Pochi giorni fa, nella solennità dei Santi Pietro e Paolo, nella basilica di San Pietro, il cardinale protodiacono presentava al papa cinquantatré vescovi, i quali gli chiedevano di prendere i pallii dal sepolcro dell’Apostolo, dove stavano deposti, e di imporli sulle loro spalle, a significare «la potestà di cui il metropolita, in comunione con la Chiesa romana, è dotato nella sua provincia».
Ne seguiva la suggestiva discesa di due diaconi nella confessione sottostante l’altare, a prendere i pallii posti sulla sepoltura dell’Apostolo, quasi a volerli prendere dalle sue stesse mani.
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Dopo aver ammirato tanta solennità e imponenza di gesti e parole, prendo in mano il Codice di diritto canonico e lo apro al testo sulla gerarchia, al capitolo De metropolitis del Titolo II della II Sezione, nella Seconda Parte del Libro sul Popolo di Dio.
Con un certo stupore scopro che la conclamata potestà di cui il metropolita è dotato consiste nel «vigilare perché la fede e la disciplina ecclesiastica siano accuratamente osservate» nella sua provincia. Se qualcosa non va, però, non spetterà a lui provvedere: ne dovrà semplicemente avvisare il papa (Can. 436 §1).
Detto questo il Codice sembra preoccupato di chiudere il discorso, enunciando perentoriamente che «nessun altro potere compete al metropolita sulle diocesi suffraganee (can 436 § 3).
La solenne liturgia dell’imposizione dei pallii è quindi testimonianza di un’epoca passata, nella quale l’autorità nella Chiesa veniva esercitata in maniera maggiormente articolata.
Il concilio Vaticano II ha inteso ritornarvi e, al livello del vertice, ha ridefinito la potestas suprema sulla Chiesa universale, insistente nel duplice soggetto del papa e del collegio episcopale, o meglio, nell’unico soggetto del collegio episcopale operante in comunione con il papa.
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La legislazione successiva, però, e in prima file il nuovo Codice di diritto canonico, ha fatto di tutto per neutralizzare ogni possibile istanza intermedia fra il vertice, papa e collegio episcopale universale, e la base, cioè il singolo vescovo nella sua Chiesa particolare.
La Lettera Communionis notio della Congregazione per la dottrina della fede, del 1992, a firma del cardinal Ratzinger, e il Motu proprio di Giovanni Paolo II Apostolos suos, in nome di una presunta superiorità “ontologica” della Chiesa universale sulle Chiese particolari, toglieva a queste ultime la possibilità di un qualsiasi esercizio della potestas collegiale, che non fosse quello del collegio episcopale universale, eliminando qualsiasi autorità intermedia fra quella del papa e quella del singolo vescovo nella sua diocesi.
Neppure i concili particolari, men che meno le conferenze episcopali, possono imporre la loro autorità sul singolo vescovo, a meno che non venga loro riconosciuto dalla Santa Sede. In questo quadro «la potestà di cui il metropolita, in comunione con la Chiesa romana, è dotato nella sua provincia», rappresentata dal pallio, si è ridotta al diritto di portare il pallio, punto e basta.
Del resto allo svuotamento di valore della metropolia corrisponde anche quello della conferenza episcopale, di fronte alle cui decisioni, sempre e comunque, «rimane intatta la competenza di ogni singolo Vescovo diocesano» (AS 20). La sua responsabilità nei confronti della sua Chiesa particolare e della Chiesa universale è dichiarata “inalienabile”.
In tal modo è accaduto, anche per opera del cardinal Ratzinger/Benedetto XVI, quanto il teologo Ratzinger temeva, a concilio da poco terminato, cioè che se la collegialità non fosse stata attivata prima di tutto a livello locale, l’idea stessa della collegialità sarebbe entrata in un vicolo cielo.
In conclusione, il pallio e l’attribuzione a un vescovo del ruolo di metropolita sono realtà puramente cerimoniali e l’amore per la verità delle cose e l’autenticità delle istituzioni dovrebbe condurre, se non alla loro abolizione, alla loro effettiva valorizzazione.
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Tanto per incominciare, la restaurazione della collegialità all’interno delle province ecclesiastiche risolverebbe i problemi delle piccole diocesi. La loro unione nella persona di un vescovo, preludio alla loro desiderata abolizione, a mio giudizio è un disegno insensato di prevaricazione delle esigenze amministrative su quelle pastorali.
Se prendiamo sul serio il Vaticano II, per il quale i vescovi devono guidare le loro Chiese «col consiglio, la persuasione, l’esempio», oltre che «con l’autorità e la sacra potestà», se «ad essi è pienamente affidato l’ufficio pastorale ossia l’abituale e quotidiana cura del loro gregge», se ogni vescovo deve «ascoltare quelli che dipendono da lui, curandoli come veri figli suoi», non è la piccola diocesi che fa problema, ma la grande.
