamente in Is 53, Ez 37 e Is 26,14-29. Seguiamo ancora Alonso Schökel nelle sue conclusioni esegetico-teologiche.

Il libro di Daniele apporta un superamento decisivo della tradizione trasmessa, annunciando tuttavia per ora solo una risurrezione non generale, ma personale e differenziata. Per l’autore originale si tratta del popolo giudaico, ma per il finto Daniele la soluzione è dubbia: solo i morti nell’ultima persecuzione, o tutti i morti della storia? La risurrezione precede il giudizio di separazione.

In Ez 37 la risurrezione coincideva con la liberazione del popolo e il rientro in patria. Ez 20,35-38 introduceva però un giudizio intermedio nel deserto: i ribelli saranno esclusi, i fedeli entreranno nella terra. Se l’uscita da Babilonia significa uscire da un sepolcro, si ha una risurrezione per vivere in patria e un’altra per morire nel deserto.

Il libro di Daniele allarga la portata dell’immagine. Si tratta di una vera risurrezione di morti. Essa però non è in vista di entrare nella patria geografica, ma di essere incorporati al nuovo regno che Dio instaura.

Il libro di Daniele apporta inoltre un ulteriore contributo. Egli distingue «un gruppo di privilegiato tra i salvati: non si tratta di guerrieri (Maccabei e seguaci) e neppure dei martiri (Eleazaro e altri), ma di un gruppo di maestri che predicano con frutto la conversione». Ai profeti e ai predicatori deuteronomici succedono ora in questo compito i “maestri/saggi/maśkilîm” della stirpe sapienziale.

In Dn 12 parla ancora, dopo Gabriele del c. 8 (8,16) e del c. 9 (9,21-22), uno con sembianze d’uomo (10,10.12.16.18.20). Egli annuncia che il tempo finale sarà un tempo di “restringimento/tempi difficili/ṣārāh” (CEI: “angoscia”), un “imbuto” esistenziale decisivo e mai visto prima.

Ogni popolo ha il proprio angelo che vigila su di esso. Israele ha “Michele/Chi come Dio?/Mîkā’ēl”, che nei testi biblici dell’AT e del NT è sempre visto come il soccorritore “militare” decisivo nel combattimento contro il male/il Drago/il diavolo (cf. Dn 10,13.21; Gd 9; Ap 12,7). Michele, “che in piedi sopra/che si occupa di/hā‘ōmēd ‘al” Israele, “si alzerà/ya‘ămōd” per esercitare con efficacia il compito espresso dal suo nome stesso.

L’esito del suo aiuto nel combattimento finale col male è “la salvezza del tuo popolo/yimmālēṭ ‘amme”. La radice mlṭ, nella coniugazione passiva niphal, rimanda al significato di «sfuggire, uscire indenne, scampare, liberarsi, trovare scampo, mettersi in salvo, mettere al sicuro, salvare la pelle, rifugiarsi, ricorrere» (Alonso Schökel, Dizionario di Ebraico biblico).

Vita eterna o ignominia

Gli iscritti nel libro della vita (cf. Es 32,32; Sal 69,29; Is 4,3; Ml 3,16; Fil 3,14.20; Ap 3,5; 20,5-1; in senso negativo Ap 17,8) usciranno indenni dal combattimento finale. Coloro che “dormono nella polvere/yešēnê ’admat-‘āpār” “si desteranno/yāqîṣû dal sonno (della morte e si rialzeranno) dalla polvere”.

La risurrezione è personalizzata e differenziata. Ci sarà una risurrezione per la “vita eterna/ḥāyyê ‘ôlām” e una “per la vergogna e per l’infamia eterna/laḥărāpôt ledir’ôn ‘ôlām”. Per la vita eterna si alzeranno “coloro che hanno convertito molti/maṣdîqê hārabbîm”, coloro cioè che hanno portato molti allo stato di giustizia, di buon rapporto con l’alleato YHWH.

L’instaurazione del nuovo regno non è una realtà automatica, ma richiede la necessaria collaborazione umana, sovrana e indipendente. I cittadini del nuovo regno dovranno praticare la giustizia ed essere giusti. Così chiedevano già altri testi: «Dagli angoli estremi della terra abbiamo udito il canto: “Gloria al giusto”»; «Aprite le porte: entri una nazione giusta, che si mantiene fedele» (Is 26,2).

Dn 12,2 supera la visione di Is 65,20 («Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni, né un vecchio che dei suoi giorni non giunga alla pienezza, poiché il più giovane morirà a cento anni e chi non raggiunge i cento anni sarà considerato maledetto»), ma può fondarsi su Is 25,8: «Eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato». Per comparire a giudizio, gli uomini devono alzarsi e presentarsi (Sap 4,20; 5,1).

«L’ignominia può essere una coscienza di disfatta che verrà sperimentata senza fine, o coscienza di disfatta definitiva e irreversibile: indefinita o definitiva. Si può obiettare: se il fallimento non si farà sentire per sempre, perché tale resurrezione? Essa si fonda sul motivo che nella mentalità israelitica il morto non è capace di simile coscienza» (Alonso Schökel). Il nostro testo non contrappone vita gloriosa/vita eterna ignominiosa, ma vita eterna/ignominia eterna.

