
Beatrice Iacopini è insegnante di religione e scrittrice. Un suo contributo sull’argomento qui trattato è contenuto nel volume Domande sull’insegnamento della religione cattolica, in Aa.Vv. Ripensare l’insegnamento religioso, a cura di A. Cortesi e G. Ibba, Nerbini, Firenze 2025, (alle pp. 55-61).
È con grande piacere che ho scoperto, sulle pagine di SettimanaNews, l’esistenza di un gruppo di ricerca impegnato a riflettere attorno all’insegnamento religioso nelle scuole italiane: l’articolo che ne riassume il lavoro (qui) e il successivo intervento di Marco Ronconi (qui) hanno fornito un’ottima inquadratura della questione, che condivido pienamente.
Vorrei inserirmi nel dibattito mettendo a fuoco alcuni aspetti critici, a dimostrazione del fatto che una riforma è necessaria, come già chi mi ha preceduto sosteneva.
La mia esperienza di docente IRC
Insegno religione nella secondaria di secondo grado dal 1988 e ho vissuto le varie fasi di aggiustamento che tale insegnamento ha subito dopo l’Intesa del 1985. Ricordo che, all’inizio della mia carriera, i pochi studenti che non si avvalevano dell’IRC uscivano dalla classe per frequentare la cosiddetta “materia alternativa”, consistente ora in moduli di storia del cinema, ora in approfondimenti della Costituzione, ora in storia dell’antimafia… a piacere e capriccio dell’insegnante che, di volta in volta, era incaricato di svolgerla.
Successivamente, da quando furono introdotte altre scelte possibili, i “non avvalentisi” ebbero la facoltà di uscire dall’aula per fare i compiti con un docente o senza, oppure di uscire da scuola o persino – se l’ora di religione collocata all’inizio o alle fine delle lezioni – di entrare un’ora più tardi o andare a casa prima.
Terminate le accese discussioni di fine anni Ottanta/inizi anni Novanta, tale assetto è rimasto pressoché immutato sino ad oggi, ad eccezione di un aggiornamento – poco noto a dir la verità e poco praticato e praticabile, ma determinante – che ha reso facoltativa, definitivamente e nel senso più radicale, la frequenza di tale ora: una sentenza del TAR Lombardia (Sez. II, Brescia, n. 1232/2022) ha stabilito, infatti, che lo studente può, in qualsiasi momento dell’anno, mutare la sua scelta, abbandonando l’IRC quando vuole.
Se dunque, dopo qualche lezione, lo studente si accorge, per esempio, che l’insegnante non piace, oppure dà compiti da svolgere o chiede che si studi la materia, è autorizzato, in qualsiasi momento, in nome della libertà di culto, ad andarsene! Non ritengo sia necessario dilungarsi attorno alle ricadute che un tale sistema determina sulla serietà dell’insegnamento in questione e sulla professionalità e dignità del docente, nonché sull’organizzazione scolastica.
Avvalentisi e non avvalentisi
Vorrei soffermarmi piuttosto sui dati relativi agli “avvalentisi” e “non avvalentisi”, che non possono essere ignorati, se si vuole avere un quadro completo della situazione.
Spesso i sostenitori dell’attuale regime, contro ogni proposta di cambiamento, si fanno forti proprio dei numeri, che – apparentemente – premiano lo status quo: famiglie e studenti italiani sembrano dare fiducia in massa all’Insegnamento di Religione Cattolica (IRC), se è vero che, nell’anno scolastico 2023/2024, poco meno dell’84% degli alunni ha scelto di avvalersene, per quanto la percentuale cali almeno di un poco di anno in anno.
Se, ad uno sguardo superficiale, il dato relativo a coloro che scelgono di frequentare l’IRC può̀ essere interpretato quale altissimo gradimento della materia, mi sembra un errore di prospettiva non da poco limitarsi al dato complessivo, senza dedicare un’attenzione più scrupolosa al dettaglio.
Prima di tutto, non penso si possa facilmente soprassedere al fatto che la percentuale dei non avvalentisi equivale ad un 1.164.000 studenti: una cifra enorme di ragazzi che, durante quell’ora, escono dalle aule per non fare niente (perché́ la materia alternativa, per difficoltà economiche e di organizzazione scolastica, non è mai davvero decollata, soprattutto nella secondaria; e non dimentichiamo che, dietro ad ogni alunno, c’è una famiglia che ha fatto, o comunque ha avallato, quella scelta.