Il nobile disegno della figura del vescovo pastore e padre svanisce nel nulla se i fedeli, in tutta la vita, lo incontrano solo il giorno della Cresima. Il vescovo che veramente desidera essere pastore e padre dei suoi fedeli non può che amare la piccola diocesi.
È vero che questa risulta incapace di sostenere istituzioni e attività che pure le sono necessarie, per la scarsità dei mezzi e la difficoltà di reperire le molte dotazioni e i diversi carismi che le sarebbero necessario. A questo appunto le piccole diocesi provvederebbero collegialmente nel quadro della metropolia.
Solo in una comunità a misura d’uomo il singolo vescovo potrà esercitare «l’abituale e quotidiana cura» della comunità, mentre il metropolita e i suoi suffraganei, collegialmente, si faranno carico delle istituzioni e delle iniziative che superano le possibilità delle singole diocesi.
Non si può, alla fine, fare a meno di puntare l’attenzione su un problema di enorme rilevanza: la crescita del numero dei vescovi, che oggi sono ormai più di cinquemila, sta rendendo praticamente impossibile la convocazione di un concilio ecumenico.
Né corrisponderebbe alla figura del concilio ecumenico un’assemblea di vescovi eletti a rappresentare tutto il corpo episcopale. I vescovi eletti, infatti. rappresenterebbero i loro elettori e non già le loro Chiese; i metropoliti, invece, rappresenterebbero, a pieno titolo, i loro vescovi e le loro Chiese.
Mi chiedo se la stessa logica, trasportata al livello intradiocesano, non possa condurci a sollevare dei dubbi sulla bontà pastorale dell’aggregazione di più parrocchie sotto uno stesso parroco.
Chiarissimo Professor Dianich.
La sua analisi è perfetta. Aggiungerei solo due considerazioni, non di concetto (non oserei competere!):
1. Lo scandalo insopportabile dell’episcopato (e l’arciepiscopato a più forte ragione) attribuito come “premio alla carriera” o come grado per svolgere una mansione burocratica. E non c’è un teologo che si levi a denunciare l’insulto dell’uso del mandato apostolico affidato ad honorem a burocrati o a collaboratori di vescovi residenziali.
Ha ragione Fabio Cittadini di affermare con fine umorismo, da queste pagine, che presto ci saranno più vescovi che seminaristi tra vescovi/arcivescovi emeriti, titolari di sede e titolari di diocesi antiche o inventate: vescovo è solo colui che è responsabile di una diocesi vera, non inventata per conferire un titolo onorifico.
2. La cerimonia del conferimento del pallio. Professor Dianich, pallii, berrette cardinalizie, mitrie, pastorali spesso di forme pacchiane: mi sembrano patetiche figurine Panini, che competono con i personaggi della corte di Londra per suscitare il riso amaro. Per non parlare degli Svizzeri che brandiscono le alabarde dentro la basilica vaticana, magari proprio mentre il papa denuncia i mali delle armi e poi, a messa finita, si affaccia al balcone di Giulietta e Romeo per ricevere gli onori militari, prima dalla “sua” guardia svizzera, poi delle Forse Armate d’Italia. Ma per favore, smettiamola con queste scandalose contraddizioni compoirtamentali.
Infine, a proposito di paludamenti e vestiari: avete notato che i responsabili delle figurine Panini hanno convinto il nuovo papa ha indossare le braghe bianche per fare il coordinato con la veste? Ci vuole ben altro coordinamento… per reggere la barca in burrascosa procella!
Non sono in condizione di adattare a degli esempi storici verificatisi i dettagli e le conseguenze della situazione descritta nell’articolo sulle attuali difficoltà della professione episcopale: a giudicare dalla conclusioni, le più gravi mi pare che attengano a una fissità burocratica che impedisce l’effettiva realizzazione del dettato del Vaticano II lasciando di fatto pregiudizialmente estranei anche molti prelati alla piena partecipazione alle funzioni proprie al loro stesso abito. (Non sarebbe il primo guasto connesso all’ istituzionale dimensione elefantiaca presa dalle cogenze burocratiche). Mi domando però se anche tali sistematiche inerzie non siano esito dell’ attaccamento tenace all’inchino a potentati di per sé evidentemente non ufficializzati in quanto “feudi”, ma altrettanto che questi dotati di indiscussi privilegi e primazie. Appunto non ho visto alcuna circolazione di notizie in merito riguardo alla Chiesa romana, ma per esempio le strutture di peccato sul modello dell’ associazionismo mafioso da che ricordo non sono mai state considerate estranee al nostro territorio. nazionale. Grazie dell’interessante esposizione proposta.
