Diario di guerra /10

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Titolo della mia pagina di diario: pausa nei combattimenti… sospesa. Tutto in sospeso, tutto rimandato a domani (venerdì). Un colpo durissimo, soprattutto per i parenti che stanno aspettando con ansia la liberazione di parte degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas. Un colpo durissimo per chi sta aspettando almeno un po’ di sollievo.

Si confida comunque sulla base dell’accordo raggiunto, come sta dicendo il suo principale mediatore, il Qatar. Israele fermerebbe per quattro giorni il suo esercito, Hamas libererebbe 50 ostaggi catturati durante il pogrom del 7 ottobre, 150 detenuti palestinesi uscirebbero dalle prigioni israeliane (donne e minori).

Nel mentre, in un altro quadrante dell’insieme – preoccupante – si registra la morte del figlio del capogruppo parlamentare di Hezbollah in Libano, Abbas Mohammad Raad, in un bombardamento israeliano nel sud del Paese.

Se davvero la tregua, a breve, ci sarà, potremo, per un attimo almeno, sospirare: ci sarà il tempo, forse, per capire meglio, nella furia degli eventi, cosa ci è sfuggito. Ci provo già da ora.

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Il primo fatto che balza agli occhi è che il fronte dei cosiddetti moderati, definiti dagli altri Paesi coinvolti «traditori della causa palestinese» – quello guidato dai sauditi – sta inviando un fiume di aiuti per la sofferente popolazione di Gaza, via terra e via mare. Il fronte solidale e intransigente, quello che definisce «glorioso» l’attacco del 7 ottobre, invece, non risulta che abbia mandato neppure un barchino di aiuti.

Chi manca? Iran e Turchia in prima fila, poi i loro satelliti, come la Siria, l’Iraq e altri. I satelliti non sono certo Paesi fiorenti, ma almeno le corazzate imperiali iraniana e turca gli alimenti con le coperte avrebbero potuto mandarli! Ma, probabilmente, non gli è passato neppure per l’anticamera del cervello. A loro interessa la vittoria ultima, escatologica, da conseguire anche coi digiuni del popolo.

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Il secondo dato di fatto riguarda l’altro campo e sta nella seria difficoltà politica di Israele di individuare la modalità più congrua per sconfiggere un rivale – Hamas – che gode di indiscutibili vantaggi nella sua “asimmetria”. L’obiettivo proclamato dai terroristi è quello di distruggere Israele, senza disporre minimamente del potenziale militare per centrarlo. Hamas è però in grado di determinare, mentre si combatte a Gaza – come stiamo vedendo – un’insurrezione armata in Cisgiordania, impegnando quindi Israele su due fronti, contestualmente.

L’opzione statuale israeliana dovrebbe essere dunque quella capace di evitare un tale scenario, impedendo le provocazioni di coloni esagitati contro la popolazione palestinese.  Questo, però, non sta accadendo. L’Autorità Palestinese – che da quei territori ha impedito un’emotiva adesione alla lotta di Hamas – non viene, da tempo, aiutata da Israele, negandole il trasferimento dei fondi ad essa spettanti, col chiaro intento di indebolirla.

Un problema appare decisivo nella sua variante globale: la credibilità e la legittimità di Israele nel perseguire la distruzione del terrorismo di Hamas agli occhi di ampi settori dell’opinione pubblica internazionale, a causa di un’azione militare percepita come eccessiva o sovradimensionata, mirata contro la popolazione civile. Adattando, allo scopo, una frase attribuita a Talleyrand, la prestigiosa rivista statunitense Foreign Affairs ha sottolineato che «coinvolgere la popolazione civile in un’azione militare contro i terroristi, è peggio che un crimine: è un errore».

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Poiché la forza militare di Hamas non è in grado di competere con Israele, la strategia di profondità di Israele dovrebbe risiedere soprattutto nel lavoro di intelligence, mettendo a proprio frutto l’enorme vantaggio tecnologico.

La prerogativa che i terroristi hanno tratto – tanti anni fa – dalla tecnica, fu l’uso della dinamite, facilmente occultabile e trasportabile. Un altro esemplare tecnico – divenuto simbolo del terrorismo – è il famoso Kalashnikov, particolarmente maneggevole e “pronto all’uso”.

Di contro, agli Stati oggi dovrebbe risultare molto più efficace ed opportuno il blocco dei sistemi di comunicazione. Bloccano le comunicazioni  tra le varie unità, disperse tra i tunnel, si creano enormi difficoltà nel coordinamento delle azioni di Hamas. Puntando su una tale modalità di contrasto – e quindi risparmiando al massimo grado la popolazione civile – Israele si sarebbe guadagnato un maggiore sostegno internazionale, non l’avversità che costatiamo.

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Se la pausa, dunque, fosse usata per studiare nuovi criteri d’azione, i termini del conflitto non si porrebbero tra un intero popolo e un esercito regolare che è “costretto” a irrompere negli ospedali tra pazienti usati come scudi umani: cosa di cui, personalmente, non dubito, avendo visto che i bunker sono sempre preclusi ai civili.

