Guerra, violenza e pace nel libro dei Giudici

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Nel Marzo 2025 la Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna (Bologna) ha celebrato il suo XIX Convegno annuale, animato dal Dipartimento Teologia dell’evangelizzazione, dal titolo: «Il Vangelo della speranza nel tempo delle crisi». In quella sede, il prof. Matteo Prodi ha esposto la sua relazione «La speranza in un mondo in crisi: quale pace attendere, quale pace costruire?». Riportiamo per gentile concessione la parte biblica del testo, che sarà pubblicato negli Atti del Convegno, che propone una riflessione sulla lettura del libro dei Giudici.

Nella Bibbia la pace è la pienezza dei doni di Dio; il saluto del Risorto (cf. Gv 20) lo conferma, come pure le otto ricorrenze della parola pace nella lettera di San Paolo agli Efesini, tra cui spicca per importanza «Cristo nostra pace» (cf. Ef  2,14).

Faremo qualche accenno ai primi sei libri della Bibbia; ci fermeremo più a lungo sul libro dei Giudici. Nel Pentateuco la pace non ha un ruolo di rilievo e raramente indica la concordia tra i popoli[1]. Poi bisogna, secondo le indicazioni di Dio, entrare nella Terra Promessa[2]. Tutto sembra svolgersi in una relativa tranquillità; il libro di Giosuè si conclude con il rinnovo dell’alleanza tra Dio e il suo popolo che sembrerebbe essere entrato in possesso di quanto il Signore aveva promesso.

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Il libro successivo nel canone, Giudici, pone una serie non irrilevante di problemi; la maggior parte ruota attorno al tema della violenza, assoluta protagonista di questo testo sacro: quale buona notizia arriva al lettore? I commentatori[3] sono protesi nell’affermare che, in ogni caso, emerge la signoria di Dio sulla storia. Ma non è una acquisizione scontata, perché gli ultimi capitoli evidenziano come la violenza sappia solo crescere, esponenzialmente, fino allo scoppiare di una guerra civile[4]. Spariscono perfino le figure centrali del racconto, appunto i giudici. Può il Signore aver dimenticato il suo popolo?

«Non deve però stupire che la Bibbia parli così diffusamente della violenza, perché in realtà è una dimensione della realtà umana purtroppo inevitabile e tangibile, fino ai giorni nostri. Da questo punto di vista anche il libro dei Giudici mette il lettore, attraverso una “galleria narrativa sconcertante”, dinanzi a guardare la realtà della violenza in tutta la sua crudezza e […] a farne uno strumento che evidenzi la necessaria presenza di Dio come giudice della storia»[5].

Le radici della violenza sono, quindi, individuate nell’allontanarsi da Dio, soprattutto attraverso l’idolatria e nel confidare solo sulle proprie forze. La violenza è la degenerazione dell’umanità che rifiuta Dio. Significativo è l’ultimo versetto del settimo libro della Scrittura, già comparso nelle pagine precedenti come ritornello: «In quel tempo non c’era un re in Israele; ognuno faceva come gli sembrava bene» (Gdc 21,25). Manca il riferimento supremo e il male si scatena fino alle estreme conseguenze. «Il degrado del popolo eletto rispecchia e diventa modello per l’uomo che decide di porre Dio ai margini della sua esistenza in un atteggiamento autoreferenziale che fa emergere il profondo limite della creatura umana»[6].

Non è solo un segnale della necessità di passare ad un sistema monarchico, per imitare i nemici all’intorno. Siamo davanti soprattutto ad un appello profetico[7], un invito alla conversione profonda: è il grido della Parola di Dio che spinge a «rendersi conto che, allontanandosi dall’amore del Signore e dalla confessione della sua signoria sulla storia, universale e personale, l’uomo smarrisce la sua identità e la sua dignità»[8].

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La figura più tragica del libro dei Giudici è la figlia di Iefte. Costui va in guerra e per “comprare” l’appoggio di Dio «fece voto al Signore e disse: “Se tu consegni nelle mie mani gli Ammoniti, chiunque uscirà per primo dalle porte di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli Ammoniti, sarà per il Signore e io lo offrirò in olocausto”» (Gdc 11,30-31).

