Diario di guerra /7

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Come ho già chiarito non intendo scrivere dell’ospedale al Shifa, di Gaza: avrei poco da aggiungere al molto che si dice, risvegliando solo dolori e sentimenti. Ma, leggendone, mi sono ricordato di quanto ha scritto, in maniera illuminante, il professor Massimo Borghesi, nel suo bel libro Il dissidio cattolico:

«L’11 settembre (2001) è l’evento che segna uno spartiacque tra il prima e il poi, […] inaugura il mondo manicheo in cui l’Occidente combatte contro “l’asse del male” e apre l’era della teopolitica fondata sul contrasto tra amico e nemico».

Da allora, non condivido il metodo inaugurato proprio in quella circostanza dai teocon: la guerra al terrorismo. Il perché, viene da sé: la guerra al terrorismo coinvolge intere popolazioni e finisce, per sua natura, col combatterle in quanto tali.

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Ho ritrovato il filo persistente di quella guerra – ovviamente al terrorismo – nella decisione israeliana di far saltare in aria il Parlamento di Gaza. Ovviamente era vuoto: quindi non vi è morto nessuno. Ciò nonostante, mi è stato impossibile non chiedermi: «Perché? Perché farlo saltare in aria?».

Ai tempi di al-Baghdadi – posti i frequenti paragoni tra Hamas e Isis – questo non sarebbe stato possibile, per la semplice ragione che mai l’ISIS ha accettato l’idea di un Parlamento, agli antipodi delle loro convinzioni.  Né il fatto che i deputati di quel Parlamento di Gaza fossero tutti di Hamas può risolvere la contraddizione: se erano tutti di Hamas sino al 7 ottobre, la stessa sopravvivenza di un Parlamento, avrebbe potuto lasciar sperare che, almeno dopo la guerra, non sarebbe stato più così.

A pensarci bene è proprio questo il motivo per cui l’ISIS definisce quelli di Hamas «apostati»: perché hanno accettato la prassi di fare delle elezioni: un tradimento di Dio, l’unico che detiene un Diritto che non prevede elezioni.

Dissolvere in una nuvola di polvere il Parlamento di Gaza è, dunque, un atto carico di significati. A chi dava fastidio quel Parlamento, inoperoso? Era simbolo di una perversione immodificabile, interiore forse? Non poteva invece essere il segno di un futuro possibile che neppure Hamas ha potuto cancellare?

Se si voleva fare come i Marines a Baghdad, ossia abbattendo la statua di Saddam, io dico che è sbagliato: a differenza della statua del despota, il Parlamento è un simbolo in sé, non di chi lo usa. Il Cremlino è lì, dai tempi degli zar: non penso che una futura democrazia dovrebbe distruggerlo.

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Torno così a quello che per me è il problema, quello dell’identità e della sua malattia, l’identitarismo. Come ha chiesto Amin Maalouf, come «le identità diventano assassine»? Prendiamo, in questa luce, l’azione assassina del 7 ottobre: quanti nell’islam hanno saputo condannarla, proprio per ragioni superiori di identità?

Ho letto sentenze religiose che hanno cercato di dare una legittimazione al 7 ottobre! Ma un terrorista «accorto» come il leader di Hezbollah, Nasrallah, si è reso conto del vero problema: lui, un assassino senza ombra di dubbio alcuno, si è mostrato consapevole della impossibilità di definire «glorioso» quell’esercizio di disumanità. Perciò ha detto pubblicamente che le donne e i bambini il 7 ottobre non erano stati trucidati da Hamas, bensì dal fuoco di reazione israeliano!

Proprio in queste ore, accadono altre cose. Per capire, cerco una relazione. Un tribunale francese ha spiccato – primo nella storia moderna – un mandato di cattura internazionale a carico di un Capo di Stato, Bashar al Assad, insieme a suo fratello Maher. Impossibile procedere contro uno dimenticandosi dell’altro.

Il fatto − come tanto altro nella nostra letteratura quotidiana − è passato in sordina. Eppure, è molto degno di nota. «Se i crimini contro l’umanità sono tali, allora gli Stati hanno una giurisdizione universale», questo è il senso della decisione della corte francese, che stabilisce un precedente che ora può trovare seguito − come spero − in molti altri Paesi europei, occidentali e non solo. E poiché i crimini di Assad e dei suoi complici risultano documentati e orrendi, la corte francese vuole procedere a processo su istanza dei tanti siriani che erano e che, nel frattempo, sono divenuti cittadini francesi.

