Marion e i fenomeni saturi

di:

marion

I fenomeni saturi sono quelli, il cui contenuto intuitivo supera, sporge e tracima rispetto alle categorie intuitive che lo dovrebbero accogliere ed elaborare. I nostri concetti, le parole, le congetture e le forme teoriche sono più povere della materia, che ci urta e colpisce.

Per Marion, accademico di Francia e premio Ratzinger nel 2020, tali fenomeni sono quelli in cui risulta chiaro che la coscienza soggettiva non soltanto è più debole rispetto al dato che la impressiona, ma che il suo ruolo si limita a quello di un testimone, il testimone di una sproporzione.

Vengono in mente le parole di Kant sul sublime: prima che lo strapotere della natura ammutolisca e spezzi l’uomo vulnerabile, quest’ultimo riesce a percepire la propria inerme grandezza e la propria inarrivabile natura razionale, la dignità del proprio obbedire a un imperativo incondizionato, la fierezza che niente potrà annichilire.

L’esplosione del fenomeno grandioso ha un aspetto così fecondo e positivo, che la rivelazione del Dio cristiano, se si può ipotizzarla almeno come un evento possibile sul piano filosofico, ci si offre (offrirebbe, offrirà) nella forma di un fenomeno saturo speciale, che seduce, dà a pensare, invita a una perenne interpretazione.

Già a questo proposito, a dire il vero, i critici di Marion (e anche il sottoscritto, in Ci ha Dio. In dialogo con Marion, Venezia, Marcianum Press, 2024) domandano se non sia in gioco un doppio pregiudizio. Marion risponde di no e lo argomenta.

Donarsi

Primo presunto pregiudizio è l’impiego dell’espressione positiva “donarsi” invece che semplicemente “darsi” (come ci consente di precisare la lingua italiana), poiché il francese “donner” significa dare, donare, regalare. Facile svoltare verso la teologia: se il dato è un dono, chi c’è (o meglio, chi dona) prima del d(on)ato? Chi opera dentro di esso e dopo di esso, chi resta pronto a dirci ancora di sé nei dati che ci assediano?

Forse dovremmo dire: dati che ci “ad-vengono”, come nel periodo d’attesa dell’Avvento, in cui Dio ci si mostra come quel non-visto in crescita che vive nel grembo di una donna, da cui l’entourage si prepara a ricevere un dono, una benedizione e un compito: un bambino appunto.

E in effetti le pagine più belle di questo libro marioniano sono quelle sulla nascita (pp. 84 ss), su quel fenomeno, che invece lo “das Sein zum Tode”, l’essere per la morte privilegiato dalla filosofia al maschile (i maschi non “fanno” la gravidanza, almeno per ora),  ha stoltamente svalutato. È tempo dunque di celebrare l’essere per la nascita (das Sein zur Geburt).

Nascita non è ciò che sta dietro di noi, come l’istante in cui non c’eravamo consapevolmente, ma è il segreto che poco alla volta si rivelerà al nato attraverso le parole e i gesti di chi c’era. Nascita è un fenomeno in costruzione, in progress, è davanti a noi come la seconda nascita dall’alto e dall’altro che scandalizzava il leader farisaico Nicodemo in Gv 3.

Torniamo al d(on)ato. Marion risponde che la lingua francese è così com’è e siamo noi (che separiamo dato da dono) ad essere ingenui e banali. La fenomenologia non intende costringere Dio a rivelarsi in un modo solo, obbligatoriamente. Dio infatti, secondo Barth (e Marion lo segue anche senza citarlo), si rivela da sé, come e quando vuole, perché Dio è Dio.

Ma quando Dio si rivela (teologia rivelata) o quando immaginiamo che l’Amore si possa mostrare (teologia razionale, o filosofia cristiana), egli/esso/ella (il genere nominale di Dio non si pronuncia) non ci darà semplicemente informazioni astratte su di sé, ma innescherà un incontro in cui la nostra postura personale non potrà che traballare e trasformarsi grazie a un sovrappiù di senso sino allora imprevedibile.

Quindi il riscontro del “dato” esige dall’osservatore un impiego inedito delle strutture linguistiche, perché esso non fornisce mere conoscenze, ma esercita una pressione etica. Chi lo attesta decide di sè, sceglie se mettersi nella mira giusta per vedere la verità della manifestazione, o se invece ritrarsi, bloccarsi alla percezione ordinaria delle cose, quella che le scienze e l’ontoteologia raccomandano implacabilmente.

