IRC: il nodo è la “confessionalità”

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cassazione

Beatrice Iacopini è insegnante di religione e scrittrice. Un suo contributo sull’argomento qui trattato è contenuto nel volume Domande sull’insegnamento della religione cattolica, in Aa.Vv. Ripensare l’insegnamento religioso, a cura di A. Cortesi e G. Ibba, Nerbini, Firenze 2025, (alle pp. 55-61).

È con grande piacere che ho scoperto, sulle pagine di SettimanaNews, l’esistenza di un gruppo di ricerca impegnato a riflettere attorno all’insegnamento religioso nelle scuole italiane: l’articolo che ne riassume il lavoro (qui) e il successivo intervento di Marco Ronconi (qui) hanno fornito un’ottima inquadratura della questione, che condivido pienamente.

Vorrei inserirmi nel dibattito mettendo a fuoco alcuni aspetti critici, a dimostrazione del fatto che una riforma è necessaria, come già chi mi ha preceduto sosteneva.

La mia esperienza di docente IRC

Insegno religione nella secondaria di secondo grado dal 1988 e ho vissuto le varie fasi di aggiustamento che tale insegnamento ha subito dopo l’Intesa del 1985. Ricordo che, all’inizio della mia carriera, i pochi studenti che non si avvalevano dell’IRC uscivano dalla classe per frequentare la cosiddetta “materia alternativa”, consistente ora in moduli di storia del cinema, ora in approfondimenti della Costituzione, ora in storia dell’antimafia… a piacere e capriccio dell’insegnante che, di volta in volta, era incaricato di svolgerla.

Successivamente, da quando furono introdotte altre scelte possibili, i “non avvalentisi” ebbero la facoltà di uscire dall’aula per fare i compiti con un docente o senza, oppure di uscire da scuola o persino – se l’ora di religione collocata all’inizio o alle fine delle lezioni – di entrare un’ora più tardi o andare a casa prima.

Terminate le accese discussioni di fine anni Ottanta/inizi anni Novanta, tale assetto è rimasto pressoché immutato sino ad oggi, ad eccezione di un aggiornamento – poco noto a dir la verità e poco praticato e praticabile, ma determinante – che ha reso facoltativa, definitivamente e nel senso più radicale, la frequenza di tale ora: una sentenza del TAR Lombardia (Sez. II, Brescia, n. 1232/2022) ha stabilito, infatti, che lo studente può, in qualsiasi momento dell’anno, mutare la sua scelta, abbandonando l’IRC quando vuole.

Se dunque, dopo qualche lezione, lo studente si accorge, per esempio, che l’insegnante non piace, oppure dà compiti da svolgere o chiede che si studi la materia, è autorizzato, in qualsiasi momento, in nome della libertà di culto, ad andarsene! Non ritengo sia necessario dilungarsi attorno alle ricadute che un tale sistema determina sulla serietà dell’insegnamento in questione e sulla professionalità e dignità del docente, nonché sull’organizzazione scolastica.

Avvalentisi e non avvalentisi

Vorrei soffermarmi piuttosto sui dati relativi agli “avvalentisi” e “non avvalentisi”, che non possono essere ignorati, se si vuole avere un quadro completo della situazione.

Spesso i sostenitori dell’attuale regime, contro ogni proposta di cambiamento, si fanno forti proprio dei numeri, che – apparentemente – premiano lo status quo: famiglie e studenti italiani sembrano dare fiducia in massa all’Insegnamento di Religione Cattolica (IRC), se è vero che, nell’anno scolastico 2023/2024, poco meno dell’84% degli alunni ha scelto di avvalersene, per quanto la percentuale cali almeno di un poco di anno in anno.

Se, ad uno sguardo superficiale, il dato relativo a coloro che scelgono di frequentare l’IRC può̀ essere interpretato quale altissimo gradimento della materia, mi sembra un errore di prospettiva non da poco limitarsi al dato complessivo, senza dedicare un’attenzione più scrupolosa al dettaglio.

Prima di tutto, non penso si possa facilmente soprassedere al fatto che la percentuale dei non avvalentisi equivale ad un 1.164.000 studenti: una cifra enorme di ragazzi che, durante quell’ora, escono dalle aule per non fare niente (perché́ la materia alternativa, per difficoltà economiche e di organizzazione scolastica, non è mai davvero decollata, soprattutto nella secondaria; e non dimentichiamo che, dietro ad ogni alunno, c’è una famiglia che ha fatto, o comunque ha avallato, quella scelta.

