Nostalgia per la “superclass”

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In questi giorni radio e TV mi chiedono di commentare il forum di Davos. Sono un po’ restio per due ragioni: una marginale, non sono a Davos e non ci sono mai andato, l’altra è più sostanziale e rilevante. Non credo molto alla rilevanza di questi raduni dell’élite politico-economica mondiale.

Il problema «democratico»

Il mondo è sempre più complicato, decisamente troppo perché le sintesi di Davos possano spiegarlo, e ancor meno condizionarlo.

Ai complottisti, ma anche alle ONG in buona fede che protestano contro la disuguaglianza, conviene pensare che ci sia una minoranza in grado di condizionare il corso degli eventi. I complottisti denunciano lo scandalo di pochi – di solito non eletti – individui capaci di condizionare le scelte strategiche di interi paesi o continenti. Addirittura pensano – beata ingenuità – che l’élite tra le Alpi svizzere abbia manovrato la pandemia da Covid-19 per attuare un «grande reset».

I gruppi ambientalisti che in questi giorni protestano a Davos hanno la speranza che le teorie del complotto siano vere, e che davvero basti sensibilizzare l’élite radunata tra le Alpi svizzere per ottenere qualche cambiamento.

Purtroppo, basta vedere la protesta degli agricoltori in Germania, o quelle analoghe dei mesi scorsi in Olanda, o ancora i comizi elettorali di Donald Trump, per rendersi conto che il maggiore ostacolo alle politiche necessarie per arginare la crisi climatica arriva dalle opinioni pubbliche democratiche, non certo da una minoranza di persone che ha master e dottorati per capire la letteratura scientifica sulle temperature e le emissioni e che sa perfettamente cosa andrebbe fatto.

Nostalgia

Qualche anno fa andava di moda l’espressione contenuta nel titolo di un libro di David Rothkopf: la «superclass», per denunciare il distacco tra l’élite di Davos e il mondo reale.

Superclass_(book)

Oggi rimpiangiamo quei tempi ingenui, in cui pensavamo che il problema fosse lo strapotere dei banchieri di Wall Street, delle industrie della difesa, delle multinazionali che stordivano le società occidentali di bisogni non necessari.

La Davos del 2024 inizia con un evento dedicato all’Ucraina e al fatto che l’Occidente guidato dalla «superclass» sta perdendo: le élites illuminate non riescono a convincere l’opinione pubblica a continuare a sostenere la guerra contro la Russia di Vladimir Putin, le industrie della difesa non riescono a produrre le armi e le munizioni sufficienti a far resistere l’esercito di Kiev, le multinazionali che pensavano di poter controllare la politica hanno scoperto che, anche dopo aver tagliato la Russia fuori dall’economia occidentale, la sua economia regge grazie al supporto di Cina, India e paesi non allineati.

Il forum di Davos si è trasformato da esibizione della supremazia occidentale a nostalgia per il suo glorioso passato. L’attenzione sarà molto maggiore per il discorso del premier cinese Li Keqiang che per l’ennesimo intervento della presidente della Commissione Ursula von der Leyen, o per l’ormai consumato Volodomyr Zelensky: il presidente ucraino interviene a tutti questi eventi, dice le stesse cose, con una utilità marginale decrescente, direbbero gli economisti. Ormai l’Ucraina è passata in secondo piano.

Da notare che nel programma di Davos, però, non si trova un accenno a Israele e alla guerra di Gaza: giusto una mezz’ora con il presidente israeliano Isaac Herzog, ma a scorrere i mille eventi del vertice pare che l’unica crisi geopolitica sia in Ucraina.

La sintesi inutile

La vera crisi del format di Davos, forse, sta proprio in questa incapacità di affrontare le questioni controverse.

Tutto il vocabolario di Davos, come la struttura stessa dell’evento, è improntato alla filosofia della cooperazione: imprese concorrenti, governi di diverso colore politico, paesi democratici e non democratici, hanno solo differenze superficiali.

Ma le loro élites, nel giusto contesto depurato dalle polarizzazioni domestiche, possono convenire sul fatto che ci sono alcune cose da fare nell’interesse di tutti. Questo lo spirito, declinato in eventi, video e rapporti con titoli tipo «Le economie africane per avere successo devono enfatizzare la diversità». O «Proteggere la democrazia da bot e complotti».

