Perdere la terra, perdere l’anima

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latour

Presentiamo la recensione di un recente – e crediamo molto interessante – libro di Bruno Latour: Chi perde la terra perde la propria anima. Il volume tradotto e curato da un gruppo di ricerca tra Bologna, Firenze e Torino. Sarà presentato alla Fiera del libro di Torino venerdì 16 maggio alle ore 16.

L’ultimo libro di Bruno Latour prova ancora una volta a spiegarci come e perché dobbiamo occuparci della nostra madre terra, tornando ad abitarla in maniera finalmente concreta e generativa. Rimanere responsabilmente dentro la crisi ambientale, potrebbe portare a benefici inattesi anche per la predicazione cristiana e la genesi di una chiesa all’altezza dei tempi.

Il punto iniziale del libro riguarda il doppio grido che l’umanità intera dovrebbe ascoltare: quello dei poveri e quello della terra. Latour si sofferma su alcuni passaggi cruciali della Laudato si’, in particolare il n° 49, e da lì parte per definire un nuovo modo di comprendere i viventi. Lì si collega il tema delle disuguaglianze e della povertà con la crisi ambientale, mostrando come pure la Terra soffra ed agisca Latour afferma: “Improvvisamente, con la crisi ecologica, il cosmo s’impone con una intensità straordinaria, ai cristiani come a tutti gli altri” (p. 33).

Vale, quindi, la pena evidenziare una riflessione della LS per approfondire questa sinfonia terrificante dei due gridare. Infatti, si lancia il tema del debito ecologico in LS 51-52 e lo si riprende solennemente per il Giubileo 2025 e la Giornata Mondiale per la pace del 2025. Tale espressione ricorre molte volte e la frequenza di tale ricorrenza è stata via via più serrata.

Il concetto è molto semplice: sappiamo da molti anni (in particolare dal Giubileo del 2000) che esiste un debito estero economico-finanziario che tiene i paesi più poveri in una condizione di neo-colonizzazione da parte dei paesi più ricchi. Ma l’ambiente e le sue risorse sono diventate strumento per la crescita dei paesi più ricchi, ma anche strumento di ulteriori povertà per i più poveri: essi, di fatto, hanno venduto loro stessi attraverso lo strumento del debito estero.

Con il debito qualcuno si è venduto; e si è venduto anche le prospettive di futuro, soggiogandosi al controllo di altri. Si impone il dovere di studiare come l’ambiente è parte in causa di questi processi e chi siano i responsabili.

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Il passaggio successivo è comprendere che il più povero di tutti è il creato: non può parlare, non può esplicitamente protestare, non può votare. Chi deve essere risarcito, nella maniera più radicale possibile, è proprio l’ambiente. Con lui tutti noi, ma in particolare i più potenti, siamo in debito. In una famiglia vera nessuno è creditore e nessuno è debitore perché siamo sulla stessa barca; si potrebbe dire: siamo tutti fratelli. Occorre costruire una sola famiglia umana, ma che sia allargata all’ambiente che deve essere uno spazio di umanizzazione, cioè di cura, compassione, misericordia.

L’ambiente ci insegna a fare politica, a generare una nuova economia: “L’economia e la politica, la società e la cultura non possono essere dominate da una mentalità del breve termine e dalla ricerca di un immediato ritorno finanziario o elettorale. Esse devono invece essere urgentemente riorientate verso il bene comune, che comprende la sostenibilità e la cura del creato. Un caso concreto è quello del “debito ecologico” tra il Nord e il Sud del mondo (cfr LS, 51-52).

Occorre ascoltare il grido della Terra per generare un nuovo futuro. Il tempo giubilare ci viene in aiuto, soprattutto se lo teniamo nella sua reale prospettiva biblica, dove anche alla terra è promesso il tempo del riposo, per riparare, per guarire le ferite del creato, per avviare una giustizia riparativa.

