
La fase sinodale che la Chiesa sta attraversando ci obbliga a riconsiderare con maggiore consapevolezza e responsabilità il modo in cui viene esercitato il potere al suo interno. Allo stesso tempo, essa ci richiama all’urgenza di una gestione limpida e onesta dei procedimenti canonici, affinché risultino segno credibile di giustizia evangelica e di autentico servizio alla comunione ecclesiale.
Collegare la dimensione del potere alla vita della Chiesa e alle relazioni che al suo interno si intrecciano permette di avere una prospettiva più definita e concreta. Tuttavia, questo stesso riferimento mette in luce nuove domande che l’attuale esperienza ecclesiale mostra come particolarmente urgenti: in quale modo il potere deve essere esercitato nella comunità dei credenti? chi ne è realmente investito in ordine alla missione evangelica? quali strumenti e atteggiamenti occorre assumere perché l’autorità non degeneri in abuso, ma si configuri come autentico servizio alla comunione e al bene di tutti?
Chi può nella comunità?
Negli ultimi decenni il diritto canonico si è arricchito di strumenti significativi per arginare ingiustizie che generano profonda sofferenza in chi le subisce. Tuttavia, non si può ignorare che tali strumenti sono ancora radicati in una concezione delle relazioni ecclesiali segnata da forte asimmetria, e dunque vulnerabile alla tentazione di giustificare atteggiamenti e pratiche inammissibili da parte di chi detiene forme di potere. Per questo, il diritto canonico deve essere continuamente purificato e ripensato, affinché resti fedele alla sua vocazione più autentica: non consolidare la forza del potere, ma contenerne le derive violente, diventando presidio di giustizia evangelica e garanzia di comunione nella Chiesa.
Il potere rappresenta una dimensione fondamentale di ogni forma di vita comunitaria, poiché nessun ambito sociale o istituzionale ne risulta immune: ovunque esso plasma relazioni, dinamiche e responsabilità. Per questo motivo non è possibile ignorarlo né eluderne la riflessione, soprattutto nella Chiesa, dove l’autorità è chiamata a manifestarsi come servizio evangelico e non come dominio.
Il potere non è una realtà estranea alla nostra esistenza, né appartiene soltanto ad altri come se non ci riguardasse. Esso nasce dalle stesse dinamiche dell’umano, è parte integrante della nostra convivenza e, proprio per questo, interpella ciascuno sul piano morale. Ogni uomo e ogni donna è chiamato a discernere come viverlo e orientarlo, affinché diventi spazio di responsabilità e servizio e non occasione di sopraffazione.
A prima vista si potrebbe pensare che una comunità cristiana sia chiamata a vivere su un piano differente rispetto alle logiche comuni del potere. Il suo criterio ultimo è infatti il Vangelo, buona notizia di un Regno che libera e guarisce l’esistenza. Alla luce di questo annuncio, ogni forma di potere umano viene relativizzata e posta sotto giudizio, perché solo Cristo, l’unico Maestro, ha parlato e agito con quella exousìa che manifesta l’autorità divina come servizio e dono di vita.
L’esistenza umana si tesse dentro una trama di relazioni e di reciproche influenze: nessuno può vivere in modo del tutto autonomo, perché ciò non corrisponde né alla realtà né alla verità dell’essere umano. Allo stesso modo, la fede cristiana non si riduce a un’esperienza individuale, ma trova la sua forma propria nella dimensione ecclesiale. Come ricorda il Concilio Vaticano II, Dio ha voluto santificare e salvare gli uomini non isolatamente, ma costituendoli come un popolo, chiamato a vivere la comunione e a testimoniare insieme il Vangelo (cfr. LG 9).
In effetti, Cristo Signore ha istituito nella sua Chiesa diversi ministeri, affinché il popolo di Dio possa essere guidato e continuamente crescere nella santità. I ministri, pur essendo investiti di sacra autorità, sono chiamati a servire i fratelli e le sorelle, affinché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio – portatori di vera dignità cristiana – possano orientarsi liberamente e in modo ordinato verso l’unico fine della salvezza (cfr. LG 18). La loro potestà non è privilegio, ma servizio, finalizzato al bene dell’intero corpo ecclesiale.
Potere e ordinamento
Per promuovere il bene comune e servire la libertà dei fedeli, la Chiesa possiede una struttura organizzata, in cui i suoi membri esercitano l’autorità in modi diversi e differenziati. Allo stesso tempo, la fede cristiana, radicata nella rivelazione storica, richiede il rapporto maestro–discepolo per essere trasmessa autenticamente. Di conseguenza, la dimensione strutturata del corpo ecclesiale e la necessità di trasmettere la fede nel tempo comportano inevitabilmente relazioni asimmetriche all’interno della Chiesa pellegrina, relazioni che devono sempre essere orientate al servizio, alla guida responsabile e alla crescita spirituale di tutti.
Il potere nella Chiesa trova la sua fonte principale nello Spirito donato da Dio, che anima e orienta la vita delle comunità attraverso la molteplicità dei ministeri. La sua origine, apparentemente paradossale, risiede nella storia di Cristo, che assumendo la condizione umana si è fatto servo (cfr. Fil 2,5-8), offrendo uno stile di vita che diventa modello e norma per la comunità: «Tra voi non deve essere così; chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo sarà schiavo di tutti» (Mc 10,43-44). In tal modo, l’autorità ecclesiale si manifesta non come dominio, ma come servizio autentico, orientato al bene comune e alla costruzione del Corpo di Cristo.