Se poi scorporiamo la media nazionale secondo un criterio geografico, vengono a galla enormi spaccature, che sarebbe davvero irresponsabile ignorare.
La prima ad emergere è la frattura nord-sud, che tanto incide sui destini della nostra nazione da toccare perfino la scelta dell’IRC: a fronte del 96,33% degli alunni che nel Sud scelgono di fare religione, nel Centro-Nord essi scendono di quasi venti punti percentuali (76,84%).
Mettendo ancora più a fuoco i dati, si scoprono differenze clamorose anche a livello regionale: in Val d’Aosta, quasi uno studente su tre diserta l’ora di religione (il 32,53%, mentre solo l’anno precedente era il 30,4%); a seguire, l’Emilia-Romagna registra il 29,33% di non avvalentisi e la Toscana il 29,01%. All’estremo opposto si situano, invece, le regioni del sud, che confermano una percentuale bassissima di alunni che non frequentano l’IRC (Sicilia, Calabria e Puglia sono intorno al 4%, Basilicata e Campania sul 3%).
C’è poi da considerare il crollo drastico della scelta della religione nei capoluoghi e nei grandi centri urbani del nord e del centro: fa impressione il dato relativo a Firenze, dove addirittura meno della metà degli studenti si avvale (il 51,51% esce dalla classe); ma anche Bologna (con il 47,3% di non avvalentisi), Aosta (43,6%), Mantova (40,5%) non presentano situazioni rosee. Anche a Brescia (38,6%), Trieste (37,9%) e Torino (37,7%) le cose non vanno benissimo.
Di sicuro incide sui dati l’alto tasso di immigrazione, ma non è certo quello l’unico fattore determinante.
Ci sono infine i casi eclatanti di singoli istituti, dalle Alpi agli Appennini, in cui in classe a far religione rimangono davvero in pochissimi: alcuni tecnici e licei, nel centro e nel nord, hanno percentuali di non avvalentisi che si attestano tra l’80 e il 90%. E dati simili giungono anche dalle scuole dei piccolissimi centri, per esempio nelle scuole dell’infanzia delle valli valdesi o in quelle situate in luoghi e quartieri ad alta densità di famiglie con origine straniera, come a Monfalcone e alcune zone di Brescia (con quasi l’84% dei bambini tra i 3 e i 5 anni di età che non si avvalgono.
In contesti simili, la media nazionale è perfettamente ribaltata e, tanto per rendere meglio l’idea, dobbiamo figurarci insegnanti di religione che si trovano a far lezione a due o tre bambini o ragazzi, mentre tutti gli altri alunni escono dall’aula per fare altro. Non è difficile immaginare la frustrazione che una situazione del genere comporta per il docente, già sottoposto a un continuo referendum anche nelle scuole con più alte percentuali di avvalentisi.
D’altra parte, avere così pochi alunni – e comunque praticamente mai la classe intera – rende il lavoro dell’insegnante di religione decisamente meno gravoso; se aggiungiamo il fatto che, per l’insegnamento di religione, non è prevista valutazione numerica, né partecipazione all’esame di maturità, e via dicendo, ci troviamo di fronte a una indubbia condizione di privilegio.
È giusto continuare così?
Ma la domanda fondamentale è se sia giusto e proficuo che lo Stato investa risorse per l’insegnamento di una disciplina che non riguarda la totalità degli studenti e che, in alcuni casi, coinvolge addirittura solo una minoranza, perfino esigua.
Tornando ai dati nazionali, proviamo a sottoporli a un’ulteriore lettura, scorporandoli questa volta per ordine e scolastico: qui emerge una spaccatura diversa, che si aggiunge a quella geografica già evidenziata, e che, questa volta, è di ordine socioculturale.
Nei licei, in media, si registrano percentuali molto più̀ alte di avvalentisi (81,52%) rispetto a quelle degli istituti tecnici (74,69%), e dei professionali (72,17%), ove l’ora di religione, nel nord e nel centro, è disertata in massa.
Molti degli alunni che frequentano quest’ultimo tipo di scuola – e molte delle loro famiglie – hanno scarsa fiducia nell’istituzione scolastica e sono poco motivati all’apprendimento: approfittano quindi volentieri della possibilità̀ di fare un’ora in meno a scuola.
