Una strana confessione

di:

prigozhin

«La morte non è la fine, è solamente l’inizio di qualcos’altro. Andremo tutti all’inferno, ma all’inferno noi saremo i migliori». Queste agghiaccianti parole di Evgenij Prigozhin sono rispuntate fuori al momento della morte del sanguinario capo della Wagner in un incidente aereo lo scorso 23 agosto. Questo probabile assassinio, truccato da incidente, ha grandi probabilità di essere stato ordinato dal vertice dello Stato russo, determinato a far pagare a Prigozhin la messa in discussione della sua autorità. Come interpretare queste sue parole, a prima vista così enigmatiche?

Questa domanda ci spinge a scartare due ipotesi seducenti. La prima percepisce in queste parole una semplice presa in giro nichilista, un’ultima provocazione ironica che prende di mira la credenza in una legge morale superiore alla volontà umana e al regno della forza. In questo caso, converrebbe allora intenderle come l’opposto del loro significato apparente: la morte vince su tutto, non c’è niente al di là di essa.

La seconda ipotesi consisterebbe nel comprendere le lapidarie asserzioni di Prigozhin come uno strumento di potere e non come l’espressione di un pensiero sincero. Il fine di queste dichiarazioni sarebbe quello di intimidire e terrorizzare il nemico. Quale limite morale possiede infatti un uomo che sfida il proprio destino escatologico? Una simile postura richiede uno sviluppo organizzato e implacabile della distruzione, qualcosa che ispira paura. Il capo di guerra russo non aveva forse interesse a incarnare questo ruolo e a proiettare di sé l’immagine terrorizzante del guerriero implacabile?

Un fondamento teologico

Tuttavia, vorrei dare un’altra lettura delle affermazioni di Prigozhin, tentando di esplicitarne i fondamenti teologici. Parto dunque dal principio che non mente, che crede veramente in ciò che dice: «La morte non è la fine, è solamente l’inizio di qualcos’altro. Andremo tutti all’inferno, ma noi all’inferno saremo i migliori». Aggregazione brutale e succinta di idee apparentemente contradditorie.

Letta separatamente, la prima parte della frase si può comprendere come un atto di fede e una testimonianza di speranza. Esprime alla sua maniera ciò che ogni persona credente può intuire, ovviamente con un’intensità e una frequenza variabili. La morte non è né il termine temporale, né la finalità del mondo creato da Dio.

Ciò si traduce a livello individuale con la speranza di un attraversamento della morte biologica. Per Prigozhin, esiste «qualcos’altro» dopo la vita terrena. La morte appare temperata dalla speranza di una vita dopo la morte; è un passaggio e non un muro invalicabile, «giusto» la prima tappa di una nuova vita che si svilupperà in una relazione di continuità trasformatrice con l’esistenza così come la conosciamo.

Una sinistra fatalità

La seconda parte smentisce del tutto questa interpretazione ottimista e modifica radicalmente il senso della prima: la morte non è più trasfigurata dalla speranza in una vita trasfigurata, ma viene smisuratamente gravata dal peso dell’inferno. L’escatologia della speranza si muta in escatologia della disperazione; l’attesa escatologica non ha più per oggetto la salvezza ma la dannazione; la speranza è sfigurata, strappata alla radice, perde ogni significato positivo. Non resta altro che una sinistra fatalità, piattamente prevista in quello che appare un soprassalto di lucidità: «Andremo tutti all’inferno».

Se la prima frase contrasta con la seconda, non è tanto per una ragione logica quanto per un effetto retorico. Non c’è niente nel tono della prima che fa presagire effettivamente il contenuto della seconda. Dal punto di vista della logica religiosa, d’altra parte, vita terrestre e vita dopo la morte sono strettamente correlate: quello che viene realizzato nella vita terrena influisce su quello che verrà vissuto dopo la morte. Vi è quindi una continuità di senso tra le due frasi, non siamo davanti a qualcosa di assurdo. Questo ci impedisce di fare di Prigozhin un nichilista.

In una maniera sconcertante, egli sembra volgere le spalle a ciò che tuttavia riconosce essere una realtà, cioè Dio e i suoi comandamenti. Il criminale non nega la sua partecipazione deliberata al male, alla sua opera di distruzione e alla sua inevitabile conseguenza, che ai suoi occhi è l’inferno. Al contrario, il suo spirito è saturato dalla coscienza del male commesso, se non addirittura consumato dal senso di colpa. Si potrebbe pensare che in queste condizioni sia stata possibile una conversione morale, pur se non avrebbe certo potuto rimediare ai suoi crimini né risuscitare le innumerevoli vite ucraine distrutte.