Perché così poca attenzione? Forse perché i crimini di Assad non sono contro la nostra identità; forse perché il gas venefico, il sarin, Assad l’ha usato per sterminare migliaia di arabi, come lui. Possiamo dire «fatti loro», a noi cosa importa?  E poi: anche la sua si diceva «guerra al terrorismo»!

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Vorrei andare alla radice dello scempio. La guerra al terrorismo, già con l’uso del termine guerra, legittima i terroristi, li eleva ad un rango militare «riconosciuto», per cui divengono validi tutti i metodi e gli strumenti della guerra «mondiale», contro di loro.  Non sarebbe più logico, proprio in virtù della nostra cultura, combatterli da criminali, quali sono? Purtroppo, non va così.

Torno al sentire collettivo: perché ci sono crimini che ci lasciano quasi indifferenti e altri che ci fanno «stracciare le vesti»? Ecco: a me sembra che ciò accada quando la guerra diventa, ai nostri occhi, una guerra tra identità, in cui anche la nostra è coinvolta: un eccesso di identità, sino alla degenerazione.

In Iraq si anelava a condannare la guerra, pure al terrorismo, perché soddisfaceva il bisogno di condannare l’America dei Bush con la sua identità sopraffattrice, a differenza del giudizio sui vari Assad o Putin, «antagonisti» degli USA e quindi, un po’, giustificabili, ovvero «problematici amici» – per alcuni – della nostra stessa «cristianità». Allora viene facile lasciar correre, non scaldarsi troppo.

Mentre il clima «tiepido» torna a riscaldarsi di incontenibile rabbia con altre «identità», come accade a Gaza. Cosa sia accaduto, in tanti anni, a tanti palestinesi dissenzienti, quando Hamas ha preso il potere, non ci ha riguardato e continua, sostanzialmente, a non riguardarci. A molti di noi è passato del tutto inosservato: eppure, c’era lotta per i diritti dei palestinesi anche nelle vittime di Hamas.

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La guerra al terrorismo è arrivata anche in Cisgiordania, ove i coloni israeliani vanno espellendo, da terre abitate da secoli, contadini palestinesi, con la inazione dell’esercito. I terroristi islamici ci sono anche in Cisgiordania. Ma quel migliaio di cacciati, solo in questi giorni, sono solo dei contadini, non pericolosi terroristi. Ancora una volta il problema è l’identità divenuta identitarismo.

Ne ha parlato il patriarca di Gerusalemme, mons. Pizzaballa, conversando con i vescovi italiani. Mi ha fatto molto piacere. Solo mi ha lasciato perplesso che lo abbia fatto a partire dalla preoccupazione per la condizione della comunità cristiana di Betlemme. Certamente non è solo una questione di identità, bensì di umanità e di diritto.

Più problematica ancora è apparsa, almeno a me, la decisione di un ecclesiastico libanese di recarsi nel sud del Libano, bombardato, per visitare solo i villaggi cristiani, come se le bombe non cadessero anche sugli altri. Ai molti cristiani che ancora contano sulla loro «diversità» in Medioriente, devo purtroppo ricordare che quasi nessuna voce dalla Siria cristiana si è levata contro lo stragismo di Stato di quel Bashar al-Assad di cui ora si chiede il processo.

Per me è dunque evidente che è l’identitarismo la malattia più perniciosa che ci affligge.

Concludo la mia pagina con la buona nota che consente ancora di ricordare e di confidare. Il tribunale francese non è fatto da giudici di fede musulmana, né di etnia araba, non si sente caratterizzato da identità: questo è il fatto importante. Per questo trovo la sua presa di posizione preziosa, per tutti: per la cultura a cui quei giudici appartengono e per le culture a cui si rivolgono.

Tutto sommato è proprio il motivo per cui papa Francesco è un’autorità morale globale, e la sua enciclica Fratelli tutti una bussola, che tuttavia a molti non piace. Mentre a me sembra l’unica medicina per il mondo.

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