Fin dai primi tempi, la comunità dei discepoli e delle discepole di Gesù ha dovuto confrontarsi con il problema del potere, misurandosi con forme di autorità dispotiche, totalitarie e arroganti, che esprimevano tanto il potere politico, come quello imperiale, quanto quello religioso. Questa esperienza iniziale ha posto la Chiesa davanti alla necessità di discernere un esercizio dell’autorità conforme allo spirito evangelico, fondato sul servizio e non sulla sopraffazione.
Sarebbe però ingenuo e riduttivo pensare di ricavare direttamente dal Vangelo le modalità concrete con cui l’autorità si esercita nella Chiesa, senza affrontare il complesso compito del discernimento. La vita ecclesiale richiede infatti un’interpretazione attenta e articolata, capace di tradurre i principi evangelici in pratiche di autorità che siano coerenti con il servizio, la responsabilità e la crescita della comunità.
Sono numerose le sollecitazioni che richiedono una revisione della concezione e della prassi con cui il potere viene esercitato nella Chiesa. Più profondamente, è l’insieme stesso delle relazioni tra i vari membri della comunità ecclesiale a chiedere oggi uno sguardo rinnovato, capace di interpretare e applicare le istanze del Vangelo in un contesto di sinodalità autentica, sia pensata che concretamente vissuta, dove l’autorità diventa servizio e cooperazione per il bene comune.
Per il bene di tutti
Sia nella tradizione filosofica classica, sia in quella cristiana, il potere trova il suo vero significato nella sua finalità al bene: uomini e donne sono chiamati a esercitarlo non per dominio, ma per promuovere il bene concreto di coloro su cui esso incide. Questa finalizzazione evidenzia che il potere nasce all’interno delle relazioni umane e si realizza per il loro bene, diventando così uno strumento ordinato a un fine più grande. Il senso e il valore del potere derivano quindi dalla sua direzione verso il bene: in assenza di tale orientamento, esso rimane privo di significato autentico e di legittimità morale.
Anche la tradizione cristiana riconosce un legame essenziale tra potere e bene, pur con fondamenti e finalità specifici. Così, nella riflessione paolina si afferma che l’autorità esiste «per il tuo bene» (Rm 13,4): ogni forma di potere trova origine in Dio e deve essere esercitata in conformità alla Sua volontà, orientata al bene di chi ne è soggetto e alla costruzione della giustizia e della comunione nella comunità.
Il potere deve essere orientato al bene delle persone, ma pensarlo, attuarlo, valutarlo e rinnovarlo non è mai semplice. Un’osservazione attenta della realtà sociale e politica attuale mostra quanto sia fragile e spesso inadeguato il tessuto umano di chi detiene autorità, carente sia nella formazione etica sia nelle competenze tecniche necessarie per esercitare responsabilmente il potere. Questa constatazione richiama alla necessità di discernimento, formazione e guida morale affinché l’autorità diventi davvero servizio al bene comune.
La mediocrità di chi detiene il potere si rivela spesso nel circondarsi di collaboratori mediocri. Non è soltanto una scelta sbagliata, ma una strategia: chi teme la verità e la libertà preferisce avere accanto persone che non disturbano, che non pongono domande, che non rischiano di brillare più del capo. Così il potere si impoverisce, perché diventa eco di sé stesso, specchio fragile di un’autorità senza respiro. Una guida autentica, invece, non teme l’eccellenza altrui: la promuove, la valorizza, la lascia fiorire. Circondarsi di persone libere e competenti è segno di forza, non di debolezza. Al contrario, chi sceglie la mediocrità attorno a sé non fa che confessare, in fondo, la propria.
Papa Francesco, indipendentemente dal contesto in cui esercita la sua autorità, individua comportamenti ben definiti, radicati in una visione chiara dell’uomo e della sua responsabilità morale. Questi atteggiamenti traggono origine da una comprensione antropologica ed etica che guida l’esercizio del potere come servizio, orientato al bene comune e alla crescita della comunità: “La crisi attuale (…) affonda le radici in una crisi etica e antropologica (…). Ci si è dimenticati e ci si dimentica tuttora che al di sopra degli affari, della logica e dei parametri di mercato, c’è l’essere umano e c’è qualcosa che è dovuto all’uomo in quanto uomo, in virtù della sua dignità profonda: offrirgli la possibilità di vivere dignitosamente e di partecipare attivamente al bene comune”[1].
L’umano potere
Se applichiamo questa prospettiva antropologica ed etica a chi esercita l’autorità nella Chiesa e nella società, emergono tratti comuni e ricorrenti tra i leader, che riflettono sia le responsabilità sia le sfide insite nel servizio del potere. Questi elementi permettono di riconoscere quali atteggiamenti siano conformi al bene comune e quali, invece, necessitino di correzione e discernimento.
Tra i tratti ricorrenti in chi esercita il potere, si riscontrano:
- immaturità nelle relazioni e carenze nelle competenze gestionali;
- allontanamento dai principi etici fondamentali e dallo spirito di servizio;
- senso di superiorità verso gli altri, comprese le leggi e le procedure;
- crescente distanza nei rapporti con coloro che guidano;
- atteggiamenti di mediocrità e scarsa apertura culturale;
- disinteresse, e talvolta opposizione, verso percorsi di formazione, partecipazione, corresponsabilità e controllo comunitario della vita istituzionale.
Ogni crisi richiede innanzitutto un rinnovamento della tensione etica e culturale. Chi esercita il potere deve essere educato, prima di tutto, a diventare pienamente persona, riconoscendo che la crescita armonica dell’individuo passa attraverso un percorso formativo consapevole e una responsabilità di autoeducazione. In questo cammino, la vigilanza su di sé e la capacità di autocontrollo e verifica costante risultano strumenti indispensabili per esercitare l’autorità in modo giusto e autenticamente servizievole.