Il sano contatto con l’ambiente ci ricorda che abbiamo bisogno di riscoprire il valore del limite, come occasione di dono e gratuità e come occasione per ripensare le strutture portanti della nostra vita: “Vedo uno stile di vita che non si prende abbastanza cura dell’ambiente. Ci si è abituati a consumare e a distruggere senza ritegno ciò che appartiene a tutti e va custodito con rispetto, creando un “debito ecologico” a carico anzitutto dei poveri e delle generazioni future.”

La prospettiva ultima, inoltre, deve essere la pace: “Come insegna la Sacra Scrittura, la terra appartiene a Dio e noi tutti vi abitiamo come «forestieri e ospiti» (Lv 25,23). Se veramente vogliamo preparare nel mondo la via della pace, impegniamoci a rimediare alle cause remote delle ingiustizie, ripianiamo i debiti iniqui e insolvibili, saziamo gli affamati”.

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L’ambiente è come sentinella, che avremmo dovuto ascoltare già molti anni fa. Ora, sperando che non sia troppo tardi per l’umanità, questa ultima vedetta pare aver cambiato linguaggio. Non è più un serie di moniti quasi sussurrati, ma una serie di eventi capaci di raccontare che siamo sull’orlo dell’abisso. Non riusciamo, però, a liberarci da questa gabbia in cui l’ambiente non ha possibilità di diventare attore, agente.

Vorrei rilanciare la traiettoria dell’ambiente come attrattore politico aggiungendo ai celeberrimi quattro principi di papa Francesco un quinto, collegandomi alle parole molto care a Bruno Latour: Antropocene e Gaia. Si potrebbe, così, provare a dire che Gaia è superiore all’Antropocene. Ma chi sono questi “personaggi”?

Antropocene è l’ipotesi di un nuovo nome da assegnare, dal punto di vista geologico, all’era in cui stiamo vivendo; l’agire dell’uomo è stato talmente capace di impattare sull’ambiente che anche la stratificazione delle rocce (oltre ad altri parametri) racconta una discontinuità che merita di conferire una nuova denominazione al tempo in cui noi stiamo vivendo: “per la prima volta nella geostoria, gli umani erano sul punto di essere ufficialmente riconosciuti come la forza più importante nel dar forma alla Terra”. Tuttavia, la parola Antropocene rischia di mettere tutti sullo stesso piano.

Non tutti possono essere considerati responsabili del cambiamento geologico allo stesso modo: gli abitanti dell’Amazzonia non contribuiscono allo stesso modo come i cittadini Usa. Chi è il protagonista di questo cambiamento d’epoca? Né le scienze naturali né le scienze sociali, separatamente, possono raccontarlo: “in un solo movimento l’Antropocene riporta in scena l’essere umano e dissipa per sempre l’idea che esso sia un grande agente storico unitario.

Per questa ragione userò la parola anthropos per definire un’entità che non è più ‘l’umano-nella-natura’ né tantomeno ‘l’umano-fuori-dalla-natura’, […] bensì un nuovo corpo politico non ancora nato […] involontariamente divenuto il nuovo agente della geostoria”[1]. E per arrivare a questo scopo, rifiutata l’ipotesi che si stia cercando l’antropocentrismo più radicale, occorre che l’umanità, “come concetto universale, sia scomposta in molteplici popoli distinti, dotati di interessi contraddittori, di mondi divergenti e convocati sotto gli auspici di entità di guerra – per non dire di diversità in guerra. L’anthropos dell’Antropocene? E’ Babele dopo la caduta della torre gigante!”.

La frantumazione che l’ipotesi Antropocene pone, non può essere sanata, ricomposta riprendendo il concetto universale, unificante e distaccato di Natura; per questo occorre un nome nuovo per definire l’ambiente che è Gaia, “che altro non è che un nome per tutte le conseguenze interrelate e imprevedibili di una serie di agency ciascuna delle quali persegue il proprio interesse manipolando il proprio ambiente per il proprio confort – con la conseguenza che alcuni organismi finiscono così per operare una retroazione negativa e imprevista sullo sviluppo di certi altri”.