Non pare che a quel tempo i giudei pensassero a un Antioco V in un carcere perpetuo e redivivo; credevano piuttosto a un suo fallimento definitivo (cf. 1Mac 6; 2Mac 9). Il secondo libro dei Maccabei esprime però la sua credenza nella risurrezione dei martiri e la consapevolezza dell’unità tra il popolo di Israele e alcuni dei suoi membri (Geremia, Onia ecc., cf. 2Mac 13).

Le apocalissi posteriori svilupperanno l’idea della vita ultraterrena degli uni e degli altri nei loro rispettivi luoghi. Composti prima della nascita di Gesù, si servono di un linguaggio che tornerà anche negli scritti del NT. Salmi Salomone 3,16; 14,9 riporta delle espressioni sobrie, mentre 1En103,7ss afferma: «Sapete che si faranno scendere le loro anime agli inferi e che esse diverranno misere e la loro afflizione (sarà) grande? E (che) il vostro spirito, in tenebra, in rete e in fiamma ardente entrerà nella grade condanna e (che) la grande condanna sarà per tutte le generazioni in eterno? Guai a voi perché non avrete pace!»; alla fine del libro, 1En 108,5ss afferma invece: «E interrogai uno degli angeli santi che stava con me e gli dissi: “Che cos’è quella (cosa) brillante dato che non è cielo, ma fiamma di fuoco, che brucia sola, e voce di grido, pianto, lamenti e grande sofferenza?”. Ed egli mi rispose: “(In) quel luogo che tu vedi colà sono gettati gli spiriti dei peccatori e degli empi e di coloro che fanno il male e di quelli che pervertono tutto quello che Iddio, per bocca di profeti, ha detto che doveva esser fatto» (tr. L. Fusella).

Le ultime realtà: quando e come?

Dopo la sequenza delle cinque controversie gerosolimitane ambientate nell’area templare (Mc 11,27–12,44) e prima del racconto della passione e risurrezione di Gesù (Mc 14,1–16,8.9-20), Marco riporta nel c. 13 un lungo discorso sulle realtà ultime, il discorso escatologico. Esso rimanda a un momento in cui sarà distrutta l’istituzione templare e sarà superata anche la morte di Gesù.

Gesù esce dal tempio e si siede sul monte degli Ulivi, da dove domina sia la città che il tempio. Già Zc 14,1-2 menzionava il monte degli Ulivi in un contesto escatologico.

Dopo l’introduzione (va. 1-4), nella quale Gesù annuncia la distruzione dell’ambiente templare e quattro discepoli gli domandano quando (pote) avverrà questo e quale sarà il segno (to sēmeion) che lo annuncia, il discorso prosegue con la risposta di Gesù, riguardante la fine di tutte le vicende storiche.

A differenza di Luca, Marco non distingue chiaramente l’immagine della distruzione di Gerusalemme dalla fine delle vicende umane, ma le mescola in un modo inestricabile.

Il discorso escatologico è strutturabile in tre momenti (cf. il commentario di B. Standaert), con una disposizione molto amata da Marco: A B A’ C D.

Primo momento A. vv. 5-6 messa in guardia dai falsi profeti; B. vv. 7-13 “Quando sentirete…”; vv. 14-20 “Quando vedrete…”; A’ vv. 21-23 messa in guardia dai falsi profeti.

Secondo momento: C. vv. 24-25.26-27 la fine (il cosmico e il personale); a) vv. 28-29 parabola della pianta di fico (immagine della natura, cosmico); v. 30 questa generazione non passerà prima che la fine venga.

Terzo momento D. v. 31 cielo e terra passeranno (cosmico), le mie parole non passeranno (personale); v. 32 quanto al giorno e all’ora, nessuno lo sa, eccetto il Padre; a’) vv. 33-37 parabola dell’uomo partito e che può ritornare a qualsiasi ora (immagine personale).

Dopo una prima messa in guardia dai seduttori messianici (vv. 5-6), vengono ricordati l’inizio dei dolori (vv. 7-8), le prove necessarie della comunità (vv. 9-13), gli ultimi avvenimenti prima della fine (vv. 14-20) a cui segue la seconda messa in guardia dai falsi messia (vv. 21-23).

I versetti centrali del discorso descrivono la fine cosmica e la venuta vittoriosa del Figlio dell’uomo (vv. 24-27) e riportano la parabola dell’albero di fico che illustra la prossimità imminente della fine (vv. 28-29) e tre pronunciamenti paradossali (vv. 30.31.32).

Verrà il Figlio dell’uomo sulle nubi del cielo

Dopo la tribolazione descritta nei vv. 19-20, che allude alla distruzione di Gerusalemme strettamente congiunta alla fine di tutte le realtà storiche, il mondo sarà totalmente trasformato.