Riduzione e donazione

L’altro dubbio (chiamarlo aporia o contraddizione sarebbe eccessivo, poichè Marion preferisce lavorare sul “paradosso”, come faceva Kierkegaard) è che forse Marion pretende troppo da sé, quando riconduce tutta la fenomenologia al principio “tanta riduzione, quanta donazione”, posto che la riduzione sia mettere tra parentesi le ovvietà, i luoghi comuni, i risultati dei saperi tecnici, gli oggetti degli studi specialistici naturalistici o umanistici, e persino Dio.

Da Dio Husserl voleva metodicamente astrarre, per evitare contaminazioni di fede. Marion lo interpreta nel modo seguente: se il dato, adeguatamente ridotto, dona ciò che dona, sottraendosi a qualsiasi presupposto ideologico, allora la riduzione non implica necessariamente un esito a-teologico.

Stiamo dunque alle cose stesse. Tra le cose stesse, che ogni giorno ci si mostrano (se riescono a farsi vedere, uscendo dal non-visto e offrendosi a noi), ce ne sono di povere e di ricche e alcune sono così ricche, che non solo cadono sul nostro “schermo” coscienziale (una metafora filmica che Marion esplora a p. 94), ma lo costituiscono e fanno di noi (inattivi fino allora) spettatori presenti, operai al lavoro, martiri laboriosi (in senso greco, la metafora è nostra), che adeguandosi al fenomeno, “resistendo” al fenomeno (come il filo che fa resistenza all’elettricità e proprio così la trasforma in energia termica), ne inseguono la comprensione, che è sempre parziale e reciproca.

Se il dato è un donato, noi diventiamo “adonati” (il termine è dell’autore), donati a noi stessi da ciò che riceviamo. È un accadimento bidirezionale. Mentre il vedere modifica il vedente, quest’ultimo tramuta l’in-visto in visto. Ciò che un artista genialmente rappresenta, lo può fenomenizzare perché egli ha “resistito” a una donazione che ha distrutto o accecato gli apparati percettivi dei comuni spettatori.

Possibile? Abbiamo altrove insinuato che la “fenomenologia” del filosofo/teologo Marion sia in realtà un’ermeneutica al servizio della filosofia pratica. E non sia quindi propriamente una fenomenologia, poiché il fenomeno lo si descrive e il testo giuridico o religioso invece lo si interpreta.

Appunto. Marion interpreta. Chi pensa, lavora sempre su forme di noema (contenuti pensati e da pensare) tuttora informi, che somigliano a oracoli impalpabili come il nostro titolo prima citato “Ci ha Dio”, oppure come “qualcosa è” (i neotomisti partono da qui, per edificare il loro edificio), oppure come “il dato ci si dona, nella misura in cui è ridotto, anche non sempre ciò che si dà si fa vedere” (l’oracolo che la sfinge di Marion gli ha sottoposto).

Con Derrida, sosteniamo che la fenomenologia, sin dai tempi di Husserl, non è padrona in casa propria, perché sul suo sgabello siede già un’ontologia e l’ontologia lascia sempre segni e impronte della storia originaria che l’ha preceduta.

Filosofia prima

La filosofia prima, per Marion, non è lo studio sul dio separato, immobile, impassibile; non è la dottrina della sostanza o dell’essenza; non è gnoseologia o pensiero del pensiero e nemmeno discende dall’adozione universale della categoria di causa (pp. 34 ss.).

Il primo passo dentro la filosofia non si fa seguendo il cammino di un io trascendentale, che non dubita del proprio cogito in quanto ha amputato i suoi preziosi caratteri affettivi, relazionali, corporei (Marion suggerisce di non tradurre Leib “corpo proprio” ma “carne” – p. 147).

La filosofia prima è la fenomenologia rivisitata da Marion: ciò che è intuìto, ridotto, custodito nei suoi limiti, è cogente, vale cioè come sorgente legittima di conoscenza. Eppure Marion, così facendo, si espone da sé a una contestazione. Infatti se il primo vissuto, non ulteriormente riducibile, fosse di “colpa”, che fenomenologia sarebbe?

Se il dato originario coincidesse col sentirsi debitore di qualcuno (senza sapere ancora di chi e in merito a che cosa), che conclusioni dovrebbero trarsi? Non sappiamo quando abbiamo mentito e spergiurato, ma ci percepiamo come spergiuri incapaci di donare e perdonare. Non avrebbe forse questa evidenza primitiva levinasiana un sapore squisitamente etico?