I commentari discutono su quanto la figlia fosse consapevole delle parole del padre. Il voto è pubblico; difficile che la figlia non ne fosse a conoscenza. Appositamente esce per smascherare la violenza del genitore, il suo rapporto perverso con Dio e la sua smodata sete di potere. Questa ragazza, di cui non conosciamo il nome, gioca la carta ultima per interrompere questo meccanismo perverso di una violenza sempre crescente; appartiene al numero di donne attive e propositive nelle pagine del nostro libro. «La sua scelta diventa una sfida, obbligando il padre ad una decisone tra la bramosia di potere e l’essere un vittorioso guerriero e il suo essere padre»[9].

Rimane una domanda: perché Dio non interviene, come, ad esempio, nel sacrificio di Isacco? Abramo si è dimostrato fedele in tutto; Iefte, invece, è catturato dalla sfiducia in Dio e dal suo desiderio di potere: è idolatra e concentrato sul suo io «In realtà vediamo qui realizzarsi ciò che il Signore stesso aveva anticipato nelle sue parole al cap. 10 vv.13-14: […] “avete servito dèi stranieri, per questo non vi salverò più” ed ancora […] “andate a gridare agli dèi che vi siete scelti”. Egli chiarisce che non agirà per salvare il suo popolo e rimane in silenzio, così ugualmente ha lasciato che Iefte sacrificasse sua figlia senza intervenire, perché il suo atteggiamento nella formulazione del voto era chiaramente idolatra»[10].

Il racconto, però, procede e Iefte sconfigge gli Ammoniti: è possibile dire che ancora il Signore guida la storia, nonostante la perversione del giudice in carica? Forse sì; ma le cose peggioreranno ancora con Sansone e ancor più negli ultimi capitoli che, come già ricordato, racconteranno di una guerra civile nel popolo eletto, del suicidio di Israele. Va ricordato, altresì, che dopo Iefte non assistiamo ad un periodo di pace, come accade per i liberatori precedenti.

Un ulteriore aspetto va messo in luce: il male sembra accanirsi verso coloro che lo mettono in pratica: Sansone morirà per non essere stato capace di seguire la sua missione. Iefte non esita a sterminare il suo popolo ed uccide la figlia. I Madianiti si uccidono a vicenda, solo per la paura dei corni suonati, delle brocche spezzate e delle fiaccole. E gli Israeliti erano solo trecento (cf. Gdc 7).

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Una indicazione viene anche per quanto riguarda le strutture politiche: il libro fa crescere continuamente nel lettore una invocazione di maggior giustizia e rettitudine, oltre che di fedeltà al Signore e alla sua alleanza. «Ora, nel disegno salvifico di Dio, questa prospettiva non si realizzerà nemmeno con la monarchia, per il fatto che anch’essa si dimostrerà infedele al Signore e perché tale dono di giustizia nel suo progetto di salvezza non è legato a una qualche struttura politica»[11]. È la conversione a Dio e la suo modello di giustizia che porterà la vera novità nel mondo.

Una piccola annotazione anche sul modello economico. La scelta di non eliminare i nemici radicalmente, per sottometterli e per renderli funzionali al sistema di creazione di ricchezza, mostra come anche l’economia è capace di generare violenza.

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Un’ultima considerazione: quale volto di Dio compare nel libro dei Giudici?

Se si dovesse comprimere il suo contenuto in un solo passaggio si potrebbe dire che si passa da un ritornello: fare male agli occhi del Signore, ad un altro: non c’era un re e ognuno faceva ciò che gli pareva giusto. La situazione iniziale è migliore di quella finale[12]. Dio, progressivamente, si ritrae; forse, bisognerebbe dire: Dio abbandona il suo popolo. La Bibbia, però, non finisce qui: dopo compariranno Rut ed Anna.; la storia sembra riprendere il suo corso. La pedagogia di Dio ha cercato altre strade: una donna straniera, che diventerà la nonna di Davide, e una donna sterile che genererà il grande profeta Samuele[13].

Dio sceglie la marginalità per se stesso, si ritrae, si ritira; ma anche per i futuri suoi collaboratori sceglie la marginalità: una donna straniera e una donna sterile. Iefte non sa anticipare e corrispondere a questi (futuri) movimenti di Dio. Persegue la sua strada di conquista del potere; neppure il sacrificio della figlia lo trattiene: «Appena la vide, si stracciò le vesti e disse: “Figlia mia, tu mi hai rovinato! Anche tu sei con quelli che mi hanno reso infelice! Io ho dato la mia parola al Signore e non posso ritirarmi”» (Gdc 11,35). Iefte non si ritira.

