L’Europa non c’è più

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Antonio Costa, Volodymyr Zelensky e Ursula von der Leyen a un summit a Bruxelles (AP Photo/Omar Havana)

Alla fine della scorsa settimana si può fare un solo bilancio: l’Unione Europea non è adatta a questo contesto geopolitico. La combinazione tra esigenze di sicurezza dovute alla Russia e disimpegno degli Stati Uniti ha reso evidente la crisi profonda dell’Unione Europea.

Forse, un giorno, il Consiglio europeo del 18 dicembre 2025 verrà ricordato come uno di quei momenti la cui rilevanza emerge nel tempo: il giorno nel quale l’Unione europea e i suoi leader hanno abdicato al ruolo che potevano avere nella storia e si sono arresi a essere nel migliore dei casi spettatori, nel peggiore vittime, di eventi che non pretendono più di controllare.

Sul fronte dell’Ucraina, l’intero Consiglio europeo ha dimostrato di essere ostaggio del Belgio. Un Paese di 12 milioni di persone, la cui rilevanza nella politica europea è sempre stata marginale e che si fa notare solo per il suo potenziale di blocco e per i problemi che la sua struttura federale crea ai progetti comuni, che si tratti di accordi commerciali o di intelligence anti-terrorismo.

Il premier Bart De Wever è riuscito a imporre la sua linea agli altri 26 membri, ha spinto il cancelliere tedesco Friedrich Merz e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen alla peggiore umiliazione pubblica di sempre: hanno dovuto abbandonare il loro piano di usare 210 miliardi di asset russi congelati in Europa per sostenere la resistenza dell’Ucraina.

Alla fine la proposta è diventata emettere debito comune per 90 miliardi di euro da girare a Kiev. Le implicazioni vanno al di là del fatto che 90 miliardi è meno della metà di 210 e che all’Ucraina di miliardi ne servono 135 nei prossimi due anni, dopo la fine del supporto americano.

Senza leader

Il senso politico di questo vertice è che in Europa non c’è una leadership e che anche i Paesi più piccoli hanno il potere di imporre le proprie esigenze, a certificare la paralisi decisionale e strategica dell’Unione.

Il problema del Belgio è noto: il premier De Wever era preoccupato delle conseguenze di espropriare di fatto la Russia dei 185 miliardi custoditi dalla società belga Euroclear. Lo schema della Commissione prevedeva di prestarli all’Ucraina come anticipo delle riparazioni di guerra della Russia, ammesso che un giorno Mosca sia chiamata a pagarle. Se la Russia non avesse rimborsato il dovuto all’Ucraina, Kiev non avrebbe rimborsato Euroclear e il prestito sarebbe diventato ufficialmente confisca.

Il premier belga ha presentato questa operazione come un rischio esistenziale per il suo Paese: il piano della Commissione aveva basi giuridiche discusse e discutibili, ma le obiezioni del Belgio non erano credibili.

De Wever temeva che la Russia facesse causa al Belgio usando un vecchio trattato commerciale di Bruxelles con l’URSS, risalente al 1989. Ma dopo il congelamento definitivo degli asset nei giorni scorsi, la Banca centrale russa ha citato il Belgio non davanti a un tribunale europeo, ma presso una corte arbitrale di Mosca che non ha alcuna giurisdizione o effetto fuori dai confini russi.

Ovviamente, Putin si guarda bene dal cercare giustizia in tribunali europei che non sono certo un contesto favorevole per lui. Inoltre, usare un tribunale dell’Unione per recuperare asset russi significherebbe ammettere che è il diritto europeo a poter determinare se la Russia può disporre o meno delle proprie riserve detenute all’estero.

L’altro argomento di De Wever era ancora più assurdo: il rischio di liquidità. Sosteneva cioè che gli Stati europei che si fossero fatti garanti del prestito, in caso ci fosse la necessità di aiutare il Belgio a rimborsare la Russia dopo una condanna di un tribunale, avrebbero potuto faticare a raccogliere i soldi sui mercati. Ma è chiaro che anche questa remota eventualità sarebbe stata nota con mesi di anticipo e ci sarebbe stato tutto il tempo di reperire le somme.

Per quanto fragili le sue posizioni, De Wever è riuscito a manipolare e piegare i grandi Paesi dell’Unione: gli è bastato avanzare come controproposta l’idea di una garanzia illimitata da parte degli altri Stati membri. E la leadership di Merz e von der Leyen si è squagliata.

Il commentatore del Financial Times Gideon Rachman vede il bicchiere mezzo pieno: il debito comune è meno rischioso dell’esproprio e si crea un nuovo precedente di uso di risorse a livello UE per affrontare le emergenze.

Peccato che fare nuovo debito senza risolvere in modo strutturale da cosa viene garantito (nuove entrate? espansione del bilancio europeo?) significa solo rinviare i problemi.

E comunque non era il piano della Commissione e del Paese più grande e in teoria influente dell’UE, cioè la Germania, dunque l’intera Unione esce indebolita nelle sue figure guida.

La solita Meloni

Come riconosce la testata Politico.eu, per garantire la vittoria a De Wever è stato decisivo il sostegno prima tacito e poi sempre più esplicito di Giorgia Meloni: la premier italiana, come ha spiegato anche in Parlamento pochi giorni fa, si è pubblicamente dichiarata scettica sull’uso degli asset russi a sostegno degli ucraini e contraria persino alla versione minimalista del piano che prevedeva di impiegare soltanto gli interessi generati dalle riserve immobilizzate.