È un dato di fatto, poi, che agli istituti professionali sono iscritte percentuali molto alte di alunni di origine straniera, spesso di tradizione non cattolica. È evidente che, anche per loro, come per i compagni di origine italiana, sarebbe molto importante imparare ad apprezzare il valore della cultura religiosa in genere, e in particolare conoscere il cattolicesimo, che ha profondamente segnato la storia e l’identità̀ del paese che li ospita, o di cui sono già̀ cittadini; ma l’ostacolo è appunto, di nuovo, il taglio confessionale dell’IRC.
Occorre, infine, considerare che, nella primaria e nella secondaria di primo grado, ove sono ancora le famiglie – e non direttamente l’alunno – a fare la scelta, spesso si opta per l’IRC semplicemente per evitare che, dovendo uscire dalla classe, il figlio si senta isolato o diverso.
Per esperienza diretta so che, anche nei licei, le motivazioni della scelta sono piuttosto deboli e spesso estranee alla materia in sé: quando è la famiglia a imporla, è anche per essere certi che il figlio rimanga in un ambiente educativo e non sia a spasso durante la mattinata, oppure perché comunque “male non fa”, come spesso mi sono sentita dire nei colloqui coi genitori!
Quando, invece, sono i ragazzi stessi a scegliere, lo fanno quasi sempre perché l’ora di religione è un’ora libera, senza carico di compiti, e in cui si può̀ discutere e confrontarsi senza essere giudicati; insomma, durante l’ora di religione si sta bene perché́ è “diversa”: è questo soprattutto per il valore formativo che le si riconosce. Indubbiamente, anche per noi insegnanti, essere liberi dagli obblighi che hanno gli altri permette un rapporto con le classi molto più diretto e può̀ rendere questo mestiere persino entusiasmante.
L’equivoco della confessionalità
Ma l’IRC non è istituito e finanziato per essere un’ora settimanale di ascolto o di discussione; essa esiste perché lo Stato – insieme alla Chiesa – si afferma convinto del valore della cultura religiosa e intende adoperarsi affinché sia garantita la conoscenza dei principi del cattolicesimo in quanto facenti parte del patrimonio storico del popolo italiano (così recita l’art. 9 della legge 121 del 1985).
Il problema è che, avendo scelto con i Patti Lateranensi, e poi confermato con la loro revisione, la linea di un insegnamento confessionale, dunque necessariamente facoltativo e senza voti, la religione a scuola è la cenerentola del curriculo, col risultato di indurre in generazioni di italiani – da un secolo a questa parte – la convinzione che la religione non sia affatto ambito culturalmente rilevante, visto che non la si studia allo stesso modo della biologia, della storia, o di qualsivoglia altra disciplina.
In una situazione come quella attuale, d’altra parte, è davvero impossibile offrire un approccio serio alla materia: accade anzi che, via via che si cresce di grado, proprio negli anni delle superiori, quando lo studio dovrebbe diventare sempre più impegnato e scientifico, si è costretti a rendere piacevole e leggera quell’ora che altrimenti, facilmente, sarebbe disertata.
Dopo tanti anni di insegnamento, sono giunta alla conclusione che, con la strada intrapresa, si è barattata di fatto la rilevanza scientifica e culturale dello studio del fatto religioso e della religione cattolica con la confessionalità̀ dell’insegnamento, producendo solo uno sconfortante scenario di analfabetismo religioso e perdendo così una grande battaglia culturale.
Non so se sarà possibile riguadagnare il terreno perduto, ma sono certa che la strada sia quella che addita, in un suo intervento apparso l’anno scorso su una nota rivista, mons. Derio Olivero (Insegnamento, religioni, spazio laico. Verso un nuovo statuto dell’«ora di religione» nella scuola pubblica, in La Rivista del Clero Italiano 7-8 (2024), 486-496): la religione – scrive il vescovo di Pinerolo – non può più essere «una materia facoltativa, da concedere agli appartenenti a una confessione. È sempre più una materia “per tutti”, per offrire chiavi ermeneutiche della realtà […] per la costruzione di una nuova società e per la costruzione di un’etica globale»; è tempo – sostiene – di fornire un insegnamento della religione «in chiave interreligiosa […], un insegnamento della religione per tutti», che abbandoni la confessionalità e superi così, finalmente, «l’equivoco della facoltatività».






