The End of the world? È la fine del mondo? Una domanda che esprime bene il clima di disorientamento mondiale nel quale siamo precipitati. La stessa domanda ha dato il titolo a un seminario internazionale organizzato dalla Pontificia accademia per la vita (PAV) lo scorso 4-5 marzo, presso l’Auditorium dell’Istituto Augustinianum di Roma.
Realismo e speranza
L’immagine a cui si è fatto ricorso per descrivere il contesto – fin dal discorso di apertura dei lavori del presidente della PAV, mons. Vincenzo Paglia – è stata quella della «policrisi», termine utilizzato da Edgar Morin negli anni Novanta e ripreso dall’economista Adam Tooze, che è oggi di moda per descrivere una situazione mondiale in cui numerose grandi crisi (economica, climatica, politica) si accumulano e si amplificano l’una con l’altra. Anche papa Francesco vi ha fatto riferimento nel suo messaggio ai partecipanti in un passaggio citato da mons. Paglia:
«Vi siete proposti di affrontare la questione che oggi viene definita “policrisi”. Essa riguarda alcuni aspetti fondamentali della vostra attività di ricerca nel campo della vita, della salute e della cura. Il termine “policrisi” evoca la drammaticità della congiuntura storica che stiamo vivendo, in cui convergono guerre, cambiamenti climatici, problemi energetici, epidemie, fenomeno migratorio, innovazione tecnologica. L’intreccio di queste criticità, che toccano contemporaneamente diverse dimensioni della vita, ci induce a interrogarci sul destino del mondo e sulla nostra comprensione di esso» (26 febbraio 2025).
L’umanità appare oggi priva di una visione d’insieme sul futuro e soffre soprattutto per tale mancanza. «Non abbiamo risposte globali – ha detto mons. Paglia, citando il cardinale Carlo Maria Martini – perché oggi non le cerchiamo più. Quali visioni globali esistono, quali prospettive comuni? Chi se ne cura? Il titolo della conferenza è volutamente provocatorio, così come l’immagine del diluvio che è stata scelta per rappresentarla».
A dispetto del titolo, i lavori dell’assemblea sono stati impostati all’insegna di un realismo animato di speranza, con uno sguardo capace di cogliere nelle crisi attuali un’opportunità di purificazione e una svolta da cui ripartire. Ripartire, ovviamente, in modo diverso. E ripartire, soprattutto, non da soli, ma da un’alleanza tra sapienze, culture e saperi dell’umano che di fronte alla complessità vanno convocati e ascoltati. E così la due giorni romana − tenendo conto dei temi qualificanti l’attività dell’Accademia − è stata soprattutto un’occasione per dare voce agli scienziati, stimando il discorso scientifico un interlocutore prezioso per la sua capacità di lasciar parlare i fatti per come si danno, e nei limiti in cui si danno, e di offrire una solida base di partenza per portare la conoscenza e il giudizio oltre il dato empirico, in un tempo in cui narrazioni e giudizi prescindono sempre di più dai dati fattuali.
«Un primo passo da compiere − proseguiva il Santo Padre nel suo messaggio − è quello di esaminare con maggiore attenzione quale sia la nostra rappresentazione del mondo e del cosmo. Se non facciamo questo e se non analizziamo seriamente le nostre resistenze profonde al cambiamento, sia come persone sia come società, continueremo a fare ciò che abbiamo fatto con altre crisi, anche recentissime» (Francesco).
In ascolto delle scienze
I lavori sono partiti dai cambiamenti della visione del mondo in cui viviamo provocati dalle acquisizioni più recenti della scienza fisica, dall’infinitamente grande dell’universo (astrofisica e cosmologia), ai mattoni della fisica quantistica dell’infinitamente piccolo, con una relazione proposta da Guido Tonelli, fisico del CERN e brillante divulgatore, autore di volumi come Genesi. Il grande racconto delle origini (2020) e Materia. La magnifica illusione (2023). Sarah Johnson, scienziata planetaria di Georgetown, ha invece mostrato come la scienza si muova ormai alla ricerca forme di vita del tutto diverse dalla nostra, che superano il concetto biologico della vita terrestre.
In che modo queste analisi scientifiche dell’universo e del vivente vadano messe in relazione alla sapienza biblica e al lavoro teologico lo ha presentato con competenza François Euvè, fisico e teologo gesuita, già decano di teologia alle Facultés Loyola di Parigi, il quale ha descritto il rapporto tra scienza e religione partendo delle parole di Giovanni Paolo II: «La scienza può purificare la religione dall’errore e dalla superstizione; la religione può purificare la scienza dall’idolatria e dai falsi assoluti» (1 giugno 1998). Un programma a cui è necessario rimanere fedeli, evitando sia la tentazione del «concordismo», che non fa distinzione fra i saperi, sia del «discordismo», che invece li separa troppo radicalmente. Euvè ha concluso evocando la speranza e la figura dei Magi, scienziati del loro tempo e sapienti, capaci di mettere la loro conoscenza del cielo a servizio di un orizzonte più ampio: «La speranza non può basarsi sulla conoscenza, perché non abbiamo alcuna rappresentazione possibile di ciò che accadrà. (…) Questo non significa che tutto sia casuale. La conoscenza che abbiamo dello stato del mondo ci aiuta a fare un passo in più. La speranza è anche un incentivo ad agire, a muoversi. I Magi non sapevano dove sarebbero andati a finire, ma la loro conoscenza del cielo li ha guidati verso la meta. In questo modo, evitiamo l’estremismo che costringerebbe a scegliere tra la conoscenza scientifica del mondo e l’accettazione della grazia divina».