Dal punto di vista antropologico ed etico, risultano fondamentali i seguenti atteggiamenti per chi esercita il potere:
- mantenere un sano e onesto realismo, sia riguardo alla propria vita che a quella degli altri;
- conservare la capacità di distacco dal proprio ruolo;
- distinguere e proteggere la propria vita intima e privata;
- accettare con maturità i propri limiti e quelli altrui, così come le difficoltà e le negatività;
- vigilare costantemente contro invidia, narcisismo, autoritarismo e chiusura al dialogo;
- prestare attenzione allo stress e al rischio di burnout;
- coltivare uno spirito autentico di collaborazione e fiducia;
- comunicare con semplicità e verità, rendendo chiaro ciò che si intende e ciò che si fa.
Una virtù spesso dimenticata quando si parla di potere nella Chiesa è il pudore. Chi ha una responsabilità pastorale o di governo dovrebbe custodire un senso di misura, consapevole che non sempre è giusto domandare ancora a chi ha già portato pesi gravosi, magari in silenzio e fedeltà. Il pudore qui non è timidezza, ma rispetto profondo: è riconoscere la dignità dell’altro, la sua storia di dedizione, i suoi limiti umani. Un’autorità senza pudore rischia di trasformarsi in pretesa, e la richiesta in abuso. Con pudore invece, il chiedere diventa discreto, proporzionato, aperto alla reciprocità: non un “pretendere” ma un “invitare”, non un “esigere” ma un “camminare insieme”. Così il potere nella Chiesa non si presenta come peso aggiunto, ma come servizio che solleva, incoraggia e riconosce chi già ha donato tanto di sé.
Chi detiene il potere nella Chiesa deve vigilare sul rischio di una retorica che stigmatizza l’arrampicata degli altri, dimenticando che spesso sono proprio coloro che non hanno fatto carriera a portare la carretta quotidiana della vita ecclesiale. È facile ammonire i fratelli sul pericolo dell’ambizione, quando nel frattempo si gode dei frutti di una carriera silenziosamente percorsa. Il pudore, allora, diventa virtù indispensabile: chiede verità nelle parole e coerenza nella vita. Chi guida non dovrebbe disprezzare i piccoli cammini degli altri, ma riconoscere e onorare il carico reale che tanti portano. Solo così il potere si converte da privilegio a servizio, da retorica a testimonianza.
Infine, chi esercita il potere nella Chiesa deve non solo avere pudore nel chiedere sacrifici, ma anche coltivare la virtù della gratitudine. Non verso chi ambisce alla carriera, ma verso coloro che, silenziosi e fedeli, percorrono la strada della fatica apostolica quotidiana. Non come ossessione o chiodo fisso, ma come riconoscimento sincero di un servizio prezioso: chi rimane al suo posto, prendendo cura di una porzione di gregge affidatagli, merita stima e riconoscimento. Il potere, così vissuto, non è dominio, ma custodia: sa vedere chi lavora con fedeltà, incoraggiare chi persevera e sostenere chi sopporta pesi che spesso passano inosservati. La vera autorità è quella che sa ringraziare, senza clamore, e custodire la ricchezza nascosta della dedizione silenziosa.
Formare al potere, però, non significa conferire al leader ogni possibile qualità umana, etica o tecnica — un’aspettativa irrealistica e illusoria —, ma piuttosto sviluppare in lui una maturità sufficiente a esercitare il proprio servizio nella maniera più responsabile ed efficace, orientata al bene comune e al bene dei fratelli e delle sorelle della comunità.
Privilegio e abuso
Il potere rappresenta uno spazio privilegiato in cui l’identità personale si manifesta, ma deve sempre essere governato secondo la misura — nel senso classico di métron. Chi esercita correttamente il potere è colui che possiede il senso della misura, ossia la consapevolezza chiara dei propri doveri verso sé stesso e verso gli altri, sia verso chi occupa posizioni di maggiore responsabilità sia verso chi si trova in condizione di minor potere.
Solo un esercizio maturo della responsabilità può proteggere le istituzioni dagli abusi[2] e dalle distorsioni. Per garantire che le diverse forme di autorità, all’interno e tra le istituzioni, vengano esercitate in modo eticamente corretto e produttivo, è indispensabile individuare chiaramente chi è responsabile, quali procedure seguire, quali luoghi e tempi dedicare al rendiconto delle responsabilità e al coordinamento tra i vari livelli di autorità.
Come va esercitato il potere nella Chiesa? L’autorità ecclesiale deve operare in piena coerenza con la natura stessa della Chiesa. Per questo, l’analisi del potere ecclesiale richiede non solo l’apporto delle scienze umane — che restano comunque preziose — ma anche quello della teologia, poiché la vita della Chiesa non può essere compresa pienamente se non alla luce della rivelazione cristiana, che ne orienta finalità, responsabilità e stile di servizio.
L’esercizio del potere nella Chiesa e le relative asimmetrie derivano dalla natura sociale ed ecclesiale della fede cristiana. Tuttavia, anche il potere legittimo e necessario può essere esercitato in modo scorretto, aprendo la strada ad abusi e comportamenti contrari allo spirito evangelico.
Quali tratti della natura stessa della Chiesa orientano l’esercizio legittimo del potere? Come già ricordato, la Costituzione Lumen Gentium sottolinea che, per nutrire il Popolo di Dio e favorirne il continuo progresso, Cristo ha istituito nella Chiesa diversi ministeri, tutti ordinati al bene dell’intero Corpo (cfr. LG 18). Il potere ecclesiale, dunque, possiede un carattere ministeriale: esiste per la salvezza dei fedeli, affinché essi possano tendere liberamente e ordinatamente verso la vita eterna.