La teologia apocalittica vede la storia incamminata verso una risoluzione finale positiva che, grazie alla vittoria del bene sul male – attraverso un giudizio e una condanna definitivi inflitti da YHWH/il Padre al male e ai malvagi –, attuerà un rovesciamento di sorti di cui beneficerà la comunità dei giusti, che vedranno la vita, la vittoria, la luce e la pace.

Le immagini apocalittiche degli sconvolgimenti cosmici sono parte essenziale dell’armamentario letterario di cui l’apocalittica si avvale per indicare la trasformazione profonda delle realtà attuali. A questo fine si attinge a piene mani dai testi dell’AT. Qui si citano espressamente o implicitamente Is 13,10; 34,4; Ez 32,7-8; Gl 2,10; 3,4; 4,15. Testi simili si trovano in 1En 102,2 e Ap 6,12.

Gesù parla della venuta definitiva del Figlio dell’uomo sulle nubi del cielo.

La figura del Figlio dell’uomo, che oscilla tra una individuazione personale e una collettiva (il popolo dei santi, Dn 7,24) godeva di un’immensa popolarità nel pensiero teologico e ideologico immediatamente precedente o coevo a Gesù. Vittorioso sul male grazie a una guerra definitiva, senza prigionieri, e ad un giudizio senza pietà per i malvagi, il Figlio dell’uomo avrebbe instaurato il suo regno di pace. Personaggio posto al livello divino da Dn 7,12, ha caratteri insieme umani e divini.

Gesù si appropria di questo titolo molto popolare e onorato, abbinandolo però a una modalità operativa “debole”, sofferente, crocifissa. Una novità straordinaria.

Secondo le parole di Gesù, il Figlio dell’uomo verrà sulle nubi. Dn 7,12 aramaico ha: “im/con” e la traduzione greca LXX riportata dai migliori codici e accettata come oggi normativa ha “meta/con”; la recensione origeniana e la traduzione di Teodozione hanno “epi/sopra” (cf. Mt 24,30; 26,64), che presupporrebbe un originale aramaico ‘al; il testo di Mc 13,26 ha “en/con”, che può essere interpretato come un en + dativus sociativus indicante le circostanze concomitanti (ad es. in Lc 14,31 un capo militare si fa incontro con [un’armata di] diecimila [uomini]; cf. BDR § 198,1) e quindi raggiunge il significato di “con/gr. meta” che presuppone l’aramaico originale ‘im. Anche se non è “sopra/epi” le nuvole, venendo “con/en = meta” le nuvole, il Figlio dell’uomo rivela in Mc 13,26 un’identità insieme umana e sovrumana (Dn 7,13 «… ecco venire con le nubi del cielo uno simile/ke a un figlio d’uomo»). Gli uomini lo vedranno venire infatti con grande potenza e gloria.

Il Figlio dell’uomo manderà i suoi messaggeri/angeli per radunare (episynagō, cf. Zc 2,10; Dt 30,4; Mc 1,32 e 48 volte nella LXX) i suoi eletti dai quattro venti (cf. Zc 2,10), dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Molti i chiamati, ma tutti eletti? (cf. Mt 22,11-14).

Il ramo tenero:certezza e incertezza paradossale

Con l’esempio parabolico della pianta di fico – manca in esso una vera e propria storia –, Gesù invita a leggere i segni dei tempi. Le trasformazioni del mondo, anche violente, sono sempre il segno del Regno che viene, l’annuncio della volontà del Figlio dell’uomo di radunare e salvare gli uomini. La venuta è certa, la sua cadenza temporale però e conosciuta solo dal Padre. Certo il fatto, incerto il tempo.

La generazione nella quale avvengono le trasformazioni decisive non può avere quindi una determinazione temporale precisa, ma “questa generazione” esprime il fatto che ogni generazione deve sentirsi come se ad essa fosse rivolto direttamente l’invito alla vigilanza e alla trasformazione.

Le parole di Gesù non passeranno mai e la comunità dei suoi discepoli vive serena il diventare tenero dei rami della storia. Chi è con Gesù sperimenta già le primizie del Regno e non avrà paura degli avvenimenti, anche tremendi, che lo richiamano a crescere nella comunione umana e a scegliere una scala valoriale che valga la pena di essere seguita come decisiva per avere fin d’ora una vita buona e beata, “dolce”.

I rami del fico sono teneri e traditori, ma il frutto è dolce/nāîm e gustoso/ṭôb.

I due canestri di fichi intravisti da Geremia sono pieni uno di frutti buoni, l’altro di cattivi: «… i fichi buoni sono molto buoni (ṭōbôtme’ōd), quelli cattivi sono molto cattivi (rā‘ôtme’ōd), tanto che non si possono mangiare per la loro cattiveria (mērōa‘, tralasciato da CEI)» (Ger 24,3; cf. 24,1-10).

«Ecco come è bello (ṭôb) e com’è dolce (nāîm) che i fratelli vivano insieme» (Sal 133,1).

L’albero della Chiesa è tenero ma affidabile, la sua vita dolce e amabile.

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