In opposizione a Marion, Derrida (il suo grande antagonista sulla scena francese) direbbe che siamo necessariamente davanti a tracce, come quelle dell’archeologo che leva la sabbia da un reperto; può darsi che trovi segni ricorrenti di una lingua arcaica che esprimono e ci lasciano un messaggio attraverso i secoli; oppure sono nient’altro che artefatti prodotti dall’usura del vento che soffia sulla pietra e così produce segni inespressivi, indici, indizi utili per spiegare ma non per comprendere né per regalare un senso.

Il senso semmai glielo attribuisce l’archeologo. Di per sé sono solo tracce di altre tracce, perché rinviano a eventi irrecuperabili, a oggetti spezzati dei quali troviamo meri frammenti. Ciò cui servivano aveva un’identità complessa ora disseminata, perduta, contaminata da impieghi eterogenei.

 Di qui il pessimismo che sembra estraneo al teologo Marion e che invece quest’ultimo dissimula. Chi dà, chi dona potrebbe essere un Avversario, che ci tenta e trascina negli inferi regalandoci spettacoli avvincenti. Chi reclama la nostra attenzione, ci guarda negli occhi e invoca aiuto, è forse una maschera dietro la cui pupilla non c’è alcuno sguardo, ma fori di altri fori.

Noi speriamo che parli di verità, ma solo speriamo (come commentava san Paolo scrivendo ai Romani), perché non vediamo. Sentiamo un gemito, quello della creazione che sta partorendo, e avvertiamo il nostro stesso gemito, che vi corrisponde. Ma come nel film Rosemary’s Baby di Polanski, 1968 (quando Marion ci regalerà la sua teologia del cinema come danza di fenomeni, come pitture in movimento?) il prodotto del concepimento potrebbe avere un nastro rosso. La parusia tarda a venire.

Ermeneutica

Per tornare alla differenza tra la fenomenologia e l’interpretazione, Marion ammette in una nota (p. 74) che “Il dibattito non riguarda la necessità di un’ermeneutica, cosa che è fuor di questione almeno a partire da Heidegger e Gadamer, ma la sua legittimità fenomenologica, che è meglio garantita da alcuni dei fenomeni saturi”. Replichiamo domandando: “meglio” o “soltanto”?

Marion accetta il contributo dell’ermeneutica ma respinge la sua originarietà. La vede come una delle declinazioni successive della fenomenologia dei fenomeni saturi, nei quali si osserva ingrandito e amplificato ciò che avviene sempre quando un dato (anche povero, anche comune) si mostra almeno un po’.

Ma l’ermeneuta replicherebbe che noi abbiamo sempre a che fare con simboli, anche quando presumiamo di descrivere soltanto. Abbiamo a che fare con rinvii a un senso ulteriore e non con apparizioni definitive.

Lo si vede bene nella prassi artistica. Ciò che stiamo disegnando non è una riproduzione della “natura” fenomenica ma una reinvenzione creativa di ciò che il dato significa per noi. Siamo sempre co-autori, siamo sempre gettati in/su una scena narrativa primaria (una storia dell’origine, come l’abbiamo chiamata) anche quando vorremmo trasformare il teatro in una recita allegorica o in pulpito che declama verità dottrinali.

Riduzione e potere

Con ciò siamo autorizzati, come suoi lettori/allievi, ad alzare il tiro della critica: chi decide che cosa ridurre, dato che l’epochè non è mestiere per tutti e nessun principio elaborato dai fondatori della fenomenologia sembra più funzionare, secondo il pensatore francese?

E poi, colui che decide non è forse lo stesso che ha reputato (cioè valutato, cioè interpretato) interessante e genuino ciò che non si lascia (o non si vuole) mettere tra parentesi? Ma allora come può riceversi dal dato il testimone che lo maneggia, rielabora, prepara, espone a uno sguardo più analitico? Egli forse è più che un testimone, è un artefice di ciò che anche grazie a lui viene alla vista!

Non solo. È arduo far tesoro della lezione di Levinas (come brillantemente fa Marion) senza ereditarne il primato dell’etica. Sotto sotto, anche per Marion la filosofia prima è quella morale: il d(on)ato non è che l’effetto linguistico di un’irruzione d’altri: lo sguardo altrui ci ingiunge di non ucciderlo, almeno di non ucciderlo, ma più a fondo di averne cura (anche non uccidendolo), lasciandoci risucchiare dalla sua irriducibile, insostituibile, unica esistenza (infinita e non totale, intercettata ma non posseduta, obbedita e non calcolata).