Il potere nella Chiesa è sempre al servizio del Popolo di Dio, il quale possiede come fondamento la dignità e la libertà dei figli di Dio (cfr. LG 9). Di conseguenza, l’esercizio dell’autorità ecclesiale deve rimanere entro i confini naturali tracciati da questa dignità e libertà, rispettando pienamente il suo scopo: servire la volontà salvifica di Cristo e promuovere il bene dei fedeli.
La Chiesa esercita il potere in quanto media tra Dio e gli uomini. Un superiore che pretende un’obbedienza assoluta verso di sé oltrepassa i limiti e il fine dell’autorità ricevuta. Rimane invece un ideale cristiano l’obbedienza incondizionata a Dio, perché Egli è degno di tale adesione. Questa distinzione tra la voce del superiore e quella di Dio sottolinea la differenza tra decisioni necessarie per la gestione della Chiesa e decisioni che coinvolgono la volontà divina. L’autorità ecclesiastica competente non può garantire che i suoi comandi imperativi, vincolanti entro la sua sfera di responsabilità, coincidano con la volontà di Dio.
L’esercizio del potere nella Chiesa deve essere autenticamente ecclesiale e cattolico. In altre parole, nessuno può arrogarsi il ruolo di unico interprete della volontà di Dio all’interno della comunità: l’autorità va sempre esercitata in comunione, nel rispetto della vocazione collettiva del Popolo di Dio e della sua guida dal Signore.
Il servizio alla volontà di Cristo esclude qualsiasi forma di arbitrarietà o irrazionalità nell’esercizio dell’autorità, richiedendo discernimento, responsabilità e coerenza con il Vangelo. Il potere nella Chiesa deve sempre rispettare la dignità e la libertà dei figli di Dio.
Potere vs. sinodalità
Non possiamo trascurare le tensioni tra la concezione tradizionale del potere e le istanze di una Chiesa sempre più sinodale e partecipativa. Ripensare il potere ecclesiale in chiave sinodale significa individuare modalità e strumenti che ne garantiscano la legittimità giuridica, reinterpretando la sua dimensione sacramentale come fondamento di relazioni giuridiche. In pratica, ciò comporta inserire il potere in procedure giuridiche che siano anche percorsi deliberativi, secondo il principio che «ciò che riguarda tutti deve essere discusso e approvato da tutti».
Una Chiesa «costitutivamente sinodale»[3] è chiamata a ripensare la propria struttura di governo e, con essa, la concezione della leadership[4], aprendo così una riflessione sulla natura del potere nella comunità ecclesiale. Sul piano teologico, il potere viene studiato nella sua dimensione fondativa e originaria; sul piano giuridico, invece, esso si manifesta nella sua funzione operativa e pratica, evidenziando come l’autorità debba tradursi in azioni concrete al servizio del bene della comunità.
Il Concilio ha sottolineato la «funzione diaconale»[5] nell’esercizio della potestà di giurisdizione verso la comunità ecclesiale[6], indicando che l’autorità è sempre servizio. Tuttavia, la Chiesa mantiene ancora una struttura simile a un’organizzazione «feudale»[7], in cui il principio di divisione dei poteri si traduce soltanto in una differenziazione funzionale all’interno di una potestà di giurisdizione[8] unica e indivisibile. Di conseguenza, l’elemento gerarchico tende a prevalere su quello partecipativo, limitando la piena corresponsabilità dei fedeli.
La Chiesa cattolica si configura come una realtà con una struttura gerarchica complessiva[9], in cui il potere di autorità e di subordinazione nei confronti dei membri è inteso come derivante da Dio.
Il potere episcopale ha carattere monocratico, tanto che anche gli organismi di partecipazione ecclesiale sono soggetti alla sua autorità. Ne deriva chiaramente una concentrazione di potere particolarmente elevata[10], che richiede discernimento e responsabilità per essere esercitata secondo lo spirito del Vangelo.
«Il ministero episcopale è certamente sovraccarico rispetto al suo primo compito, di guida pastorale di una Chiesa particolare (a volte anche due…); non è possibile che sia una sorta di collo d’imbuto dal quale tutto dovrebbe passare e da cui tutto dovrebbe partire; è necessario pensare seriamente alla condivisione reale della responsabilità, ad esempio studiando la figura orientale dei corepiscopi, o simili, anche per la Chiesa latina»[11].
A tal proposito il Documento di sintesi del cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia “Lievito di pace e di speranza” afferma: “In questo spirito sinodale e missionario, andrà ripensato il servizio di guida delle comunità cristiane, a fronte di forme di esercizio dell’autorità ancora monocratiche e clericali, non adeguate a una fisionomia sinodale e fraterna di Chiesa, favorendo la corresponsabilità di tutti i battezzati, in modo da superare definitivamente la logica ancora perdurante del clericalismo” (n. 65).
Permane, in sostanza, un modello di Chiesa di ispirazione gregoriana, fondato su una concezione monarchica di tipo medievale, evidente anche nell’uso del termine “suddito” in Lumen Gentium 27 in relazione al potere legislativo dei vescovi. Tale terminologia viene ripresa dal Codice di Diritto Canonico del 1983 per descrivere sia i fedeli rispetto ai loro pastori, sia i consacrati rispetto ai superiori (can. 1077 § 1 CIC), mostrando come la struttura gerarchica conservi ancora tratti di autorità verticale e centralizzata.