Al Consiglio, Meloni ha fatto pesare la sua posizione. Il paradosso è che la premier così attenta al contenimento del debito in Italia finisce per spingere l’Unione europea ad accumulare ulteriore indebitamento oltre quello usato per finanziare il PNRR e il piano Next Generation EU dopo il Covid − 750 miliardi − invece che attingere ai soldi della Russia.

Le ripercussioni di questa vicenda sono disastrose per l’Europa. E’ diventato evidente che non esiste più alcun fronte compatto di appoggio all’Ucraina: oltre ai filorussi Robert Fico della Slovacchia e Viktor Orbàn in Ungheria, ora il nuovo reietto è il belga De Wever che può contare sull’appoggio più o meno esplicito di Paesi mediterranei come l’Italia e la Spagna che nei fatti non condividono la necessità di investire di più in difesa.

Ancora una volta, Meloni ha bloccato il tentativo di dare una risposta decisa a una crisi internazionale: dopo aver sabotato i vertici dei “volenterosi”, dopo essersi chiamata fuori dalle ipotesi di una forza di stabilizzazione europea dopo un’eventuale tregua in Ucraina, dopo aver impedito assieme alla Germania le sanzioni a Israele per la strage di Gaza, adesso blocca anche il piano per gli asset russi.

Congelare e passare agli ucraini quei 210 miliardi era anche un modo per evitare che gli Stati Uniti di Donald Trump realizzassero uno dei punti del piano originale per l’Ucraina, cioè gestirli in modo condiviso con i russi per la ricostruzione del Paese trattenendo a Washington, come compenso per il disturbo, una quota dei rendimenti.

Pure in questa occasione, come in molte altre, Giorgia Meloni si conferma il più prezioso alleato della amministrazione Trump in Europa per indebolire l’Unione e bloccare le iniziative che possono interferire con i piani di politica estera americana.

Dopo questo Consiglio europeo, Von der Leyen esce molto più debole, il presidente del Consiglio Antonio Costa registra un fallimento completo che contribuirà ancor di più a spostare fuori dal vertice ufficiale dei capi di governo la discussione di politica estera, Merz registra un’umiliazione storica per la Germania.

Ai tempi di Angela Merkel, le sconfitte tedesche nei Consigli europei corrispondevano a scelte di maggiore condivisione di rischi e oneri a livello europeo. Insomma, rendevano l’Unione più forte. Questa volta c’è soltanto la paralisi come risultato.

La premier Meloni è stata decisiva anche per un altro risultato problematico per l’Unione al Consiglio europeo, cioè il rinvio a gennaio dell’approvazione dell’accordo con i Paesi sudamericani del Mercosur.

Tutto rinviato a gennaio. Non si capisce bene cosa dovrebbe cambiare in poche settimane, ma la Francia di Emmanuel Macron è sotto pressione dalle lobby agricole che temono le importazioni da Brasile e Argentina. E Meloni, che aveva cambiato posizione sul Mercosur da negativa a favorevole, si è subito allineata con Parigi.

Peraltro, la premier è stata umiliata dal presidente brasiliano Lula che ha dichiarato:

«Ho parlato con Meloni e mi ha spiegato che non è contraria all’accordo, che sta vivendo un certo imbarazzo politico a causa degli agricoltori italiani, ma che è certa di poterli convincere ad accettarlo. Poi mi ha chiesto che se avessimo avuto pazienza per una settimana, 10 giorni, al massimo un mese, l’Italia avrebbe aderito».

Palazzo Chigi ha dovuto precisare, attenuare, ma senza smentire: l’Italia è favorevole a condizione che siano date garanzie agli agricoltori. Anche in questo caso il danno politico è superiore a quello concreto: l’accordo con il Mercosur, impantanato nei negoziati da 25 anni, era stato la prima reazione concreta dell’Unione Europea al ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca.

In previsione dei dazi degli Stati Uniti, che poi sono arrivati, la Commissione aveva usato i suoi poteri in materia commerciale per costruire un’alleanza alternativa a quella sempre più problematica con Washington. Adesso due dei Paesi cruciali negli equilibri dell’Unione la rimettono in discussione.

E così ci troviamo con il piccolo Belgio che agisce da sabotatore dei piani a sostegno dell’Ucraina e della Francia e dell’Italia che picconano le strategie di sopravvivenza nella globalizzazione post-americana. L’Italia agisce come alleato de facto dell’amministrazione Trump nell’impedire ogni risposta efficace europea.

Il nostro destino di pedine della storia e della geopolitica, insomma, ce lo meritiamo. E Giorgia Meloni, evidentemente, considera questo indebolimento dell’Unione Europea un obiettivo strategico dell’azione internazionale del suo Governo.

L’unico leader rimasto che sembra avere sempre i toni e le parole giuste per questo momento difficile è il presidente della Repubblica Sergio Mattarella:

Soltanto l’Europa può preservare, e dare un futuro, a quelle conquiste che gli Stati hanno garantito per decenni con i loro ordinamenti. Sempre più numerosi sono i grandi problemi di questo nostro tempo che non possono essere governati, risolti dalla dimensione del singolo Stato. Neppure il più ricco, il più grande, il più forte militarmente tra i Paesi europei può avere la capacità, o la presunzione di fare da solo in questo mondo che cambia.

Nessuno, nella politica italiana, lo ascolta.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 20 dicembre 2025

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