Una delle questioni che hanno sempre travagliato il pensiero teologico e il vissuto ecclesiale è quella dell’autorità dei ministri ordinati, in modo particolare del papa e degli altri vescovi. In effetti, talora questa autorità è stata gestita secondo una logica di potere arbitrario e oppressivo, che ha plagiato le coscienze e soffocato la soggettualità dei credenti.
Un ministero necessario
La questione si è acuita ai nostri giorni per il fatto che, nel mondo occidentale, il modello normale di governo è quello democratico, e alcuni non vedono perché nella Chiesa la guida delle comunità debba essere affidata a persone che non sono state elette dalla base ecclesiale e non necessitano di una sua periodica legittimazione.
Anche in passato, però, quando i governanti erano principi, re e imperatori, si sono contestati alcuni aspetti dell’autorità dei pastori, ritenendo che finisse per sostituirsi a quella di Dio e della sua Parola, e per imporre ai credenti delle dottrine derivate da opinioni personali o motivate dall’interesse. In fondo, la reazione dei Riformatori del XVI secolo nei confronti della Chiesa cattolica romana si è giocata sostanzialmente su questo aspetto.
Eppure, con tutte le cautele del caso, l’autorità nelle comunità cristiane fa parte integrante dell’identità ecclesiale. A questo riguardo, così scrive il padre J.-M.R. Tillard:
«Il Nuovo Testamento presenta nettamente due tipi di intervento “ministeriale”. Essi non vanno confusi. Il primo intervento è quello dell’apostolo o del predicatore che annuncia la Parola che provoca l’adesione di fede. […] Il secondo tipo di ministero è diverso. Ha lo scopo di mantenere la Chiesa locale nella fedeltà al proprio essere di comunione, e di farla crescere in esso. Lo abbiamo chiamato ministero di custodia e di mantenimento nella fedeltà, quindi di episkopé. […] [Q]uando si tratta della chiesa come tale, già costituita e fornita di servizi, i ministri si vedono dappertutto dotati di potere (potéstas) e, di conseguenza, di una certa autorità non sulla fede in quanto tale bensì sulla vita-in-conformità-con-la-fede. […] Il ministro è così abilitato a discernere e a decidere – secondo il proprio giudizio, illuminato dallo Spirito, senza posa confrontato con la Parola e con le intuizioni del sensus fidelium – ciò che la comunità deve fare o evitare per essere fedele» (J.-M.R. Tillard, Chiesa di Chiese. L’ecclesiologia di comunione, Queriniana, Brescia 1989, 292-294).
A custodia della fede e della prassi
Il teologo domenicano chiarisce che l’autorità nella Chiesa non ha né il compito né il potere di decostruire la parola di Dio, magari per renderla più sintonica con le istanze di una determinata cultura o per farla collimare con interessi di parte. Del resto, lo stesso Vaticano II insegna che il magistero è sottomesso a questa Parola e ne è al servizio (cf. DV 10).
L’autorità dei ministri ordinati è semplicemente funzionale alla custodia dell’autentica esperienza cristiana, e non solo dal punto di vista della fede professata ma anche sul piano della prassi.
Ovviamente questo servizio non consiste semplicemente nel verificare che quello che è materialmente scritto nella Bibbia venga conosciuto e messo in pratica in modo fondamentalista.
La Scrittura e la più ampia Tradizione vanno interpretate, nel senso che vanno capite a partire dall’orizzonte culturale e teologico nel quale sono state prodotte, e il loro messaggio va poi ulteriormente esplicitato alla luce delle domande antropologiche e delle istanze sociali del momento presente. È in questo modo che si coglie la volontà del Signore sulla sua Chiesa.
Il compito di cogliere la parola di Dio attraverso questa interpretazione delle fonti che la attestano appartiene a tutto il popolo di Dio. Tuttavia, sin dalle origini le comunità cristiane hanno avuto bisogno di figure autorevoli, titolari del carisma apostolico o di quello della sua successione, che garantissero che tale processo ermeneutico non subisse derive fuorvianti.