La concezione monocratica del potere si accompagna spesso a un approccio etico utilitaristico alla vita sociale, in cui le azioni vengono guidate dal calcolo prudenziale, ossia dalla ricerca del vantaggio personale o istituzionale, anche nelle decisioni morali. In questo modo, ciò che è giusto viene confuso con ciò che è strategicamente conveniente per l’istituzione ecclesiale; tuttavia, questo criterio non può costituire un vero fondamento morale[12], poiché il bene morale trascende l’interesse personale o organizzativo.
Una concezione del potere di questo tipo diventa il segno evidente dell’«egocentrismo dell’istituzione»[13], che ostacola una piena armonizzazione tra la Chiesa come struttura organizzativa[14] e il messaggio del Vangelo.
Ripensare il potere della Chiesa in chiave sinodale significa individuare forme e strumenti che ne giustifichino l’esercizio anche sul piano giuridico, reinterpretando la sacramentalità del potere come realtà che si esprime dentro relazioni giuridiche, e non come possesso assoluto di chi lo detiene.
Il Documento di sintesi del cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia “Lievito di pace e di speranza” afferma: “Lo sviluppo della sinodalità e della missione ecclesiali richiedono strumenti amministrativi, economici, gestionali che siano flessibili, sostenibili, trasparenti, espressione e mezzo di realizzazione dei valori evangelici di partecipazione, giustizia, solidarietà e che permettano di superare i rischi della burocratizzazione, della opacità amministrativa e della concentrazione del potere” (n. 66).
Per un ordinamento sinodale
Questo implica che il potere venga collocato entro una prassi giuridica che si configuri anche come processo deliberativo, secondo il principio «ciò che riguarda tutti deve essere trattato e approvato da tutti»[15]. L’autorità ecclesiale, in tale prospettiva, va ripensata a partire dalla sua dimensione antropologica, prima ancora che teologica: essa è infatti una forma di potere sociale esercitata nella comunità e trova il suo senso autentico solo nella logica del servizio
Diventa indispensabile rafforzare i sistemi di vigilanza e di verifica sull’esercizio del potere, così come definire criteri chiari e trasparenti che favoriscano una partecipazione condivisa nei processi di nomina agli uffici ecclesiastici.
In definitiva, si è consolidata la consapevolezza della necessità di avviare una revisione critica di alcuni aspetti centrali della vita ecclesiale, in particolare riguardo al potere e alla distinzione delle diverse forme di potere nella Chiesa.
Si riscontra una distanza tra l’ideale evangelico e le modalità con cui il potere viene pensato ed esercitato nella Chiesa. Tale divario può e deve essere colmato solo orientando l’agire ecclesiale verso le aspirazioni autentiche del Vangelo.
Il Documento di sintesi del cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia “Lievito di pace e di speranza” afferma: “Nella Chiesa si sente il bisogno di relazioni più evangeliche ed ecclesiali, quindi più umane e fraterne. Si tratta tra l’altro di trovare modi più autentici per vivere il rapporto fra partecipazione e autorità. Questa ineludibile tensione va resa generativa” (n. 64).
La conversione e il rinnovamento ecclesiale passano necessariamente attraverso una revisione del sistema di potere. Diventa urgente promuovere una responsabilità realmente condivisa, un esercizio cooperativo dell’autorità e il riconoscimento effettivo del diritto alla partecipazione dei fedeli. Solo così la responsabilità comune potrà generare anche quella trasparenza indispensabile nell’uso del potere all’interno della Chiesa.
I responsabili della Chiesa sono chiamati ad avviare un serio esame critico su quei fattori strutturali e culturali che possono favorire o giustificare abusi di potere. È indispensabile elaborare criteri e standard chiari che orientino verso un rinnovamento sia spirituale che istituzionale, in modo duraturo, traducendoli poi in scelte e pratiche concrete.
È urgente avviare una riforma incisiva delle dinamiche di potere all’interno della Chiesa, poiché esse rappresentano condizioni indispensabili per rendere credibile e feconda la sua missione nel mondo contemporaneo. Se la Chiesa desidera esercitare un’autentica autorità spirituale e morale, al suo interno come nella società, deve interrogarsi con onestà sul modo in cui concepisce e pratica il potere, rivedendolo criticamente e riorganizzandolo quando necessario. Occorre domandarsi: il potere ecclesiale è realmente al servizio del Vangelo e del Popolo di Dio? In quali casi rischia di diventare autoreferenziale? Dove sostiene, e dove invece ostacola, l’esperienza dell’inesauribile forza creatrice di vita che proviene da Dio?
Un rinnovamento del sistema di potere ecclesiale si rende necessario affinché il processo di inculturazione in una società democratica e libera, fondata sullo stato di diritto, possa realizzarsi con autenticità. Ciò non significa adottare in modo acritico le prassi sociali[16], poiché la Chiesa conserva sempre una missione profetica e critica nei confronti della società. Tuttavia, in molti contesti, le dinamiche proprie della democrazia non riescono più a comprendere né a riconoscere il modello di potere vigente nella Chiesa, che rischia così di apparire distante e incomprensibile.
Si è elaborata una teologia della Chiesa, una spiritualità dell’obbedienza e una prassi ministeriale che collegano in modo esclusivo il potere all’ordinazione, considerandolo sacro e intangibile. In questo modo, il potere risulta protetto dalle critiche, sottratto a ogni forma di controllo e privo di meccanismi di condivisione o di distribuzione.