Se poi scorporiamo la media nazionale secondo un criterio geografico, vengono a galla enormi spaccature, che sarebbe davvero irresponsabile ignorare.

La prima ad emergere è la frattura nord-sud, che tanto incide sui destini della nostra nazione da toccare perfino la scelta dell’IRC: a fronte del 96,33% degli alunni che nel Sud scelgono di fare religione, nel Centro-Nord essi scendono di quasi venti punti percentuali (76,84%).

Mettendo ancora più a fuoco i dati, si scoprono differenze clamorose anche a livello regionale: in Val d’Aosta, quasi uno studente su tre diserta l’ora di religione (il 32,53%, mentre solo l’anno precedente era il 30,4%); a seguire, l’Emilia-Romagna registra il 29,33% di non avvalentisi e la Toscana il 29,01%. All’estremo opposto si situano, invece, le regioni del sud, che confermano una percentuale bassissima di alunni che non frequentano l’IRC (Sicilia, Calabria e Puglia sono intorno al 4%, Basilicata e Campania sul 3%).

C’è poi da considerare il crollo drastico della scelta della religione nei capoluoghi e nei grandi centri urbani del nord e del centro: fa impressione il dato relativo a Firenze, dove addirittura meno della metà degli studenti si avvale (il 51,51% esce dalla classe); ma anche Bologna (con il 47,3% di non avvalentisi), Aosta (43,6%), Mantova (40,5%) non presentano situazioni rosee. Anche a Brescia (38,6%), Trieste (37,9%) e Torino (37,7%) le cose non vanno benissimo.

Di sicuro incide sui dati l’alto tasso di immigrazione, ma non è certo quello l’unico fattore determinante.

Ci sono infine i casi eclatanti di singoli istituti, dalle Alpi agli Appennini, in cui in classe a far religione rimangono davvero in pochissimi: alcuni tecnici e licei, nel centro e nel nord, hanno percentuali di non avvalentisi che si attestano tra l’80 e il 90%. E dati simili giungono anche dalle scuole dei piccolissimi centri, per esempio nelle scuole dell’infanzia delle valli valdesi o in quelle situate in luoghi e quartieri ad alta densità di famiglie con origine straniera, come a Monfalcone e alcune zone di Brescia (con quasi l’84% dei bambini tra i 3 e i 5 anni di età che non si avvalgono.

In contesti simili, la media nazionale è perfettamente ribaltata e, tanto per rendere meglio l’idea, dobbiamo figurarci insegnanti di religione che si trovano a far lezione a due o tre bambini o ragazzi, mentre tutti gli altri alunni escono dall’aula per fare altro. Non è difficile immaginare la frustrazione che una situazione del genere comporta per il docente, già sottoposto a un continuo referendum anche nelle scuole con più alte percentuali di avvalentisi.

D’altra parte, avere così pochi alunni – e comunque praticamente mai la classe intera – rende il lavoro dell’insegnante di religione decisamente meno gravoso; se aggiungiamo il fatto che, per l’insegnamento di religione, non è prevista valutazione numerica, né partecipazione all’esame di maturità, e via dicendo, ci troviamo di fronte a una indubbia condizione di privilegio.

È giusto continuare così?

Ma la domanda fondamentale è se sia giusto e proficuo che lo Stato investa risorse per l’insegnamento di una disciplina che non riguarda la totalità degli studenti e che, in alcuni casi, coinvolge addirittura solo una minoranza, perfino esigua.

Tornando ai dati nazionali, proviamo a sottoporli a un’ulteriore lettura, scorporandoli questa volta per ordine e scolastico: qui emerge una spaccatura diversa, che si aggiunge a quella geografica già evidenziata, e che, questa volta, è di ordine socioculturale.

Nei licei, in media, si registrano percentuali molto più̀ alte di avvalentisi (81,52%) rispetto a quelle degli istituti tecnici (74,69%), e dei professionali (72,17%), ove l’ora di religione, nel nord e nel centro, è disertata in massa.

Molti degli alunni che frequentano quest’ultimo tipo di scuola – e molte delle loro famiglie – hanno scarsa fiducia nell’istituzione scolastica e sono poco motivati all’apprendimento: approfittano quindi volentieri della possibilità̀ di fare un’ora in meno a scuola.

È un dato di fatto, poi, che agli istituti professionali sono iscritte percentuali molto alte di alunni di origine straniera, spesso di tradizione non cattolica. È evidente che, anche per loro, come per i compagni di origine italiana, sarebbe molto importante imparare ad apprezzare il valore della cultura religiosa in genere, e in particolare conoscere il cattolicesimo, che ha profondamente segnato la storia e l’identità̀ del paese che li ospita, o di cui sono già̀ cittadini; ma l’ostacolo è appunto, di nuovo, il taglio confessionale dell’IRC.