Relativizzare i propri crimini

Ma, invece di aprirsi alla conversione e pentirsi, Prigozhin radicalizza ancora di più le sue posizioni. Non solo generalizzando la sua profezia pessimista – «Andremo tutti all’inferno (…)» – ma trapiantandovi il fantasma di una volontà di dominio totale finalmente appagato – «(…) ma all’inferno saremo i migliori».

A chi rinvia quel «tutti»? All’insieme dell’umanità oppure ai suoi accoliti, promossi a seminatori di desolazione? La valorizzazione della violenza e il desiderio di vincere nel gioco degli istinti per il dominio politico fa propendere per la seconda ipotesi. A meno che Prigozhin nutrisse la concezione ultrapessimista e antiquata di un’umanità irrimediabilmente perduta, promessa alle sofferenze eterne inflitte da un Dio inflessibile davanti a ogni forma di peccato.

L’universalizzazione dell’inferno può anche essere per Prigozhin un modo per addossare all’insieme dell’umanità l’esistenza del male e, così, relativizzare i propri crimini. Questo pessimismo radicale è indissociabilmente morale – in quanto giudica la natura umana – ed escatologico – in quanto concerne il destino dell’umanità.

Mi ricorda l’asserzione di un personaggio secondario dei Fratelli Karamazov di Dostoevskji: «Ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti e per tutto, e io più di tutti gli altri». In Prigozhin, questa disposizione a percepire il male come la realtà fondamentale e insuperabile della storia sembra opporsi ad ogni idea di salvezza, che questa prenda la forma della grazia già all’opera nel mondo o l’apparenza di un’eternità felice che si apre agli uomini dopo la loro morte.

«I migliori»

In ogni caso, l’essenziale è altrove, nella rivelazione sconcertante secondo la quale lui e gli altri «andranno» all’inferno «ma» vi figureranno tra i «i migliori». Questo tentativo di rifondare la speranza dandogli un nuovo oggetto – il dominio – si presenta come una compensazione del destino infernale, da cui questo «ma» che rivela uno strano stoicismo d’adesione al peggio. Rifiutandosi di trasfigurare la prova della morte attraverso la speranza della salvezza, dunque per il rigetto immediato e determinato del male, Prigozhin relativizza la prova dell’inferno con la speranza di regnarvi sovranamente, quindi attraverso la pratica continua e consapevole del male.

L’escatologia disperata trova la sua patetica scappatoia: il fantasma di un dominio senza fine. Meglio vincere all’inferno attraverso il dominio, che rinunciare all’inferno e al regno della forza. Poiché si designa ultimo agli occhi di Dio, Prigozhin può intronizzarsi come primo nel mondo privato di Dio, prendendo in contropiede l’avvertimento del Cristo – «Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno i primi» (Mt 19,30) – e misurando le conseguenze di questa scelta: «all’inferno saremo i migliori».

Lo statuto di signore assoluto dell’inferno trasfigurerebbe così la condizione di condannato all’inferno. Questo fantasma di onnipotenza è già patente all’inizio della frase, nella maniera di appropriarsi del ruolo di Dio nell’esercizio del giudizio ultimo, anticipandolo per autocondannarsi.

Una strana confessione

Una linea mortifera lega l’escatologia della disperazione alla figura del criminale di guerra. Penetrato dal sentimento del proprio essere perduto, Prigozhin ricorre alla violenza come sola legge valida, prefigurazione della costituzione dell’inferno al quale si dichiara destinato.

«All’inferno saremo i migliori». Questa frase risuona come una strana confessione. Prigozhin riconosce che non è vincitore ovunque, uno spazio gli sfugge che non è l’inferno e dove la legge del dominio non prevale. Non sarà che sulla terra il soffio invincibile dello Spirito stia già strappando il mondo all’impero totale della violenza? È possibile che al di là del tempo si stia già edificando il Regno dell’amore e della pienezza?

Se tali intuizioni avessero attraversato Prigozhin, devono avergli lasciato il peso morto di un’amarezza infinita.

Pubblicato da La Croix l’11 settembre 2023. Foucauld Giuliani è professore di filosofia, poeta e membro del collettivo Anastasis, autore del libro La vie dessaisie, Desclée De Brower 2022.

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