Prima di vedere teoricamente e per teorizzare sull’identità del mondo, noi “serviamo”, noi ci immergiamo nell’esperienza pratica in cui rispondiamo all’appello di chi ci desidera e rispondiamo al modo di Samuele svegliato dal sonno: eccomi, parla, ti ascolto!

***

In sovrappiù, uscito ora in italiano per l’encomiabile impegno di Inschibboleth e per l’impeccabile cura di Francesca Peruzzotti, purtroppo 24 anni dopo il parto francese, è per noi il pilastro centrale del ponte che si stende tra Dato che (ed. or. 1997) e Da altrove (ed. or. 2020).

Marion ha l’agio di far l’anatomia dei quattro tipi di fenomeni saturi: l’evento, l’idolo-il quadro, la carne, l’icona – il volto altrui, e di intenderli e combinarli come quattro aspetti della rivelazione cristiana, in cui emerge nella sua piena, dispiegata, imprendibile energia, quella forma (Balthasar direbbe “Gestalt e Balthasar è per Marion il caso serio, ma raro, di un teologo che legge fenomenologicamente gli eventi scritturali – p. 67), di cui ogni altra forma è l’eco. Conosciute la parole chiave dell’autore, il testo In sovrappiù si legge d’un fiato, e quando lo si legge la seconda volta, per scriverne una recensione, si gusta il talento dello scrittore. Qualche aiuto dunque al lettore.

  1. l’evento non è riproducibile ed è ben più della somma delle parti che lo costituiscono: la sala di una conferenza (pp. 73 ss.) è l’evento-incontro (visto in prospettiva spaziale) con la parola del conferenziere e non solo le quattro pareti dell’edificio (la mera causa materiale, secondo la scolastica). Evento è la nascita, un evento che si dà a noi e struttura il nostro tempo, anche se non ci si può propriamente mostrare, e così ci fa curiosi di tutte le esuberanti intuizioni (le infinite parole degli altri su di noi) a proposito del come, quando e perchè siamo venuti al mondo.
  2. l’idolo è quel tipo di fenomeno saturo che accentra su di sé l’attenzione coscienziale. La categoria kantiana in gioco è la qualità. L’idolo abbaglia e mi rivela la forza percettiva di cui dispongo, rivelandomi chi sono, attraverso la decifrazione di ciò che ammiro come meritevole di esser visto. Qui Marion ammette che i confini fra etica ed estetica sfumano (p. 110 – e noi commenteremmo: anche quelli tra fenomenologia ed ermeneutica del bene), poichè pittura e letteratura compiono scelte etiche e recano la responsabilità del loro potere ammaliatore. La cornice, aggiunge Marion fattosi teorico del bello, riduce l’oggetto al presentabile e così il substrato fisico dell’opera perde le funzioni di sostanza e meccanismo. In Ci ha Dio avevamo indicato che questo è un punto debole: Marion si limita al paradigma della pittura tradizionale, ma l’arte cinetica invita a usare ancora l’opera come una macchina programmabile e proprio nel fruirne come macchina emerge il rimando all’aboutness, al significato estetico dell’opera. L’arte d’oggi ha rinunciato alla cornice e anche la disamina marioniana delle strisce di colore in Rothko evidenzia che l’opera costruisce da sè la propria materia (tela e cornice comprese) grazie all’incontro con chi la immagina o la contempla. Non solo, l’opera inghiotte (come ogni idolo) chi la venera e gli nasconde ciò che esubera dalla piatta facciata. La nota 37 di p. 134 è a nostro avviso opinabile: la pittura ha veramente messo a morte l’umano? In realtà, oltre a Giacometti e Rouault, l’estetica analitica ha documentato la fecondità di molte altre linee neofigurative.
  3. nella carne si mostra ciò che siamo come vita corporea. Ebbene c’è carne, ossia c’è sentire/sentirsi originario, già nella res cogitans cartesiana. In argomento Marion (grande esperto di Descartes) sbaraglia le vecchie letture dell’ego: il corpo senziente è anteriore alla cogitatio. Nella sofferenza, nel piacere, nell’invecchiamento, non posso prendere congedo dalla carne-che-sono. Leggiamo con piacere le frasi anti-doloriste e anti-mortaliste di Marion (con buona pace di certe teologie della croce): i segni involutivi della senescenza sono malattia e meritano la nostra resistenza morale. La carne sottrae la nostra esistenza personale a ogni facile analogia con vissuti d’altri. Godo e soffro in modo unico e davanti a Dio io “sto” in modo unico. Prima di parlare di sé come un altro (Ricoeur) e di mitizzare lo scambio empatico, dovremmo andare a lezione dalla “pelle”, dal tatto, come suggeriva lo psicoanalista Anzieu ne L’Io-pelle (a volte gli psicoanalisti fanno tesoro della fenomenologia più dei filosofi spiritualisti). Infine, anche per l’Incarnazione vale che l’auto-affezione (Gesù che si pensa e sente come Figlio dell’uomo) è singolare e la fede di Gesù nel Padre non può essere mimata.
  4. l’icona esemplifica il fenomeno saturo secondo la categoria della modalità: mentre l’io guardo l’icona, quest’ultima mi vede ed esige di essere vista secondo categorie personali, non oggettivanti. Non è in gioco solo l’appresentazione (immagino i lati attualmente non visti della “cosa”, che contemplo da una prospettiva inevitabilmente limitata). Si tratta anche dell’influsso che il fenomeno ha sulla visione, quando esso sollecita e poi seleziona certe ottiche tra le altre, inducendo certi conferimenti di senso fra i molti possibili. Peruzzotti traduce a p. 175 con frase indimenticabile: “ il fenomeno…occupa il visibile solo ricacciando nell’invisto lo spettro di altri bagliori”. L’idolo ci rimpiccioliva. L’icona del volto (Levinas docet) si sottrae alla vista perché nel corpo espressivo dell’altro (il volto e l’occhio sono le propaggini simbolicamente privilegiate ma non sono necessarie materialmente), questi si smarca dal mio vedere. La libertà non si vede. E’ “troppo” per vederla, tanto che posso fingere, colpevolmente, che non ci sia. Solo quando mi decido a servirla, quando le do una chance, allora essa mi si “mostra” come l’infinito noema che sommerge ogni mia noesi (p. 185).