Oggi questo carisma è conferito nella Chiesa esclusivamente con il sacramento dell’ordine, per cui quest’ultimo diventa indispensabile ad una comunità ecclesiale “completa”, che cioè sia porzione dell’intera Chiesa.
La santità dei suoi membri, il loro senso di fede o le loro competenze teologiche non sono sufficienti per custodirla nell’autentica esperienza cristiana.
Ovviamente un vescovo, un presbitero o un diacono possono esercitare anche altre forme di autorità, relative, ad esempio, al funzionamento organizzativo delle comunità cristiane o di altre istituzioni ecclesiastiche, ma si tratta di compiti che possono essere svolti anche da fedeli non ordinati. Laddove, però, sono in gioco questioni che toccano direttamente l’autenticità dell’esperienza cristiana, il ministero ordinato risulta indispensabile.
Come gli argini di un fiume
I carismi non possono essere delegati, ma solo ricevuti per grazia. Se il carisma della successione apostolica è conferito solamente con il sacramento dell’ordine, non solo la presidenza liturgica, ma anche la specifica autorità pastorale dei ministri ordinati non potrà essere esercitata da chi non ha ricevuto questo sacramento.
Questo ruolo del ministero ordinato, se ben delimitato dal suo scopo originario e quindi non inteso come un’autorità assoluta, non determina affatto un declino clericale della Chiesa, ma consente a tutti i fedeli di reperire nelle comunità cristiane un nutrimento spirituale sano e di poter mettere a servizio del Signore e del suo regno le proprie qualità creaturali e carismatiche.
L’autorevolezza dei ministri è simile agli argini di un fiume, che non impediscono all’acqua di scorrere ma, al contrario, le consentono di non disperdersi nel territorio circostante e di continuare il proprio percorso.
Ovviamente, resta la sfida di comporre il senso di fede dei credenti e le istanze che nascono da esso con il ruolo di guida dei ministri ordinati. L’inevitabile tensione tra queste soggettualità ecclesiali non potrà mai essere risolta, ma va semplicemente accettata e custodita nella logica della comunione e dell’amore.
Nella sua parte iniziale, l’articolo presenta alcune considerazioni a mio avviso condivisibili. Strada facendo, invece, ne emergono altre che lo sono meno o non lo sono affatto o riposano su fondamenti a mio avviso fragili. Il brano di Tillard e alcune considerazioni successive sono più idealizzazioni che riflesso di realtà. E va precisato: non si può fare di tutte le erbe un fascio. Non si può parlare di N.T. come se non ci fossero nette differenze tra gli scritti al suo interno. Va detto invece che nei Vangeli Gesù ha prescritto ai suoi discepoli rifiuto assoluto di forme di dominio sul prossimo (“tra voi non sia/è così…”; nessuno deve chiamarsi “guida”, “maestro” etc.). Inoltre – cosa che nei discorsi moderni è stata a dir poco trascurata – Gesù, che peraltro non ha avuto neanche il tempo di organizzare il suo gruppo, ma anzi ha più volte rimproverato quelli che volevano farsi “primi” e “capi”, ha rifiutato la logica del “pastore”, contrapponendo a questa immagine la chiamata dei volenterosi a essere “pescatori” di uomini: infatti chi trae un uomo dalle acque lo salva; ma da quel momento l’uomo è libero, non più sottomesso (anche a forme di potere religioso: sappiamo che Gesù ne è stato critico). Palesemente questo discorso del Gesù storico sull’essere pescatori, non pastori degli altri, già negli altri scritti del N.T. (e in un capitolo aggiuntivo di Giovanni, capitolo che meriterebbe però alcune precisazioni) tende a essere relativizzato e marginalizzato, perché non rientra nelle logiche che poi sono state affermate. In teoria ogni gruppo ha bisogno di organizzarsi per continuare a vivere. Quindi non si può dire che organizzandosi la Chiesa si sia allontanata per questo solo fatto da Gesù. L’allontanamento