IRC: oltre la confessionalità, verso l’attrazione della fede
C’è una parola che, più di ogni altra, sembra riassumere l’attuale crisi dell’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC): confessionalità.
Un termine che, nel dibattito pubblico, suona come un peso, una difesa, a volte un inciampo.
Eppure il nodo non è tanto “se” l’IRC debba essere confessionale, quanto come riesca a far vibrare il cuore e la mente di chi lo incontra. In fondo, non si diventa cristiani per imposizione, ma per attrazione. E lo stesso vale per ogni scelta educativa che voglia avere un’anima.
Il rischio dell’IRC, oggi, è di ridursi a un’identità formale: la trasmissione di un patrimonio dottrinale che, pur prezioso, non sempre riesce a toccare la vita reale degli studenti.
Quando la “confessionalità” viene vissuta come recinzione identitaria — un recinto che separa “noi” dagli “altri” — essa smette di essere segno di appartenenza e diventa ostacolo all’incontro.
Ma la fede non nasce nei confini: nasce nella curiosità, nell’ammirazione, nel fascino che qualcosa o qualcuno esercita su di noi.
Gesù non ha mai imposto un “programma di studi”. Ha invitato, ha affascinato, ha incontrato.
Chi lo seguiva non lo faceva per dovere, ma perché lo sguardo di quell’uomo sapeva leggere il cuore.
“Si diventa cristiani non per decisione etica o per grande idea, ma per l’incontro con un avvenimento, con una Persona”, scriveva Benedetto XVI.
È qui che si gioca la vera sfida dell’IRC: non nel difendere la confessionalità, ma nel renderla attraente.
L’attrazione non è seduzione: è la forza della bellezza che convince da sé, la testimonianza che non ha bisogno di proclami.
Un’ora di IRC, quando è viva, non “insegna religione”: accende domande, spalanca spazi interiori, offre linguaggi simbolici e sapienziali che permettono di leggere la realtà con più profondità.
Il docente di religione non è solo un mediatore culturale, ma un testimone educativo: qualcuno che parla di Dio non perché deve, ma perché lo ha incontrato, e quell’incontro lo ha cambiato.
Ecco perché la sua figura non si può ridurre a una funzione scolastica; è, nel senso più nobile, un ministero laico dell’attrazione.
Se la fede è relazione, l’educazione non può che essere dialogo.
Ogni studente, anche il più distante, merita un incontro che non giudichi, ma comprenda; che non “spieghi” Dio, ma lo faccia intuire.
In questa prospettiva, l’IRC non perde nulla della sua identità cristiana, ma la ritrova nella relazione viva.
Una fede che si fa parola, arte, storia, etica, filosofia: insomma, umanità piena.
Rendere la materia attraente significa riconoscere che la verità non teme la bellezza, e che la bellezza evangelica è fatta di libertà, rispetto e dialogo.
Un’ora di religione che non affascina non è meno “confessionale”, ma semplicemente meno umana.
La vera confessionalità non si misura dal contenuto trasmesso, ma dal modo in cui viene vissuto.
Confessare la fede non è “insegnarla” come si insegnerebbe una formula matematica, ma mostrarla come si mostra una ferita che è diventata luce.
In questo senso, l’IRC può e deve restare confessionale, ma in modo trasparente e dialogico: non come imposizione, ma come dono che si offre a chiunque desideri comprendere meglio la dimensione spirituale dell’essere umano.
Quando un ragazzo percepisce che chi gli parla crede davvero in ciò che dice — non per proselitismo, ma per convinzione vissuta — allora si accende l’interesse, la domanda, la curiosità.
È qui che la fede diventa contagiosa: perché è credibile.
Educare, oggi, significa sedurre al bene, mostrare che la vita ha un senso e che la fede può essere una chiave interpretativa affascinante del mistero umano.
L’IRC non deve difendersi dal mondo: deve entrare nel mondo, con la freschezza del Vangelo e la profondità della sapienza cristiana.
Solo così potrà restare fedele al suo mandato e insieme rinnovarlo: non una lezione sulla religione, ma un’esperienza di libertà interiore.
In fondo, il cristianesimo non ha mai conquistato il mondo con la forza, ma con la bellezza di volti credibili, di vite trasfigurate, di testimoni che hanno saputo rendere la fede desiderabile.