***

Quei bioeticisti, che deducono le norme specifiche a partire da una definizione (univoca e reiterabile) della natura dell’uomo, sono destinati a fraintendere l’appello che altri singolarmente eleva con voce propria, in una storia sua, urlando il suo desiderio, spendendosi per la sua fede.

I teologi morali, che hanno imposto una (una sola) dottrina del discernimento e che quindi si scandalizzano delle molte ermeneutiche che vibrano nella vita dell’ecclesia, leggano le pagg. 194 ss.: l’identità dell’altro (che funge da principio regolatore ultimativo di ogni regola morale che riguardi l’agire) si vede solo guardando le cose a partire dalla redenzione, attraverso il prisma del regno, alla luce dell’”attesa escatologica della manifestazione di Cristo” (p. 195). Ne consegue, kantianamente, che occorrerebbe essere immortali per continuare a guardare, amare e interpretare il volto d’altri come esso merita.

Fa pensare anche l’ultimo capitolo, il sesto, dedicato alla teologia “mistica” e ai suoi tre momenti: affermazione, negazione e iperbole. Marion riabilita il processo apofatico, che pensa un attributo di Dio per negarlo (come altamente dissimile dal vero) e semmai riproporlo in versione iperbolica (un minimo di somiglianza, ma tanto amplificata da non riuscire a capire qualcosa di chiaro del referente divino).

L’originalità del procedimento, sostiene Marion, non è la sua pretesa conoscitiva, ma la sua dimensione performativa. Il procedimento non conduce infatti a una teoria ma alla preghiera. Per Dionigi Aeropagita nemmeno il nome di “Uno” o “Bontà” possiamo attribuire a Dio; possiamo invece innescare (negando) un’altra funzione della nominazione, che non è predicativa ma pragmatica. Con essa si va verso e dentro l’amore/bontà, per lodarne il mistero.

Quindi, contro Derrida, la teologia “negante” non ripropone, camuffandola, né la metafisica della presenza, né l’ontoteologia, né l’ontologia causale, né l’intuizione eidetica. Il nome proprio di Dio è solo indicato, rinviato, intravisto, mai manifestato, bensì vissuto come strumento di uno stare-con, mettersi all’ascolto-di, chiedere-a. Non si definisce Dio, lo si interpella con fiducia in risposta al suo appello.