riguarda invece il “come” si è organizzata: in modo piramidale, come se alcuni fossero mediatori tra Dio e gli uomini, mentre questo è proprio uno dei punti contrari al vangelo. C’è stato un ripristino della “teologia dell’A.T.”, come oggi bonariamente si ammette. L’esercizio del ministero dell’episcopé, oltre che da situare storicamente, nei vari periodi, ha conosciuto rapidissimi abusi (leggere le lettere [edizione commentata di M. Simonetti] di Ignazio di Antiochia, che pretende anche di orientare/stabilire i matrimoni e si considera “typos” di Dio (parla alla terza persona: l’episcopos è il typos d Dio): una autosacralizzazione che all’epoca fu una novità grave ma che poi si è riaffacciata molte volte, contro il vangelo; infatti, nel vangelo, chiunque fare la volontà di Gesù è colui presso il quale Cristo stesso e il Padre “prendono dimora”: il Padre stesso! Ma questo e altri passi del vangelo sono stati discriminati, nei fatti taciuti). L’immagine dell’argine e del fiume sembra anche a me (come nel precedente commento) da lasciare da parte. Presuppone o sembra presupporre, se non erro, che chi è nel fiume (il laicato) non riesca a badare a sé stesso o non sia capace di confrontarsi col vangelo. E come potrebbe se non c’è oggi una cultura che porti ogni battezzato a conoscere il vangelo e a farne parola di ogni giorno? Le dottrine, nei secoli, sono state invece un prodotto e un motivo di contesa proprio da coloro che vivevano nei ministeri e hanno detto e fatto ora bene e ora male. Lasciamo da parte le idealizzazioni. L’immagine dell’argine e del fiume non mi sembra accettabile anche per un’altra ragione. Spesso non si tiene conto della svolta culturale in Europa almeno a partire dagli anni ’70. La maggior parte della popolazione ha potuto conoscere un alto grado di alfabetizzazione. Spesso oggi molte laiche e molti laici sono molto più preparati di chi ha i ministeri ordinati. Quindi si è nel paradosso che chi non ha il ministero svolgerebbe molto meglio tanti aspetti del ministero degli ordinati. Conta la competenza, non l’autorità ricavata da un ordine che è spesso frutto di costruzione umana. Preciso che Ignazio di Antiochia cerca in ogni modo di giustificare il nuovo istituto dell’episcopato monarchico. Ma ignora cosa sia la successione apostolica. Ma bisogna leggerlo. Insomma, le cose sono da rivedere profondamente. E soprattutto: in tanti discorsi sulla natura della chiesa non emerge mai quello della centralità della Parola di Dio: questa, se messa al centro e non a disposizione di un singolo che vorrebbe gestirla/spiegarla a tutti, se messa al centro, dicevo, essa rinnova e matura tutti i credenti. Ma si è disposti a superare una struttura che vuole alcuni comunque a capo degli altri? Infine è bene ricordare che Gesù, sapendo che le parole vengono distorte, lavando i piedi ai discepoli, ha chiesto servizio e abbassamento realmente a chi intende mettersi a disposizione della comunità. Questo comporta anche una radicale revisione persino dell’immagine oggi diffusa del vescovo, dotato di mitra, bastone ritorto, stemma e anello. Occorre rimettere al centro la dignità battesimale, che introduce pariteticamente ogni credente nella vita nuova in Cristo.
Se il fiume si secca e non riceve più acqua a monte , in quel momento gli argini diventano inutili . Il soggetto che dà vita è l’acqua – non l’argine . Dio può fare sgorgare l’acqua dal deserto, come ci insegna l’immagine biblica dei torrenti del Negev: nessuno ha costruito argini nel deserto, basta una pioggia e l’acqua scorre . Anzi , mi pare che il Signore rifugga proprio da chi costruisce “argini” all’opera dello Spirito perché lo Spirito soffia dove vuole e non chiede permessi all’autorità. Se il clericalismo ha fatto di voi argini a fiumi ormai in secca , chiedetevi ogni tanto il perchè
Giustissimo.