E questa — oggi come ieri — è la vera, insostituibile confessionalità.
L’appassionato commento del collega Simone, che trasuda meritoriamente di entusiasmo per l’insegnamento di religione, mette in risalto senza volerlo un equivoco che l’attuale sistemazione dell’IRC continua ad alimentare: che sia cioè un’ora di catechesi (Simone parla esplicitamente di attrazione alla fede!). Ma, secondo l’Intesa, lo scopo dell’ora di religione nella scuola statale non è certo catechetico (lo stato italiano è laico), bensì culturale – far apprezzare il valore della cultura religiosa e far conoscere il patrimonio culturale rappresentato dal cattolicesimo per il nostro paese.
Inoltre mi sembra che la prospettiva di Simone finisca proprio per amplificare uno dei problemi più grandi della situazione attuale: ora come ora la riuscita o meno di questo insegnamento sta tutta nella capacità del singolo insegnante di coinvolgere, affascinare, suscitare interesse, inventandosi ogni giorno nuovi modi e nuove vie. Ognuno di noi irc sa quanto questo possa essere perfino esaltante, ma non è al protagonismo e alla genialità del singolo che può essere affidato il destino di una disciplina, che invece, come tutte le altre materie scolastiche, dovrebbe essere messa nelle condizioni di avere riconosciute in sé e per sé dignità e importanza.
Insegno religione anche io da diversi anni in secondaria di primo grado nel centro-Italia. Le motivazioni per cui alcuni si esonerano è perché, in accordo con le famiglie, preferiscono fare i compiti perché a casa non hanno tempo. Molti, già in prima media, arrivano esonerati perché di altra religione o perché hanno famiglie fortemente anticlericali. In questo panorama in cui l’alternativa non è vera materia “alternativa” ma uno studio assistito praticamente, perché pochissimi fanno questo tipo di scelta preferendo fare i compiti o uscire/entrare prima o dopo, la religione a scuola deve affrontare una gara dura…noi insegnanti non possiamo neanche fare i “giullari” di turno o i funamboli in mille cose diverse e metodologie accattivanti pur di trattenere alunni, non credo sia molto giusto nei nostri confronti. Io credo che il dialogo in classe sia fondamentale e questa materia, con i suoi innumerevoli risvolti, offre un valido supporto. Ma dobbiamo anche fornire una “alfabetizzazione religiosa” di base imprescindibile e seguire le indicazioni nazionali proposte. Per cui non è un’ora di psicologia, sociologia o filosofia ma tutto può convivere se ben organizzato in una progettazione coerente e concreta. I ragazzini che seguono con interesse e partecipazione lo avvertono e lo capiscono, allora anche dei piccoli “compiti” tradotti in semplici ricerche o lavoretti di gruppo riescono e aiutano alla crescita loro e della disciplina. Chi preferisce fare i compiti nonostante tutto al postodi seguire questa disciplina, fa una scelta personale, per noi insegnanti frustrante, ma non possiamo farci niente! Un alunno quest’anno si è esonerato perché, a detta sua: “Mamma dopo la Cresima ha detto basta con la religione e preferisco fare i compiti”…credo che questo dica tutto.
L’alta percentuale di avvalentisi la considero quale grande opportunità per riavvicinare ai principi non negoziabili della fede. E non sono i voti che danno importanza alla materia. Dovrebbero essere lezioni di approfondimento attraverso i collegamenti con le altre materie alla ricerca del coinvolgomento degli studenti. Ma per valorizzare questa fondamentale opportunità mi interrogherei piuttosto sulle motivazioni per cui si diventa insegnanti di religione. Gli ISSR non devono essere dei diplomifici.
Mi domando: come si fa a insegnare storia, filosofia, letteratura, storia dell’arte senza una solida cultura che riguardi la religione cristiana? AD esempio, il primo testo di letteratura italiana è il Cantico delle creature di S. Francesco.
No, è l’indovinello veronese, il cantico delle creature viene considerato primo testo di letteratura italiana per facilloneria e più perchè è il primo testo composto con delle regole grammaticali e “poetiche”, ma non è nemmeno in italiano che è stato codificato da Dante dalla scuola siciliana nel De vulgari Eloquentia e in dialetto fiorentino, non umbro… per altro i primi veri testi comprensibili i quasi tutta Italia non erano testi di natura letteraria ma mercantile, ciòè documenti su scambi di merci e soldi. L’ idea di San Francesco come primo autore italiano se l’ è inventata D’ Annunzio, ma lo sanno anche i sassi che il canzoniere siciliano fu codificato successivamente in toscana ben prima che San Francesco sapesse dire anche solo mamma.