Poiché la questione del potere tocca direttamente aspetti strutturali come la separazione dei poteri, il controllo dell’autorità e la partecipazione dei membri, tali temi diventano particolarmente centrali e richiedono un’attenzione costante nella vita ecclesiale.
È fondamentale che la struttura comunionale della Chiesa si traduca in forme sociali e giuridiche tali da impedire rapporti di dominio unilaterali e da garantire la partecipazione effettiva di tutti i membri, rendendola vincolante e responsabile.
Occorre introdurre un sistema che assicuri la separazione dei poteri, la partecipazione di tutti ai processi decisionali e un controllo indipendente sull’esercizio dell’autorità, in modo coerente con la natura della Chiesa e fondato sulla dignità intrinseca di ogni persona battezzata.
È necessario superare la struttura monistica dei poteri, in cui le funzioni legislative, esecutive e giudiziarie sono concentrate esclusivamente nel ministero del vescovo e, a livello parrocchiale, tutta l’autorità di guida spetta al parroco. Pur potendo delegare alcune responsabilità, il parroco mantiene la facoltà di revocarle in qualsiasi momento, soprattutto in caso di conflitto, limitando così la partecipazione e la corresponsabilità nella comunità[17].
Si tratta di promuovere uno sviluppo duraturo e autentico della sinodalità nella Chiesa, assicurando che tutti i membri del Popolo di Dio possano esercitare pienamente i propri diritti consultivi e decisionali.
È necessario impegnarsi, inoltre, a promuovere una riforma del diritto canonico che traduca in pratica i principi di equità, trasparenza e controllo, fondandoli su una vera e propria carta ecclesiastica dei diritti fondamentali dei fedeli.
La responsabilità si sviluppa nella misura in cui ciascuno è realmente coinvolto nei processi decisionali. Per questo motivo, anche le strutture decisionali della Chiesa devono essere progettate per favorire la partecipazione attiva dei fedeli, in aderenza alla chiamata alla libertà che ci viene rivolta: «Siete stati chiamati alla libertà» (Gal 5,13).
[1] Francesco, Discorso alla Fondazione “Centesimus Annus pro Pontifice” (25 maggio 2013).
[2] https://www.settimananews.it/chiesa/abuso-di-potere-e-di-coscienza-nella-chiesa/
[3] Cf Instrumentum laboris della sessione di ottobre 2023 del Sinodo dei vescovi: la sinodalità come dimensione costitutiva della Chiesa» (n. 26); «una Chiesa costitutivamente sinodale» (§ B.3.1). Vedi anche Instrumentum laboris della sessione dell’ottobre 2024: sinodalità come «dimensione costitutiva della Chiesa» (n. 5), nonché Documento finale della seconda sessione: «la sinodalità, dimensione costitutiva della Chiesa, è già parte dell’esperienza di tante nostre comunità» (n. 12). Si rimanda, per tutti, a R. Luciani – S. Noceti, Sulla via. Una Chiesa tutta sinodale, Queriniana, Brescia 2025.
[4] Cf G. Dallavite, Munus pascendi: autorità e autorevolezza. Leadership e tutela dei diritti dei fedeli nel procedimento di preparazione di un atto amministrativo, Pontificia Università Gregoriana, Roma 2007.
[5] Cfr. G. Boni, Il buon governo nella Chiesa. Inidoneità agli uffici e denuncia dei fedeli, Mucchi, Modena 2019.
[6] Cfr. M. Del Pozzo, «La nozione giuridico-ontologica di gerarchia», in Annales #eologici 27 (2013) 402.
[7] Cf P. Consorti, Introduzione allo studio del diritto canonico, Giappichelli, Torino 2024, 46.
[8] Cf can. 135, §1 CIC: «La potestà di governo si distingue in legislativa, esecutiva e giudiziale». Cf P. Consorti, «Il processo sinodale e la divisione dei poteri», in Munera 3 (2022) 25 ss; ID., «Diritto canonico: a che scopo? Ripensare il diritto canonico per riformare la Chiesa», in Il Regno 2 (2022) 3.
[9] N. Doe, Christian Law. Contemporary Principles, Cambridge University Press, Cambridge 2013, 119 parla di «global hierarchical constitution».
[10] Cfr. J. Hahn, Potere del diritto, diritto del potere. 78.
[11] E. Castellucci, La Chiesa in Italia e il cammino di riforma, 23 aprile 2021, http://www.teologiacati.it/wordpress/wp-content/uploads/2021/06/Allegato-13.pdf [ultimo accesso: 11 maggio 2025
[12] Cf K. Baier, Il punto di vista morale. Una base razionale per l’etica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018, 36.
[13] F. Lenoir, Francesco. La primavera del Vangelo, Bompiani, Milano 2016, 165-166.
[14] Sulla dicotomia tra Chiesa-apparato e Chiesa-mistero si rimanda alle considerazioni di F. Scalia, «Ma di cosa avete paura? Le paure della Chiesa», in Horeb 2 (2011) 53-54.
[15] Commissione Teologica Internazionale, La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, Roma 2018, 65.
[16] Cf. Francesco, Lettera al popolo di Dio pellegrino in Germania (29 giugno 2019), n. 7.2.
[17] L. M. Guzzo, Anatomia del potere nella Chiesa cattolica, in “Rassegna di teologia” 66 (2025), 149-164.






La storia relativa al potere è davvero antica e lunga: quando gli israeliti vollero darsi un re, come tutti gli altri popoli attorno, Iddio osservò inutilmente;”Come fate a volere un re, ma allora Io chi sono? Non sono più Io il vostro Re? Ebbene questo re che volete renderà schiavi i vostrifigli e vi sottrarrà le vostre figlie per farle sue concunine”
Il Papà Celeste è fuori da ogni logica di potere. E solo Amore e dove c’è Amore non c’è imposizione.