Ha fatto una forte impressione ascoltare le parole di Jan Zalasiewicz e Julia Thomas durante la sessione dedicata all’Antropocene e alle minacce portate al nostro pianeta dall’attività umana. Dati per lo più già conosciuti, ma ribaditi con una nettezza e una autorevolezza che rende sconcertante la negazione ancora diffusa, non sempre in buona fede (basti ricordare il potere di disinformazione di chi ha interesse a non smettere di estrarre e bruciare combustibili fossili). Zalasiewicz – geologo e paleoantropologo inglese – ha fatto parte del gruppo di scienziati incaricati di confermare la consistenza dell’affermazione di Paul Crutzen circa l’inizio di una nuova era geologica (l’Antropocene) dalla metà del secolo scorso. La comunità scientifica lo riconosce ormai senza riserve e non è difficile attingere a una robusta documentazione (cf. The Anthropocene: A Multidisciplinary Approach; 2020).
L’umano, a cui il Creatore biblico consegna la responsabilità di custode dell’altro e della creazione, appare oggi seriamente in grado di diventare, all’opposto, colui che distrugge ed estingue la vita. Resta dunque attuale e urgente l’appello a una conversione di paradigma: da un antropocentrismo della dominazione arrogante (l’umano come il padrone della natura) a una visione della unicità umana capace di assumere il limite come benedizione, di riconoscere che la responsabilità di co-creatori passa per la capacità di dominare il dominio di cui siamo capaci.
Unicità e responsabilità
Della «unicità» dell’umano nell’evoluzione del vivente si è occupato nella sua relazione Ian Tattersall, antropologo dell’American Museum of Natural History di New York, un’autorità mondiale nel campo della documentazione fossile umana. L’umano − ha affermato − è parte integrante del grande albero della vita; e tuttavia qualcosa di «qualitativamente unico» ha riguardato la sua vicenda evolutiva. Questo passaggio Tattersall lo individua nella capacità di ragionamento simbolico e nell’invenzione di linguaggi articolati che la consentono.
«Per quanto ne sappiamo, in tutto il mondo vivente siamo solo noi esseri umani a ragionare simbolicamente. Il che significa, in sostanza, che noi, e per quanto possiamo dire solo noi, decostruiamo i nostri mondi interni ed esterni in un ampio vocabolario di simboli mentali discreti. Ed è proprio l’atomizzazione della nostra esperienza, attraverso la sua rappresentazione con questi simboli discreti e arbitrari, che ci dà la capacità di descrivere il mondo nei termini delle sue componenti singole (…); componenti che possiamo poi mescolare, in base a regole, per fare affermazioni non solo sul mondo così com’è, ma anche sul mondo come potrebbe essere». È quanto regola la nostra esperienza cognitiva quotidiana e questo fa una differenza enorme rispetto alla percezione del reale e del nostro posto nel mondo. Su questa «capacità unica», ha sottolineato Tattersall, è possibile parlare di qualità unicamente umane, come l’immaginazione, la lungimiranza e la speranza. E, a giudizio non solo del pensiero etico cristiano, anche di una responsabilità dell’umano verso il suo simile e verso tutta la creazione.
Della responsabilità che compete all’umano è stata testimone Sheila Jasanoff, del Global Observatory for Genome Editing, che ha raccontato dell’impegno dell’Osservatorio nella promozione di un dialogo interdisciplinare inteso a cercare un accordo sui criteri per valutare i limiti della ricerca scientifica nell’ambito dell’ingegneria genetica, lì dove in laboratorio si può modificare direttamente il codice della vita (rimuovendo o aggiungendo specifiche sequenze di DNA) e il significato stesso dell’essere umani. Qui si è compreso che lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche deve interagire con altri ambiti della conoscenza: giuridici, politici, religiosi. La speranza ha infine contrassegnato i due interventi sui temi dell’educazione (Henk ten Have) e della salute (Hans Kluge).
Il seminario internazionale si è concluso con una tavola rotonda alla quale erano invitati relatori importanti afferenti a discipline diverse – tra i quali alcuni Premi Nobel – che si sono confrontati sulle prospettive di «salvezza», dentro la crisi, a partire dalla propria esperienza e dai rispettivi ambiti di competenza (scienze dure, economia, politica, arte, religione). Al tavolo erano seduti anche due accademici della PAV, Manfred Lutz e il card. Carlos Castillo Mattasoglio, in sostituzione di due invitati che all’ultimo momento non hanno potuto partecipare.
Da non sprecare
L’evento è stato senza dubbio una buona vetrina per l’attività della PAV a «trazione» Paglia. Il quale però è prossimo al compimento degli ottant’anni e alla probabile conclusione del suo incarico. Si aprirà, dunque, a breve il tema della sua successione, che non sarà un passaggio semplice a motivo della forte identificazione della Accademia col suo presidente che si è definita in questi ultimi dieci anni.
Dopo avere partecipato, si resta con la convinzione che – al netto dei contatti e dei rapporti informali che tali occasioni internazionali consentono di coltivare – l’evento non andrebbe «sprecato». Sarebbe importante che le suggestioni presentate alimentassero una riflessione ulteriore capace di promuovere e sostenere la trasformazione culturale di cui si avverte il bisogno, anche in seno alla Chiesa cattolica. Si sarebbe giovato dei lavori della due giorni il gruppo di teologhe e teologi che accompagna da qualche anno la riflessione della PAV.
Ottima nel complesso l’organizzazione dell’evento. I testi delle relazioni sono disponibili sul sito dell’Accademia.