Lo sterminio dei profughi etiopi

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Sterminio: distruzione violenta, rapida e totale (Treccani). È uno dei vocaboli più appropriati che possano essere usati per qualificare quanto accade ai profughi etiopi che scappano dal loro Paese – dilaniato dalla guerra – attraversando il mar Rosso da Gibuti ed entrando in Asia, dallo Yemen, per raggiungere l’Arabia Saudita, ove vive una comunità di 750.000 connazionali.

I profughi che ogni anno tentano la fuga dalla ferocia del conflitto tribale che devasta l’Etiopia sono stimati dall’ONU in alcune decine di migliaia. I soldati sauditi schierati sul confine li uccidono, direttamente, a colpi di bocche da fuoco e di mitragliatrici: fatto denunciato da tempo dagli esperti dell’ONU, come dai report di alcune ONG. Questo scempio è ora documentato da centinaia di testimonianze dalle quali affiora pure l’esistenza di campi di sterminio, con tanto di fotografie e di immagini satellitari, come dall’encomiabile rapporto di Human Rights Watch (qui).

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Ecco quanto documentato: gli etiopi giungono in Yemen, al porto di Aden, su imbarcazioni precarie, da Gibuti; vengono condotti dai trafficanti di uomini in un centro di raccolta controllato da insorti yemeniti alleati dell’Iran – gli Houthi – che il report di Human Rights Watch colloca a Monabbih, vicino alla costa dello Yemen; gli Houti conducono i migranti nei pressi del confine saudita, da cui questi possono tentare di concludere il loro viaggio – che costa intorno ai 2.500 euro pro capite (una cifra enorme per chi viene dall’Etiopia!) – valicando la montagna.

Là, tra località dell’impervio interno del deserto arabico, Human Rights Watch ha ripreso l’esistenza di diffusi quanto approssimativi luoghi di sepoltura, tra i sassi e le sterpaglie: video e foto di un fatto inoppugnabile.

Le testimonianze verbali sono, per la gran parte, raccolte in Etiopia, tra i sopravvissuti rimpatriati, quasi sempre mutilati. La loro identità viene tenuta nascosta per evidenti ragioni di sopravvivenza. Gli scampati parlano di azioni militari condotte dalle forze di sicurezza saudite nelle modalità accennate. Human Rights Watch presenta ripetuti eccidi – o mass killings – espressione usata dall’autrice del report, Nadia Harman, a sostegno della quale ci sono evidenze di almeno 655 morti violente, benché le proporzioni reali non possano che essere di diverse migliaia: trattasi, come si dice, di esecuzioni a sangue freddo.

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Dopo la pubblicazione delle indagini e delle immagini raccolte da Human Rights Watch – in rete da lunedì scorso (21 agosto), ma svolte, sul campo, a giugno – pure la inglese BBC sostiene di avere la visione di immagini sepolture – non di umana pietà bensì di mero occultamento – in questi stessi giorni successivi al ferragosto.

Il governo di Addis Abeba – ribaditi i propri ottimi rapporti con Riad – ha reso noto che non ritiene di dover effettuare proprie indagini e tantomeno di sottoporre chicchessia a processi sommari, senza prove: ha chiesto e ottenuto da Riad la costituzione di una commissione d’inchiesta congiunta. Saranno, quindi, i risultati dei lavori di tale commissione a determinare eventuali conseguenze: assai prevedibilmente nulle.

Il portavoce degli Houti ha negato ogni addebito, sostenendo che i trafficanti di esseri umani sono criminali che loro contrastano. Riad, naturalmente, respinge ogni addebito, come da consuetudine collaudata già dopo le prime denunce formulate in sede ONU: per la capitale saudita non c’è alcun riscontro alle accuse. Mosca – autorevole presenza militare nella regione – non commenta, mentre Washington, principale fornitore di armi a Riad, ha chiesto una “approfondita indagine”: come da copione.

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Tutto ciò – ahinoi! – non sorprende: è solo una delle tante increspature che disseminano di morte le acque del nostro mare Mediterraneo: la conferma di un fenomeno di per sé agghiacciante che percorre la direzione che va dal Corno d’Africa alle colonne d’Ercole, ma che, ormai, evidentemente, non interessa neppure più. Basti verificare lo spazio dedicato dai media a questa ennesima, atroce, vicenda di migranti.

Eppure, si stanno consumando intere comunità – in questo caso africane – la cui destabilizzazione definitiva rischia di generare un’area di smarrimento e di rabbia dalle dimensioni continentali e dagli esiti imprevedibili.

Cosa può comportare il collasso non solo dell’Etiopia, ma anche del Sudan, dell’intero Sahel, di gran parte del Nord Africa, della Tunisia, di Libia ed Egitto? A ciò si aggiungano i disastri del Libano, della Siria, di Iraq e Yemen.

Penso che ogni nostro tentativo di analizzare in maniera disaggregata e parziale, ogni Paese o vecchia zona territoriale perdendo di vista l’insieme, il mosaico di un pezzo compatto di mondo in disfacimento, tra traffici miliardari e sopraffazioni senza limiti, possa bastare ad esorcizzare la nostra paura immediata, ma questo non scongiurerà l’apocalissi.

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