Messina Denaro: la svolta del funerale non religioso

di:
messina denaro

Foto: Alberto Lo Bianco / LaPresse

È stata notata da tutti i mezzi di comunicazione l’assenza di funerali religiosi per Matteo Messina Denaro, l’ultimo grande boss mafioso, rimasto latitante per trent’anni e morto in questi giorni in carcere. E, in effetti, si tratta di un fatto molto significativo per quanto riguarda il rapporto tra la mafia e la Chiesa. Non tanto perché in ogni caso quest’ultima si sarebbe rifiutata di celebrarli, essendo ormai da tempo inequivocabile la condanna delle autorità religiose nei confronti di Cosa Nostra, quanto perché lo stesso Messina Denaro, in un «pizzino» risalente al 2013, quando ancora non era malato, li aveva esclusi.

Aveva scritto: «Rifiuto ogni celebrazione religiosa perché fatta di uomini immondi che vivono nell’odio e nel peccato e non sono coloro che si proclamano i soldati di Dio a poter decidere e giustiziare il mio corpo esanime, non saranno questi a rifiutare le mie esequie (…). Il rapporto con Dio è personale, non vuole intermediari e soprattutto non vuole alcun esecutore terreno. Gli anatemi sono espressioni umane non certo di chi è solo spirito e perdono. Sono io in piena coscienza e scienza che rifiuto tutto ciò perché ritengo che il mio rapporto con la fede è puro, spirituale e autentico, non contaminato e politicizzato. Dio sarà la mia giustizia, il mio perdono, la mia spiritualità».

Anche la mafia, insomma, si è secolarizzata. Certamente, sullo sfondo delle parole del boss, traspare la consapevolezza della condanna del suo operato da parte della Chiesa – «non saranno questi a rifiutare le mie esequie» –, ma, invece di minimizzarla e di rivendicare malgrado tutto l’appartenenza alla comunità ecclesiale, come tanti mafiosi prima di lui, egli conferma la sua estraneità ad essa, dandone addirittura una giustificazione sul piano teologico: «Il rapporto con Dio è personale, non vuole intermediari (…). Gli anatemi sono espressioni umane non certo di chi è solo spirito e perdono (…). Dio sarà la mia giustizia, il mio perdono, la mia spiritualità».

«Buoni cristiani»

L’importanza di questa svolta può sfuggire a chi non ha presente la lunga storia di compenetrazione tra la mafia e una religiosità popolare che la Chiesa solo col tempo è riuscita a purificare. Fin dalla seconda metà dell’Ottocento si era determinata una specie di coabitazione, anche sull’onda della comune reazione nei confronti del modello di legalità imposto dal nuovo Stato unitario e di una politica verso il Sud che, a volte, aveva assunto i toni della colonizzazione.

Questa simbiosi si era manifestata nell’ampia utilizzazione, da parte dei mafiosi, di simboli e rituali cristiani, così come in un’assidua partecipazione a funzioni e processioni, nella sponsorizzazione di feste religiose, nella stretta rete di rapporti personali. Calogero Vizzini, capomafia di Villalba e presunto capo della mafia siciliana, aveva due fratelli sacerdoti (uno dei quali fu anche vicario generale), con uno dei quali abitava; uno zio parroco; un altro zio vescovo e un cugino anch’egli vescovo.

Solo a partire dal 1973, grazie alle forti denunzie del vescovo di Palermo, il card. Salvatore Pappalardo, la Conferenza episcopale siciliana ha espresso e rinnovato, con estrema chiarezza, la sua condanna del fenomeno mafioso, culminata, nell’autunno del 1982, con la esplicita scomunica nei confronti degli autori di crimini di stampo mafioso. E poi c’è stato, nel maggio del 1993, l’appassionato grido di Giovanni Paolo II, nella Valle dei templi di Agrigento, in cui chiedeva ai mafiosi di pentirsi e di rinnegare la cultura della morte per abbracciare quella della vita.

A sancire questa rottura è venuto, nel settembre dello stesso anno, l’assassinio di don Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio – poi proclamato beato nel 2013 – ucciso dalla mafia per il suo impegno di educatore dei giovani e di promotore di una convivenza più umana in un quartiere degradato della periferia palermitana.

Ma tutto questo non aveva impedito che i mafiosi continuassero a sentirsi buoni cristiani. Alla loro morte si trovava sempre una Bibbia sul loro comodino e immagini di santi tutto intorno. E ancora nel 1997 un frate carmelitano, parroco a Palermo, padre Frittitta, era stato arrestato perché aveva più volte accettato di recarsi, in occasione delle solennità religiose, nel covo del killer latitante Aglieri, che ci teneva molto ad avere celebrata l’eucaristia. Residui di una pastorale più attenta alle devozioni rituali che all’effettiva coerenza evangelica della vita.

Una buona notizia

Alla luce di questa storia si può capire perché la svolta costituita dalla decisione di Messina Denaro di rifiutare i funerali col rito cattolico sia una buona notizia. Essa segna il definitivo superamento di un equivoco che per troppo tempo ha gravato sulla comunità cristiana della Sicilia e non solo su questa. Contrariamente a quanto alcuni autori hanno sostenuto, è ormai inequivocabilmente chiaro che la logica della mafia – incentrata sulla gestione di un potere illimitato di vita e di morte sulle persone – non è intrinsecamente legata alla struttura ecclesiale in quanto tale.

Essa se ne è solo servita per i suoi scopi, all’interno di un particolare clima storico e culturale, ma ormai ne prescinde e, anzi, le si oppone. E si capisce. Perché, in verità, è più facile autogiustificarsi – come fa Messina Denaro (e non solo lui) – trincerandosi in un individualismo e in un soggettivismo assoluti, piuttosto che rendendo conto a una comunità che, quali che siano le colpe e le miserie dei suoi membri, è ancora in grado di avere il senso del proprio peccato e di chiedere perdono per esso.

Quando si scorrono i comunicati della Conferenza episcopale siciliana (CESI), si nota – osserva uno dei più attenti e documentati studiosi del problema – «la frequenza con cui a partire dal 1973 i vescovi siciliani, sotto la presidenza dell’arcivescovo Salvatore Pappalardo, segnalarono senza eufemismi il male della mafia nella realtà siciliana» (F.M. Stabile, «Chiesa e mafia», in U. Santino [a cura], L’antimafia difficile, Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 1989).

È troppo nota, per doverla qui ricordare minuziosamente, l’opera di denunzia svolta dal suddetto cardinale di Palermo, Salvatore Pappalardo, negli anni ottanta del secolo scorso.

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3 Commenti

  1. Piras Romano 29 settembre 2023
  2. PIRAS ROMANO 28 settembre 2023
  3. Fabio 28 settembre 2023

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