Quando Ratzinger era Ratzinger e non Benedetto XVI (Prefetto) sul finire degli anni ’90 dal suo Ufficio uscì un documento a sua firma su come si sarebbe dovuto interpretare la “Ut unum sint”; uscì su “il Regno Documenti” e lo lessi sgranando sempre di più gli occhi ad ogni affermazione, da lui non mi sarei mai aspettato un richiamo così forte alla struttura della Chiesa antica: tra le altre cose per favorire l’unità della Chiesa proponeva in sostanza che si tornasse alla struttura fondamentalmente triarchica della Chiesa antica, con Patriarchi, Metropoliti e vescovi (struttura che a guardare bene potrebbe rispecchiare la triplice forma dell’Ordine), con il Patriarca di Roma “primus inter pares” fra gli altri Patriarchi … Quando Ratzinger diventò Benedetto XVI mi ricordai del documento e lo andai a ricercare, ma sembra volatizzato (fatto sparire perché “eversivo”? «a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina», cit.), non riesco a ritrovarlo da nessuna parte e nel caos del mio ufficio non riesco a ritrovare quel numero di “il Regno Documenti” a cui ero abbonato e di cui conservo moltissimi numeri , ma prima o poi ci riesco, a ritrovare il documento.
Per quanto riguarda l’accorpamento delle diocesi sto vivendo proprio in questi ultimi tempi la realtà del mio vescovo a cui è stata unita “in persona episcopi” una piccola Chiesa (per altro già fusione di tre Chiese, di cui una antichissima, con buona certezza degli inizi IV sec., ma di cui si trovata tracce di strutturazione già verso la metà del III; le altre due erano decisamente moderne, XV e XVI secolo, nate soltanto perché origine di ecclesiastici potenti, uno addirittura Papa): così ha una diocesi con un territorio per nulla facile inscritto grosso modo in un rettangolo di circa 100Km x 60Km, pieno di minuscole realtà, anche antichissime, precedenti a Roma, distanti l’una dall’altra anche soltanto 10Km, ma di tortuosissime strade e stradine collinari e di montagna, quindi non certo percorribili in pochi minuti, anche una media di soltanto 60Kh è molto spesso semplicemente impensabile – non per nulla sono posti in cui sono stati disputati molti rally, anche molto famosi -, e se si considera che ha anche impegni “romani”, come potrà fare davvero il “pastore”? o farà piuttosto il pilota di rally (cosa che per altro gli piacerebbe e su cui con lui ci scherzo)?
Va riveduta profondamente la figura e il ministero del Vescovo. Dopo il Sinodo su questo non si è fatto nulla. Proporrei Metropoliti con Curie metropolitane organizzate, efficienti… con piccole diocesi suffraganee che hanno più un senso pastorale. Vescovi di prossimità… Ormai tutti non possono fare tutto. Altrimenti l’unica strada è l’accorpamento ma non mi pare che risolva i problemi, anzi o unire in persona episcopi. Occorre articolare la comunione in senso pratico.
Io penso che l’istituzione delle Conferenze episcopali sia, almeno in parte, alla base della crisi delle metropolie.
Non sempre il presidente delle Conferenze episcopali regionali è il Metropolita.
Allora?
Facciamo così: aboliamo le Conferenze episcopali e ristabiliamo le tradizionali funzioni dei Metropoliti.
Sarebbe un bel passo avanti.
Il gesto di Leone potrebbe essere letto però anche in vista di una maggiore collegialità tanto auspicata da molti ambienti. Un vescovo agirebbe INSIEME agli altri vescovi della sua metropolia e non più come autorità autonoma e con decisioni sganciate anche molto diverse da diocesi vicine.
Le prime scelte di Leone sembrano andare verso una gestione della Chiesa Universale con scelte condivise con gli altri vescovi. L’imposizione dei palli potrebbe essere una traduzione di questa collegialità anche in periferia. Speriamo questo atteggiamento possa passare anche nell’amministrazione pastorale della periferia.
Secondo me va letta anche come un richiamo all’unità nei confronti del mondo americano scosso da forti tensioni. Con tentazioni integraliste (o dal lato opposto in Germania) : come dire insieme con Pietro e con la Chiesa non con tanti battitori liberi. Una rilettura della tradizione per togliere scuse ai tradizionalisti soprattutto. Così, a sentimento, mi viene da dire questo.
In ogni caso ho iniziato a seguire il nuovo pontificato su America Magazine, forse in America riescono a leggere meglio gli elementi di attualità, poi vediamo.
Come sempre, chiarissimo! Complimenti Francesco Strazzari
Il problema sollevato è in Italia molto serio. Non so altrove (per mia 8gnoranza). Il paradosso e evidente: tra un po’ ci saranno più vescovi (tra titolari ed emeriti) che seminaristi. Trasformare le nostre chiese diocesane in senso missionario è urgente. Ma mi sembra che solo in poche diocesi si stanno facendo dei tentativi (Torino, Bolzano e Perugia).
Già. E facessero almeno quel che il codice stabilisce…
il codice? uso una battuta: “il CJC? roba scritta da preti – proprio i presbiteri! – per preti” … se si pensa che i parrocchiani sono ancora definiti “sudditi” … bah …