Qual è, dunque, la giustizia di Dio? Il libro non chiarisce. Mi sembra, però, che il personaggio della figlia di Iefte anticipi alcuni temi che solo il NT svilupperà, riferendosi alla figura di Gesù. In particolare, la lettera ai Romani ha almeno due passaggi importanti; il primo: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù» (Rm 3,23-26).

E il secondo: «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.» (Rm 5,6-11)

La figlia di Iefte e Gesù scelgono di offrire la loro propria vita per fermare la violenza. Quando, invece, la violenza travolge innocenti, incapaci di poter scegliere il proprio destino, la violenza stessa si moltiplica: è il caso della donna di Betlemme di Giuda (anch’essa senza nome), concubina del levita, la cui tragica vicenda inizia in Gdc 19.

La consegna del libro dei Giudici sulla costruzione della pace è duplice: la violenza e la guerra distruggono l’umano e solo una umanità consapevole del proprio compito può arrestare l’escalation di prepotenza e sopraffazione.


[1] Un caso è, ad esempio, Dt 20, 10-12: «Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla, le offrirai prima la pace. Se accetta la pace e ti apre le sue porte, tutto il popolo che vi si troverà ti sarà tributario e ti servirà. Ma se non vuol far pace con te e vorrà la guerra, allora l’assedierai.» Una riflessione meriterebbe Gen 14,18-20, dove emerge la figura di Melchisedek. La lettura che offre di questo misterioso personaggio la lettera agli Ebrei lo collega alla parola pace: «Questo Melchìsedek infatti, re di Salem, sacerdote del Dio altissimo, andò incontro ad Abramo mentre ritornava dall’avere sconfitto i re e lo benedisse; a lui Abramo diede la decima di ogni cosa. Anzitutto il suo nome significa “re di giustizia”; poi è anche re di Salem, cioè “re di pace”» (Eb 7, 1-29). Al re della pace il grande uomo di Dio, Abramo, deve offrire la decima di tutto. Solo a colui che è il depositario della pace occorre offrire i propri doni, lui che offre pane e vino.

[2] Il libro di Giosuè si incarica di raccontarci l’ingresso nella Terra Promessa: esso avviene principalmente con la guerra e molto più raramente con trattati di pace: «Non ci fu alcuna città che facesse pace con gli Israeliti, eccetto gli Evei che abitavano Gàbaon: le presero tutte con le armi, perché veniva dal Signore che il loro cuore si ostinasse a dichiarare guerra a Israele, per votarle allo sterminio senza pietà e così distruggerle, come il Signore aveva comandato a Mosè» (Gs 11,19-20).

[3] Ad esempio, G. M. Corini, Giudici. Introduzione, traduzione e commento, San Paolo, Cinisiello Balsamo (Milano) 2017 e A. Wénin, Scacco al re. L’arte di raccontare la violenza nel libro dei Giudici, EDB, Bologna 2017.

[4] Straziante il possibile parallelo con la stori attuale come evidenziano alcuni libi, come A. Foa, Il suicidio di Israele, Laterza, Roma-Bari 2024 e P. Beinart, Essere ebrei dopo la distruzione di Gaza, Balbini+Castoldi, Milano 2025.

[5] G. M. Corini, Donne impertinenti. L’intreccio narrativo nel Libro dei Giudici, Chirico, Napoli 2021, p. 32.

[6] G. M. Corini, Donne impertinenti, p. 34.

[7] Il libro dei Giudici, nel canone ebraico, compaiono nei Profeti anteriori che sono così composti: Giosuè, Giudici, Samuele (1-2) e Re (1-2).

[8] G. M. Corini, Donne impertinenti, p. 35.

[9] Ivi, p. 99.

[10] Ivi, p. 106.

[11] G. M. Corini, Giudici, p. 163. Sul fatto che la monarchia non porterà gli effetti sperati si può anche considerare la vicenda dell’autoproclamato re, Abimelec, che occupa Gdc 9.

[12] Questa è una delle tesi più interessanti del libro A. Wénin, Scacco al re.

[13] Di alcuni protagonisti di Giudici troviamo l’elogio in Eb 11,32-34; sono additati come esempio di persone di fede. Questo sembrerebbe stridere con la descrizione delle loro idolatrie.

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Un commento

  1. Giuliana 4 novembre 2025

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