Iddio ha mandato il suo unico figlio nel mondo, tenerezza infinita e favo di miele d’amore, il potere lo ha fatto fuori. Il potere è una sunumanitá come la violenza e l’arroganza.
Nell’articolo si intrecciano considerazioni velleitatie per liberarsi dal potere e remore per restarci dentro…basterebbe non distogliere lo sguardo dal Crocifisso per non cadere nella trappola di disquisire sul potere: quando un uomo, una donna vuol essere umano/a e non un subumano/a non esercita mai un potere, ma un amore, esercitando un potere si colloca nel subumano ed è costretto a fregiarsi dell’appellativo di superuomo/superdonna per compensare il vuoto d’umanità….
Io vorrei veramente che tutti questi sinodali andassero per un anno a vivere in Nigeria. A vivere da cristiani intendo, andando alla Messa e correndo il rischio di diventare martiri
Ho l’ impressione che solo pochissimi delegati sinodali accetterebbero di farlo. Perche’ ilbla-bla-bla , il sedersi a tavolino ,il credersi grandi riformatori ,e’ gratificante per l’ Ego ,invece rischiare il martirio e’ terrificante .
Ma Cristo ha detto che i suoi discepoli devono seguire il Maestro : hanno perseguitato me ,perseguiteranno anche voi .
Ricordiamo che nel 2012 il clero e i laici della diocesi di Ahiara impedirono con modi bruschi l’ingresso del vescovo eletto Peter Okpaleke perchè non era nativo della diocesi (aka non apparteneva alla tribù del posto).
I preti continuarono a resistere anche dopo la minaccia di Papa Francesco di sospenderli a divinis.
La situazione si risolse solo perchè il vescovo gettò la spgna.
Bella testimonianza…
Faccio un’aggiunta. Proprio ieri su Facebook, il parroco di Colonna, piccolo paese a ridosso dei Castelli Romani, diocesi di Frascati, ha comunicato ai fedeli la decisione del vescovo di spostarlo a Rocca Priora (altro paese) con l’incarico di Vicario presso la Parrocchia San Giuseppe Artigiano. Scrive il parroco: “Poiché la notizia già si è sparsa con il tam tam locale, ritengo opportuno fare la chiarezza: 1. Non ho commesso alcun atto illecito nei confronti della Parrocchia (…) Dunque la decisione del Vescovo non è una punizione per il mio operato pastorale o per qualche “reato ecc” ma bensì la sua volontà di fare una sorta di verifica nei miei confronti”. Poi aggiunge altri dettagli su come la decisione scombussola tutta la parrocchia, ma invita a obbedire e pregare. Ecco un esempio di pessimo potere del vescovo. Decide e comunica la decisione senza alternative. Non parla prima, non dialoga. Decide e basta. Poi da parroco, il prete diventa vice parroco: non è una sconfessione del suo operato? Certo che lo è. E la pretesa del vescovo è che il parroco e la parrocchia dovrebbero accettare ed essere contenti. Pure? Perché è entrata in azione la “modalità vescovo o arcivescovo” che ha sempre ragione e fa sempre bene per il fatto di vestirsi in pompa magna e di vivere nel Palazzo arcivescovile di Frascati. Ma chi lo paga? E se invece il parroco avesse commesso qualche illecito, allora bisognerebbe dirlo con serenità e chiarezza. Invece niente di tutto questo, solo uno strascico di malcontento e disillusione. Questo è il “potere” nella Chiesa: sciocco, miope, delegittimante, opaco, inutilmente coercitivo. Di questo gli articoli di Marrone e di altri dovrebbero parlare, e soprattutto dovrebbero spiegare come riparare ai soprusi. Ma siccome i soprusi vengono da un vescovo, nulla si può fare, solo aspettare che arrivi all’età della pensione e smetta di fare danni. Qui il link: https://www.facebook.com/parrocchiacolonna
Come diceva sempre Francesco: “Il chiacchiericcio è peggio del Covid”.
https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2020-09/papa-francesco-angelus-correzione-fraterna.htm
però il chiacchiericcio spesso emerge quando vengono prese delle decisioni senza dare spiegazioni o dandone di insoddisfacenti.
Le persone tentano di capire parlandosi a vicenda e colmando i buchi di conoscenza.
Mah, diciamo che andarsi a sfogare su facebook non è proprio un comportamento “maturo”. Se devi spiegare qualche cosa lo fai di persona in altre sedi.
Che poi se parliamo di “dialogo” su facebook io sono stata bloccata anche da Vino Nuovo e da Andrea Grillo. Anche quello se vuoi è abuso di potere dato che si tratta di teologi giornalisti e quant’altro mentre io sono una semplice laica. I social sono lì proprio per quello, per alimentare rancori assortiti, meglio lasciare perdere e via.. Mastrofini lavora alla Radio Vaticana mi pare.
Articoletto un po’ lungo (si poteva dividere in due parti), ma ben pensato e strutturato. Personalmente sono convinto che una sorta di “balance of power” nella Chiesa ci possa e debba esistere. Questa Chiesa ha come modello di gestione del potere la monarchia sia nel piccolo (diocesi) sia in grande (Santa Sede), modello che andrebbe rivisto.
Piu condivisione e meno gerarchia sarebbe certamente meglio. Strutturare meglio una chiesa sinodale sarebbe molto funzionale. Perché quando una decisione viene presa insieme da tutte le componenti della chiesa sì accettano più volentieri piuttosto che calate dall’alto in senso gerarchico. Secondo me il sinodo deve diventare l’organo decisionale finale.