Dell’importanza delle modalità di intervento sono ben consapevoli nella amministrazione statunitense, che pare non voglia condividere l’estensione dei bombardamenti – dopo la pausa – al sud di Gaza, senza prima aver chiarito come verrà garantita la popolazione palestinese invitata, proprio dall’esercito israeliano, a rifugiarsi nel sud della Striscia. Si tratta di centinaia di migliaia di persone.

Il punto è politicamente decisivo perché sgombrerebbe il campo dall’orrore umanitario minacciato da molte dichiarazioni, non solo della destra israeliana: espellere la popolazione civile da tutta Gaza, verso il deserto del Sinai. Oltre a mettere in difficoltà l’Egitto, “buon” alleato di Israele, una tale ipotesi legittima importanti reazioni, paure, condanne che certo non aiutano.

Tutti dovrebbero capire che bisogna uscire dalla polarizzazione!

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Il pogrom compiuto da Hamas ha prodotto reazioni profonde nell’opinione pubblica, a tutti i livelli.  Sembra riportarci ad altri tristissimi tempi. Ma nella società dell’immagine, la forza delle immagini, successive – e sempre relative a sofferenze inaudite, come la fuga dei civili palestinesi, terrorizzati, dalle macerie – hanno rapidamente rimpiazzato le precedenti.

Così accade che siano cittadini israeliani a sostenere che è lecito criticare Israele. Mentre, dalle nostre parti, quasi nulla si dice, se non per criticare le comunità, ebraiche o musulmane, a seconda di chi lo dice, per quanto avvenuto in altri posti e in altri tempi.

La confessionalizzazione è l’energia negativa che alimenta la polarizzazione nei fatti, posto che finisce con l’essere strumentalizzata, sino a trascinare le identità collettive di ebrei, musulmani e cristiani. Le tre religioni così perdono i comuni riferimenti originari, sino a perdere persino “Abramo”. Mi ha colpito, tra molto altro, che, da Gerusalemme, il direttore del Givat Haviva Center for Shared Society, Mohammed Darawshe, abbia, con freddezza, affermato che le parti si contendono «il ruolo di vittime a cinque stelle». È l’umanità a perdersi.

Mentre sta proprio nel messaggio di Francesco l’energia positiva della pura “fede”, quella che riconosce, innanzi tutto, l’umanità delle vittime.  È questo che, molto semplicemente, il papa ha fatto ieri, mercoledì, ricevendo i parenti degli ostaggi israeliani e dei civili palestinesi morti o intrappolati a Gaza. Ha detto: «Le guerre fanno questo, ma qui siamo andati oltre le guerre: questa non è guerra, è terrorismo». Così ha parlato a tutti.

Il portavoce vaticano Matteo Bruni ha precisato che il Papa, parlando col gruppo palestinese, non ha usato il termine genocidio per definire la condizione di vittime della violenza israeliana: «non mi risulta abbia usato tale parola», ha spiegato Bruni. «Ha utilizzato i termini con cui si è espresso durante l’udienza generale e parole che comunque rappresentano la situazione terribile che si vive a Gaza».  La tesi opposta è stata invece sostenuta da una partecipante palestinese. Così come, peraltro, un famigliare israeliano ha avuto da dire sulle “omissioni” del papa su Hamas.

Ora, le parole certe del papa – quelle virgolettate – stanno facendo il giro del mondo.

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Il Medio Oriente è davvero andato ben al di là della concezione tradizionale di guerra e di guerre: dal 2011 i tragici fatti siriani – culminati nel terrorismo di Stato siriano sotto lo sguardo silente dell’ONU ad Aleppo est – con deportazione di tutta la sua popolazione musulmana, sono stati denunciati solo dal papa, che per due volte ha scritto al presidente Assad.

Nella prima lettera del 2016 e relativa all’assedio di Aleppo, chiese di porre termine al terrorismo da qualsiasi parte proveniente; nella seconda lettera del 2019 e relativa agli attacchi contro Idlib – riferì il cardinale Parolin – espresse «il suo appello affinché venga protetta la vita dei civili e siano preservate le principali infrastrutture, come scuole, ospedali e strutture sanitarie. Davvero quello che sta accadendo è disumano e non si può accettare. Il Santo Padre chiede al Presidente di fare tutto il possibile per fermare questa catastrofe umanitaria, per la salvaguardia della popolazione inerme, in particolare dei più deboli, nel rispetto del Diritto Umanitario Internazionale».

I vertici cristiani siriani, salvo poche eccezioni, sia nel 2016, sia nel 2019, purtroppo dissero diversamente, perché quel terrorismo di Stato colpiva comunità quasi integralmente musulmane.

Perché, ora, Francesco, non dovrebbe far arrivare il significato di quelle parole anche ad altri e a tutti? A me sembra che tenti di correggere, con una grande partecipazione emotiva, un ritardo diffuso, anche da parte delle comunità cristiane.

Continua a farmi piacere che abbia affermato che israeliani e palestinesi sono popoli fratelli che hanno diritto alla pace, sottolineando: «il Signore ci aiuti a risolvere i problemi e non andare avanti con le passioni che alla fine uccidono tutti». È un invito a uscire dal vicolo cieco, appunto, delle passioni polarizzanti, radicalizzanti. Dentro di me risuona così: recuperiamo l’umana pietà che ci è stata messa dentro!

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