Se Dio si rivela dandosi un nome, lo fa per proteggere la sua innominabilità. Dio si dà a noi come quel fenomeno saturo, che congiunge i quattro diversi aspetti della saturazione e che è in sovrappiù rispetto a ogni nostro concetto o capacità intenzionale. Perciò la nostra decisione di rapportarsi a Dio comporta stupore, tremore, fascinazione, viaggio di nome in nome, spinti e attratti dal “Nome” che ci nomina.

***

Marion replica adeguatamente alle critiche inizialmente rivoltegli? Marion propone una giusta mira teologica? Molti risponderebbero di no. La fede sa (poiché la fede implica anche un sapere e non si riduce a un credito sciocco e ignaro), sa di non conoscere compiutamente ciò che crede e sa che deve credere, per conoscerlo meglio (credo ut intelligam). La fede teme il rischio di isterilirsi in un vago investimento affettivo o in una devota postura orante o in un generico deismo neoilluminista. Perciò la fede fa domande.

Chi nomino come Dio mentre lo prego? E che cosa intendo per Dio, mentre lo appello con uno dei nomi che il linguaggio rende disponibili? O la fede in Cristo cerca un’intelligenza (fides quaerens intellectum) o non è fede cristiana. Ed è contenuto essenziale della fides quae la buona notizia che ciò che si cercava indistintamente (oppure ci si rifiutava di cercare) si è fatto trovare, è stato rivelato dalla sua icona definitiva, il Figlio incarnato.

Partendo dalla prospettiva che quest’ultimo ha incorporato, vissuto in gesti e predicato in parabole, i nomi antichi di Dio assumono nuovi significati che Gesù invita ad adottare, nella preghiera, come attributi di un “amante”: l’alleato, il padre, l’amico, l’Adonai, il liberatore, il paraclito.

L’apofasi stessa può diventare eresia, se non ammette che Dio rivendica a sé l’imprevedibile prerogativa di comunicarsi a noi con nomi privilegiati e con figure indiscutibili: avete fatto questa buona cosa a un piccolo? Ebbene l’avete fatta a me!

  • Jean-Luc Marion, In sovrappiù. Studi sui fenomeni saturi, tr. it., intr. e cura di Francesca Peruzzotti, Roma, Inschibboleth, 2025, pp. 264, euro 20, tit. or. De surcroît. Études sur les phénoménes saturés, 2001.
Print Friendly, PDF & Email
Tags:

Un commento

  1. Angela 3 luglio 2025

Lascia un commento

Questo sito fa uso di cookies tecnici ed analitici, non di profilazione. Clicca per leggere l'informativa completa.

Questo sito utilizza esclusivamente cookie tecnici ed analitici con mascheratura dell'indirizzo IP del navigatore. L'utilizzo dei cookie è funzionale al fine di permettere i funzionamenti e fonire migliore esperienza di navigazione all'utente, garantendone la privacy. Non sono predisposti sul presente sito cookies di profilazione, nè di prima, né di terza parte. In ottemperanza del Regolamento Europeo 679/2016, altrimenti General Data Protection Regulation (GDPR), nonché delle disposizioni previste dal d. lgs. 196/2003 novellato dal d.lgs 101/2018, altrimenti "Codice privacy", con specifico riferimento all'articolo 122 del medesimo, citando poi il provvedimento dell'authority di garanzia, altrimenti autorità "Garante per la protezione dei dati personali", la quale con il pronunciamento "Linee guida cookie e altri strumenti di tracciamento del 10 giugno 2021 [9677876]" , specifica ulteriormente le modalità, i diritti degli interessati, i doveri dei titolari del trattamento e le best practice in materia, cliccando su "Accetto", in modo del tutto libero e consapevole, si perviene a conoscenza del fatto che su questo sito web è fatto utilizzo di cookie tecnici, strettamente necessari al funzionamento tecnico del sito, e di i cookie analytics, con mascharatura dell'indirizzo IP. Vedasi il succitato provvedimento al 7.2. I cookies hanno, come previsto per legge, una durata di permanenza sui dispositivi dei navigatori di 6 mesi, terminati i quali verrà reiterata segnalazione di utilizzo e richiesta di accettazione. Non sono previsti cookie wall, accettazioni con scrolling o altre modalità considerabili non corrette e non trasparenti.

Ho preso visione ed accetto