Insegno anche io religione e trovo interessante quanto qui viene scritto. Sarebbe bello – è una provocazione la mia – vedere la faccia dei miei colleghi di italiano o matematico o scienze o filosofia se la loro materia (come la mia) fosse facoltativa e, quindi, se gli studenti a metà anno potessero uscire dalla classe!!! Comunque a parte la provocazione, credo e ritengo che la scuola stessa debba essere riformata e le indicazioni nazionali per le singole discipline debbano cambiare. Non c’è solo un analfabetismo religioso, ma anche un analfabetismo culturale pazzesco.
Resta da dire che con il cambiamento di prospettiva dell’IRC tutti gli insegnanti di ruolo o non di ruolo di questa importantissima materia perderebbero il posto di lavoro. Non sarebbe infatti ammissibile che insegnasse matematica chi ha la laurea in lettere o il diploma del conservatorio… Quindi, cari insegnanti di religione cattolica, preparatevi a starvene tutti a casa!
A prescindere dal fatto che noi insegnanti di religione abbiamo spesso anche una laurea “civile”, e magari anche un’abilitazione per insegnare altre discipline, è evidente che, nell’ipotesi di un cambiamento, la nuova materia, pur non confessionale, rimarrebbe nell’ambito della cultura religiosa, in particolare cristiana (vista l’importanza di questa religione per il nostro paese) e comprendente poi anche le altre religioni.
Non vedo quindi il motivo per cui la nostra laurea in scienze religiose non dovrebbe andar bene!
E’ chiaro che si intersecano qui altri temi, come quello del riconoscimento dei titoli acquisiti in università ecclesiastiche, ma soprattutto il problema recentemente affrontato su queste pagine da Selene Zorzi (da cui cito), che sosteneva l’urgenza di «restituire alla teologia la sua vocazione pubblica, sottraendola al monopolio ecclesiastico», per esempio con l’estenderne lo studio anche nelle facoltà statali.
In previsione del Concordato del 1984 se ne era discusso ampiamente ma hanno prevalso le ragioni politico-ecclesiali favorevoli con i partiti di allora alla scelta confessionale. E le votazioni in Parlamento l’ hanno confermata. È magra, magrissima consolazione dire oggi: “Avevamo ragione”. E questo vale anche per i titoli accademici con pieno riconoscimento statale ed ecclesiale. Ma difficilmente il clero governante capisce i segni dei tempi. Incomprensione oggi più che palese anche nella organizzazione delle Comunità Ecclesiali. Sotto il sole ecclesiale nulla di nuovo: la scalata al potere sopra ogni valore.
Come già aveva fatto nel suo contributo al volume “Ripensare l’insegnamento religioso” (curato da A. Cortesi e G. Ibba), Beatrice Iacopini pone alcune domande decisive per riflettere sull’attuale insegnamento della religione a scuola: è sostenibile un insegnamento in cui gli studenti possono scegliere, in qualsiasi momento, di non avvalersi? E, nonostante l’84% di avvalentisi, è davvero possibile dire che “funziona” una materia che avrebbe come primo compito quello di trasmettere un patrimonio storico che oggi nessuno più conosce, compresi quelli che negli anni si sono avvalsi dell’IRC, come dimostrano le indagini sull’analfabetismo religioso in Italia? Fino a quando si fingerà di non vedere l’equivoco tra un approccio scientifico alla religione e un’ora di “discussione e dialogo” con gli studenti, che può senz’altro avere un suo valore formativo, ma del tutto slegato dagli obbiettivi che l’IRC si pone? E il risultato di quest’approccio, non è inevitabilmente quello di indurre generazioni di italiani a ritenere che “la religione non sia affatto un ambito culturalmente rilevante”?
La speranza è che, nel prossimo futuro, si avvii una riflessione che tenti di dare una risposta a queste e ad altre domande che oggi interrogano anzitutto chi si occupa di insegnare religione all’interno della scuola. Nel frattempo, un grande ringraziamento a Beatrice Iacopini per questo suo contributo prezioso.
Grazie di aver aggiunto elementi preziosi alla riflessione