Un autorevolissimo porporato, qualche anno fa disse che la Chiesa è indietro di 200 anni.
Ebbene, rispetto alle acquisizioni delle scienze umane e politiche contemporanee, lo è anche nel campo del potere.
Con Francesco si sono avviati alcuni processi, che però appaiono lentissimi, con movimenti quasi impercettibili e sempre contestatissimi. Tutto fermo, tutto immobile.
La storia e la sociologia suggeriscono che quando in una organizzazione/comunità/società si sopprime troppo a lungo ogni movimento riformatore, prima o poi avvengono fatti rivoluzionari, quindi traumatici.
Sarà così anche per la Chiesa?
A me sembra che, almeno nelle società occidentali, l’abbandono di massa della fede da parte della quasi totalità dei giovani sia già una rivoluzione avvenuta. Quando ce ne accorgeremo?
Tenuto conto di come sta messa la maggior democrazia del mondo, con il senno di poi era avanti di 200 anni..😎
Troppo lungo. Infarcito di buone intenzioni. Nobili anche, ma teoriche. Condivido tutto, ma resta la domanda: come si fa quando il ‘potere’ è esercitato male? Cioè come si fa sempre? Perché nella Chiesa il potere è esercitato male sempre. Senza eccezioni. Sembra una posizione drastica? Potrei fare un elenco di sacerdoti, arcivescovi, vescovi, cardinali che semplicemente ignorano i laici, quando sono fedeli di parrocchia o dipendenti di uffici della Chiesa. Il laico/a buono/a è chi obbedisce e sta zitto, pensando quello che vuole, ma senza dirlo. Per questo l’articolo è troppo teorico e generico. Non dice come si fa. E invece le soluzioni ci sono, prendendole da scienze umane e psicologia. Fin che si resta nel teorico-generico non andiamo avanti. Consiglio la lettura di “Fede Malata”, scritto con Giuseppe Crea (Alpes Edizioni, 2024) per trovare episodi e soluzioni. Il nodo è la mentalità pretesca, che tradisce il Vaticano II e tutta la Chiesa del primo millennio. Il nodo è l’aver messo la consacrazione al centro di tutto. Fino a quando non si discute sul serio, siamo alle belle intenzioni. Guardate Castellucci sul (presunto) Sinodo italiano: sarà la Cei a trasformare in scelte operative le (buone) intenzioni sinodali. E allora i delegati che hanno lavorato a fare? A dare suggerimenti che poi dall’alto qualcun altro deciderà se e quali trasformare in qualcosa di operativo? Ma questo sembra un buon sistema? Che idea del potere si legge sotto questa impostazione? E perché preti o vescovi o laici intelligenti non capiscono l’assurdità in cui si stanno immergendo? Ecco perché l’Autore di questo troppo lungo articolo, nobile negli intenti, ‘toppa’ clamorosamente nelle conclusioni. All’ultimo arcivescovo con cui ho avuto a che fare, ho sempre detto che quando entrava in ‘modalità arcivescovo’ (cioè sempre: poiché sono arcivescovo, decido io; oppure: ‘decido qualcosa consultandomi con lo staff ma poi cambio idea e non lo dico a nessuno’…scegliete voi lettori cosa è meglio…), ebbene quando entrava in modalità arcivescovo – gli dicevo – diventava impossibile lavorare insieme. Non ha mai raccolto la provocazione, non ha mai risposto, tanto meno ci ha pensato sopra. E i preti attorno: tutti proni davanti, ma alle spalle tutti a criticare. Una vergogna. Ecco i reali problemi. Come si fa a mandare questa gente in qualche sperduta parrocchia di montagna a imparare come si sta con il prossimo? Eppure servirebbe… la sinodalità non è quella dei documenti teorici. E’ quella che si dovrebbe fare in parrocchia, nelle diocesi, negli uffici, in Vaticano, dovunque. Non sbandierarla ma realizzarla.
La lamentela dei preti riguardante il fatto che i fedeli non li seguono è diventato la realtà. Un modello estremamente verticistico non funziona più e sicuramente i preti e i vescovi se ne sono accorti ma non vogliono uscire dallo schema che nei secoli si sono costruiti. Quando il numero dei preti calerà drasticamente allora i vescovi e preti tenteranno di porre qualche rimedio non solo teorico ma reale.
Condivido pienamente i commenti di Fabrizio Mastrofini. L’unico modo per porre fine a queste situazioni è una riforma sistematica del potere nella Chiesa. Questo può attuarsi solo se l’autorità dell’arcivescovo nei confronti dei fedeli, del superiore nei confronti dei religiosi, del parroco nei confronti dei semplici fedeli, viene limitata in modo concreto dal diritto attraverso forme di partecipazione con voto, non solo consultive. L’essere umano è fragile e fintanto che il diritto canonico lascia il potere decisionale assoluto a queste figure, gli abusi, le decisioni autoritarie che vanificano anni di lavoro ed umiliano gli altri, i cambi senza apparenti motivazioni che lasciano i fedeli sconcertati, le scelte scriteriate e una serie innumerevoli di mali resteranno all’ordine del giorno. Il prezzo di tutto ciò qual è? Ci sono alcuni che hanno resistito, pur spezzati interiormente continuano a sentirsi cattolici, sebbene emarginati e feriti da questa vera e propria “struttura di peccato”- Smettiamo di chiamarla sacra potestas. Altri però hanno deciso che è meglio cercare il Cristo altrove, perché la contraddizione di queste forme di potere senza carità è troppo grande