Con una lentezza mistica, insuperabile, il monaco alza lentamente l’ostia del Cristo. Un silenzio assoluto, contemplativo, quello della minuscola assemblea di fedeli, lo accompagna. In fondo, il silenzio qui è onnipresente. Concreto e spirituale. Lo si tocca con mano in questo piccolo monastero berbero, dal color ocra che sa di deserto.
Accoglie, infatti, cinque monaci dello stesso ordine di Tibhirine, sull’altopiano di Midelt, a 1.500 metri in una regione interamente arida, sperduta e desertica. Ma vi sembrerà subito un’oasi di pace, di preghiera e di solitudine… «Solus cum solo» come scriveva Newman, (solo con il Solo) parlando dell’incontro faccia a faccia dell’uomo con Dio. Lo si vive qui, in terra d’Islam. «Non avere paura della solitudine – scrive Susanna Tamaro – è un dono. È lì che impari ad ascoltarti».
Terminata l’eucaristia del mattino, poi paradossalmente, il Cristo lo incontro lungo le strade di Midelt. O meglio, si incontrano «le ferite sulla sua stessa carne» direbbe papa Francesco.
Sono i giovani migranti subsahariani dalla pelle nera, trasportati qui continuamente dalla polizia di frontiera, dopo un lunghissimo viaggio in bus di oltre cinquecento chilometri. Malvestiti, malnutriti, affamati – ma estremamente coraggiosi –, chiedono agli incroci un dirham agli automobilisti. Vagano e dormono fuori all’aperto come animali per raccogliere l’importo necessario e prendere il bus fino a Casablanca o Rabat, dove vivono abitualmente.
Insieme, allora, si va ad acquistare cibo o medicinali. Sì, un tocco di umanità. Il vangelo del buon samaritano. Anche se il loro sogno, inchiodato nelle mente, è di arrivare in Spagna. Entrare in Europa.
Vi verrà da chiedere, allora, a Ibrahim, uno di loro, dal volto dai tratti dolci, ma sofferenti, come ha fatto a partire da casa, dalla Guinea… «Difficile farlo – vi dirà –. Ma solo quando ero lontano da casa ho telefonato a mamma che ero partito. Da noi non c’è speranza!». E lei riusciva solo a dirgli, piangendo: «Buona fortuna nella tua avventura, figlio mio!». Parole che lui si porta addosso e sempre si ripete – l’augurio di una mamma in pianto è quasi un testamento – in questa autentica avventura, dura e inimmaginabile. Sì, fatta di fatiche, di violenza, di fame e di infinita nostalgia. Mai avrebbe pensato di trascinare qua e là la sua vita a questo modo – tra Mali, Algeria e Marocco, tra deserti e frontiere – scoprendo, tuttavia, in lui stesso un coraggio incredibile.
In questo «Giubileo della speranza», eccoli, viene da dire, i veri maestri di speranza! Sperano con tutte le fibre dell’anima un mondo più giusto, più fraterno e solidale. Lo sperano con tutti i muscoli del loro corpo, quando si arrampicano – quasi sempre inutilmente – sulla barriera con la Spagna alta sette metri, fatta di reticolati, di telecamere, e lame d’acciaio. Scoprendo le braccia o le gambe vi mostrano senza vergogna anche i morsi dei cani di guardia al confine… «Ma un giorno verrà!» vi ripeteranno con inaudita speranza. Quante volte hai provato? «Infinite volte, … non riesco più a contarle», vi rispondono, con una forza interiore che vi sorprende. «Ogni scelta è un atto di coraggio» scrive ancora Susanna Tamaro. Ma questa supera le altre di gran lunga…
Così, ogni mattina, dopo l’eucaristia del monastero, mistero del Cristo risorto che vi prende l’anima, eccomi a viverla per le strade e alla stazione dei bus di Midelt. Insieme al Cristo e alla sua interminabile via crucis, destinata a durare fino alla fine dei tempi.
Così, la porta giubilare della speranza di questo monastero nel cuore dell’Islam si spalanca sulla speranza di un’umanità assetata di dignità e di fraternità. Discepoli missionari di Cristo, come potremmo girare lo sguardo dall’altra parte… Come potremmo mai dimenticare tutto questo?