Occorre, infine, considerare che, nella primaria e nella secondaria di primo grado, ove sono ancora le famiglie – e non direttamente l’alunno – a fare la scelta, spesso si opta per l’IRC semplicemente per evitare che, dovendo uscire dalla classe, il figlio si senta isolato o diverso.

Per esperienza diretta so che, anche nei licei, le motivazioni della scelta sono piuttosto deboli e spesso estranee alla materia in sé: quando è la famiglia a imporla, è anche per essere certi che il figlio rimanga in un ambiente educativo e non sia a spasso durante la mattinata, oppure perché comunque “male non fa”, come spesso mi sono sentita dire nei colloqui coi genitori!

Quando, invece, sono i ragazzi stessi a scegliere, lo fanno quasi sempre perché l’ora di religione è un’ora libera, senza carico di compiti, e in cui si può̀ discutere e confrontarsi senza essere giudicati; insomma, durante l’ora di religione si sta bene perché́ è “diversa”: è questo soprattutto per il valore formativo che le si riconosce. Indubbiamente, anche per noi insegnanti, essere liberi dagli obblighi che hanno gli altri permette un rapporto con le classi molto più diretto e può̀ rendere questo mestiere persino entusiasmante.

L’equivoco della confessionalità

Ma l’IRC non è istituito e finanziato per essere un’ora settimanale di ascolto o di discussione; essa esiste perché lo Stato – insieme alla Chiesa – si afferma convinto del valore della cultura religiosa e intende adoperarsi affinché sia garantita la conoscenza dei principi del cattolicesimo in quanto facenti parte del patrimonio storico del popolo italiano (così recita l’art. 9 della legge 121 del 1985).

Il problema è che, avendo scelto con i Patti Lateranensi, e poi confermato con la loro revisione, la linea di un insegnamento confessionale, dunque necessariamente facoltativo e senza voti, la religione a scuola è la cenerentola del curriculo, col risultato di indurre in generazioni di italiani – da un secolo a questa parte – la convinzione che la religione non sia affatto ambito culturalmente rilevante, visto che non la si studia allo stesso modo della biologia, della storia, o di qualsivoglia altra disciplina.

In una situazione come quella attuale, d’altra parte, è davvero impossibile offrire un approccio serio alla materia: accade anzi che, via via che si cresce di grado, proprio negli anni delle superiori, quando lo studio dovrebbe diventare sempre più impegnato e scientifico, si è costretti a rendere piacevole e leggera quell’ora che altrimenti, facilmente, sarebbe disertata.

Dopo tanti anni di insegnamento, sono giunta alla conclusione che, con la strada intrapresa, si è barattata di fatto la rilevanza scientifica e culturale dello studio del fatto religioso e della religione cattolica con la confessionalità̀ dell’insegnamento, producendo solo uno sconfortante scenario di analfabetismo religioso e perdendo così una grande battaglia culturale.

Non so se sarà possibile riguadagnare il terreno perduto, ma sono certa che la strada sia quella che addita, in un suo intervento apparso l’anno scorso su una nota rivista, mons. Derio Olivero (Insegnamento, religioni, spazio laico. Verso un nuovo statuto dell’«ora di religione» nella scuola pubblica, in La Rivista del Clero Italiano 7-8 (2024), 486-496): la religione – scrive il vescovo di Pinerolo – non può più essere «una materia facoltativa, da concedere agli appartenenti a una confessione. È sempre più una materia “per tutti”, per offrire chiavi ermeneutiche della realtà […] per la costruzione di una nuova società e per la costruzione di un’etica globale»; è tempo – sostiene – di fornire un insegnamento della religione «in chiave interreligiosa […], un insegnamento della religione per tutti», che abbandoni la confessionalità e superi così, finalmente, «l’equivoco della facoltatività».

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12 Commenti

  1. Simone Billeci 4 novembre 2025
    • Beatrice Iacopini 4 novembre 2025
  2. Alex 1 novembre 2025
  3. Carlo Rinaldo 31 ottobre 2025
  4. Luciano 30 ottobre 2025
    • Enrico 31 ottobre 2025
  5. Fabio Cittadini 30 ottobre 2025
  6. Giuseppe 30 ottobre 2025
    • Beatrice Iacopini 30 ottobre 2025
  7. Alessandro 30 ottobre 2025
  8. Filippo Binini 30 ottobre 2025
  9. Marco Ronconi 29 ottobre 2025

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