Cosa significa che Gaia è superiore all’Antropocene, quindi? Non significa che ogni azione umana deve essere condannata a prescindere, ma che ogni decisione politica deve portare a unificare la dispersione di Babele attraverso la ricomprensione e la ricomposizione di tutti i movimenti, le reazioni che Gaia ci offre. Significa che, a livello politico ed economico, lo sviluppo desiderato deve partire dalla suscettibilità di Gaia, tenuta sotto traccia per secoli, ma ora divenuta una profonda irritabilità, per conferire unità (e se vogliamo possiamo dire fraternità) alla frantumazione che l’Antropocene ci pone davanti agli occhi. Significa assumere il dolore di Gaia per riprogettare la politica e ricostruire l’unità del genere umano.

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Alcune parole importantissime della Scrittura possono essere ripensate: “il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2,15). Il libro della Genesi ha favorito molte forme di antropocentrismo; nessuno discute la centralità dell’uomo nel progetto creativo di Dio, ma non si può leggere nessuna autorizzazione verso azioni di dominio.

Come ricorda la Laudato si’ “coltivare significa arare o lavorare un terreno, custodire vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare”. La radice del verbo custodire è molto forte e mi sembra che possa essere collegata strettamente al tema della vita: essa ricorre nel dialogo tra Dio e Caino, che precede la maledizione sul futuro improduttivo del suo essere agricoltore e che precede la comparsa della città: infatti, dopo il primo omicida fonda la prima città, come per trovare una autodifesa più strutturata, non fidandosi del tutto di Dio e, forse, iniziando a pensare al creato come qualcosa di inospitale.

È la radice che noi traduciamo con sentinella in alcuni testi profetici: in questi casi la sentinella lega la sua vita alla custodia e difesa della città contro i nemici. Con un linguaggio molto creativo e poetico, la tensione giardino/città viene nuovamente affrontata (e, credo si possa dire, risolta) dal Cantico dei Cantici, dove la vocazione più alta dell’uomo (ricercare l’amore totalizzante) trova spinta nell’ambiente della creazione, ma ancor più nel guardino coltivato e custodito come il dono prezioso da offrire all’amato, tanto che il giardino è associato agli aggettivi possessivi mio, suo; e diventa, quindi, il giardino profondamente nostro.

La creazione, in questo capolavoro di letteratura che la Bibbia ci regala, è decisiva per vivere nella piena ricerca della felicità che il Signore vuole offrire all’uomo e alla donna. Senza un pieno coinvolgimento generativo (sia attivo che passivo) nella creazione, l’uomo non può vivere la propria felicità. La casa comune deve divenire l’attrattore per tutte le scelte politiche ed economiche.

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Il libro di Latour, però, chiede un ulteriore passaggio per i cristiani: non solo ricomprendere alcune pagine della Bibbia, ma ripensare radicalmente l’annuncio di salvezza. Non è più il tempo di guardare al trascendente, di mirare al cielo, di uscire dalla materialità; la fine dei tempi è già in essere, adesso, qui sulla terra; e su questa terra occorre atterrare nuovamente, proponendo immanenza, terrestrità e piena e generativa materialità, a partire dall’incarnazione e dalla creazione che ancora continua a procedere.

Chi crede nell’incarnazione dovrebbe pensare che la posta in gioco rispetto al Nuovo Regime Climatico è consentire alla creazione di proseguire. “L’Incarnazione ci immerge in una storia di reciproca compenetrazione con i viventi, la cui salvezza dipende ora, in parte, da atti di carità che non potremo procrastinare con il pretesto di ‘un altro mondo’. Ora o mai più. O qui o da nessuna parte” (p. 66-67).

Dobbiamo invocare lo Spirito perché davvero torni a rinnovare la Terra, soprattutto quella infinitesima parte di essa che custodisce i viventi, che è stata formata dalla infinità dei viventi che si sono succeduti nei miliardi di anni di vita del nostro pianeta. Questo è l’annuncio da proporre oggi. “L’imitazione di Gesù Cristo consiste nel fare ‘come Lui’: cioè volgersi verso la Terra in pericolo, abbandonando la tranquillità del cielo” (p. 110). Questo è anche il senso del titolo del libro: la Terra è la madre che genera ogni attimo la nostra salvezza. Non possiamo distruggerla.


[1] B. Latour, Essere di questa terra, 126.

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