E proteggere la democrazia da Donald Trump? O la globalizzazione dalla Cina? O il Medio Oriente dalle trame dell’Iran e dalle violenta vendetta di Israele?

A Davos niente viene chiamato con il suo nome, le grandi questioni che in privato angosciano i partecipanti vengono scarnificate fino a ridurle al loro nucleo più innocuo, un rassicurante cumulo di slogan sui quali non si può che concordare.

Questo dovrebbe nelle intenzioni del fondatore Klaus Schwab favorire la cooperazione, nella pratica rende più difficili da percepire le contrapposizioni di interessi e dunque complica, invece di facilitare, l’elaborazione di compromessi e sintesi.

rischi globali

La cosa più singolare in cui mi sono imbattuto è il report sui rischi globali elaborato sulla base delle risposte fornite da 1500 «global leader» in diversi cambi, dall’accademia alla politica.

Ho trovato veramente bizzarro che i leader globali considerino la disinformazione e la cattiva informazione il problema più grave dei prossimi due anni: cioè, la crisi climatica mette a rischio la vita sulla terra, ci sono due guerre con un potenziale distruttivo, gli Stati Uniti sono sull’orlo di una crisi democratica e il problema sono i giornalisti, i media e i social?

Ho provato a guardare anche gli altri report, pubblicazioni di decine e decine di pagine, ben confezionati, devono essere costati milioni di euro (soprattutto quello sulla cooperazione mondiale realizzato con McKinsey, immagino). E mi chiedo che scopo abbiano.

Dovrebbero interessare ai giornalisti? Di spunti interessanti dentro ce ne sono ben pochi. O forse uno strumento di lavoro per i policymakers? Non mi è chiaro cosa aggiungono a quanto già noto. L’immagine di insieme che trasmettono è di impotenza o peggio, di negazione dei problemi.

La produzione culturale di Davos sembra il punto ultimo dell’evoluzione che minaccia anche la ricerca accademica più seria: nel tentativo di non offendere nessuno, di non suscitare polemiche, di rispettare tutti i requisiti di diversity richiesti (tranne quello di diversity di idee), non resta più nulla di utile.

Montagne di parole e grafici che non dicono assolutamente nulla: il mondo è frammentato, l’intelligenza artificiale può anche essere pericolosa, la crisi climatica potrebbe essere un’opportunità o un disastro. Niente, vuoto siderale: tutto sembra già visto, già sentito, già sminuzzato e digerito fino a diventare, per usare un termine tecnico, aria fritta.

Crisi profonda

Forse il problema è che eventi di questo tipo quando sono pubblici diventano irrilevanti, perché nessuno dei partecipanti può dire quello che pensa, condividere i suoi veri timori, fare proposte ardite.

Il bello di riunioni come quella del Bilderberg – quando mi è capitato di parteciparvi – ma anche mille altre occasioni simili a porte chiuse è che si può capire davvero qualcosa, proprio perché si va oltre la patina di banalità che avvolge qualunque comunicazione ufficiale su problemi delicati.

Quindi uno dei problemi è il format, ma temo che l’aspetto più rilevante sia la crisi profonda del modello: non c’è una comunanza di intenti in un mondo diviso, i valori che l’Occidente prova a difendere – specie in Ucraina – non sono condivisi da tutti, anzi, e soprattutto non coincidono più con una sovrapposizione tra benessere economico e libertà individuale.

Il «mondo piatto» che l’élite di Davos pensava di governare a inizio anni Duemila è stato sostituito da quello della geoeconomia, nel quale cioè l’economia viene usata per perseguire obiettivi politici – dalle sanzioni ai boicottaggi ai sussidi ambientali – invece che il contrario.

In questo mondo Davos diventa il palcoscenico del declino dell’Occidente e delle sue illusioni.

Penso che gli esponenti della «superclass» ne siano ben consapevoli a livello individuale, ma si sentono poi intrappolati in un meccanismo di comunicazione, relazioni, rapporti che li costringe a fingersi interessati a dibattiti superficiali e a pubblicazioni che sono soltanto cattiva ricerca.

Chi si sottrae a questi rituali, a queste recite con attori sempre meno convinti, conquista il potere con inquietante facilità, che si tratti di Beppe Grillo, Donald Trump o Javier Milei.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 16 gennaio 2024

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Un commento

  1. Claudio 17 gennaio 2024

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