Essere ebrei dopo Gaza

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Essere ebrei dopo la distruzione di Gaza è il titolo di un libro di Peter Beinart che, a fine maggio, è stato pubblicato in lingua italiana. Il titolo già rivolto al futuro, al «dopo Gaza», propone una riflessione sull’ebraismo che, come ha fatto Anna Foa col libro Il suicidio di Israele, interroga sul futuro dello Stato e del popolo di Israele.

copertina

Fin dalle prime pagine traspare la profonda e dolorosa divisione che esiste, in tutto il mondo, tra – e nelle – comunità ebraiche. L’autore, prima del prologo, apre il libro con una lettera intitolata «Un messaggio per un mio ex amico». In queste due pagine emerge la radicale contrapposizione tra gli ebrei che sostengono, in modo ostinato ed incrollabile, lo Stato di Israele e coloro che, come il giornalista autore del libro, hanno il coraggio di criticare le scelte del governo di Tel Aviv. Non c’è un nome per questo «ex amico» che, molto probabilmente, è solo una figura dettata dalla finzione narrativa. Il risultato è molto efficace: nelle ultime righe di questa lettera, l’autore anticipa il tema del «tribalismo», verso il quale rischiano di scivolare i cittadini di Israele, le stesse comunità ebraiche della diaspora, e forse il mondo intero.

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Gran parte delle argomentazioni di Beinart ruotano attorno al ruolo della narrazione, che il processo di secolarizzazione avrebbe distorto, o comunque mutilato, per motivi di convenienza. L’autore inizia, ad esempio, dalla analisi della festa di Purim, nella quale gli ebrei leggono «la storia di un tentato genocidio» a loro danno. Il racconto, tratto dal Libro di Ester, è quello del consigliere Aman che suggerisce al re persiano di emanare un editto per sterminare tutti gli ebrei. Aman, alla fine, viene ucciso, ma il bene trionfa sul male.Agli ebrei − sostiene Beinart − la storia viene raccontata, nel giorno di Purim, sino a quel punto: in realtà, nel testo biblico, la storia prosegue.

Nonostante la morte di Aman l’editto resta in vigore. Così Mardocheo viene invitato a prendere in mano la situazione e difendere gli ebrei. Così «i Giudei colpirono i loro nemici a colpi di spada», «uccidendoli e sterminandoli fecero dei nemici quello che vollero»; «il tredicesimo giorno del mese di Adar, gli ebrei uccisero settantacinquemila persone» e il giorno seguente, con il sangue dei nemici ancora fresco, fecero festa e baldoria. «Il Purim – conclude l’autore – non parla soltanto della minaccia dei gentili nei nostri confronti. Ma anche della minaccia che noi (ebrei) rappresentiamo per loro».

Questo è solo un esempio: nelle pagine successive, lo scrittore propone un elenco di festività religiose ebraiche che, rispetto ad altre, oggi meno sentite, suscitano una forte adesione all’interno delle comunità. Beinart sostiene che ciò è dovuto al fatto che «nella modernità, gli ebrei sono diventati più secolari. A eccezione di una minoranza osservante, non ci descriviamo più come un popolo eletto da Dio per seguire le leggi scolpite sul Sinai. Ci descriviamo piuttosto come un popolo destinato dalla storia a confrontarsi perpetuamente con l’annientamento, ma che, in modo miracoloso, riesce sempre a sopravvivere».

L’autore prosegue con diversi altri esempi di manipolazione narrativa, mirata a ritagliare, per gli ebrei, l’abito della vittima in modo da farlo sembrare naturale. In questo senso, viene evocato qualcosa di famigliare, mentre si offusca la parte inquietante: ovvero che anche gli ebrei possono comportarsi come faraoni egizi.

La narrazione dominante, dunque, è soggetta a mutamenti e manipolazioni: è cosa risaputa, non solo in ambito ebraico. Per mio padre, gli eroi dei film western erano inequivocabilmente i Cow Boys. Per quelli della mia generazione, il racconto del Far West aveva già subito una evoluzione ed era diventato quello di pellicole come il Soldato Blu o Balla coi lupi. La narrazione, influenzata dai mutamenti culturali, era passata dalla parte dei nativi americani.

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Mi scuso per questa digressione cinematografica, ma è perfettamente attinente alla linea del libro di cui si tratta. L’autore riporta alcuni scritti dei primi sionisti, degli inizi del Novecento. Vladimir Jabotinsky, nel suo libro Il muro di ferro, definiva «nativi» gli arabi della Palestina mandataria e li paragonava agli indiani sioux. In parallelo, i coloni sionisti venivano accostati ai «padri pellegrini» che colonizzarono il Nord America. Oggi quella narrazione è caduta in disgrazia tanto più che, come ci ricorda l’autore, l’ex ambasciatore israeliano negli USA, Michael Oren, qualche anno fa paragonava gli israeliani ai Sioux.

Gli accostamenti storici sono funzionali alla dimostrazione: Beinart esplora casi che, probabilmente, conosciamo. Si sente dire: «Israele ha il diritto di difendersi, come lo avrebbero anche gli Stati Uniti se venissero attaccati dal Messico». E poi la classica domanda: «E la Germania nazista? Gli alleati si sono semplicemente difesi – colpendo purtroppo anche i civili – nel territorio tedesco».

L’autore, tuttavia, ha ben chiaro che nessun accostamento storico è immediatamente possibile. La Germania nazista era uno Stato sovrano, mentre gli abitanti di Gaza non vivono in uno Stato sovrano e non possono gestire confini territoriali che, da parecchi anni, sono determinati dall’esercito israeliano. «A Gaza, Israele non sta combattendo contro i cittadini di un altro Paese», scrive Beinart. «Sta combattendo contro persone prive di cittadinanza perché Israele le ha costrette a lasciare la loro terra e le ha confinate in un ghetto sulla costa. È difficile trovare analogie contemporanee per questo tipo di guerra, perché è un ritorno all’epoca coloniale». La migliore analogia possibile – per tornare al Far West – è quella delle aggressioni dei coloni americani alle riserve indiane.

L’autore non trascura il fenomeno del crescente antisemitismo. Anche in questo caso, però, l’approccio è originale, almeno per un ebreo. Beinart racconta che, sino alla metà del XX secolo, le organizzazioni ebreo-americane erano più impegnate nelle battaglie per i diritti civili che nella difesa dello Stato di Israele. La Guerra dei Sei giorni rovesciò la situazione geopolitica catapultando il sionismo al centro della vita istituzionale ebraico-americana. Fu così che «la Guerra dei Sei giorni del 1967 – come sostiene lo storico Steven T. Rosenthal – trasformò Israele in un oggetto di venerazione secolare».

Tale repentino rovesciamento ebbe una ricaduta anche sulle alleanze tra i sionisti e la politica americana. Tra i politici di sinistra iniziò a diffondersi la solidarietà per la causa palestinese. Per contro il movimento sionista iniziò ad avvicinarsi ai partiti conservatori, sebbene in questi, come dimostrano le numerose ricerche citate da Beinart, trovassero maggior radicamento idee antisemite.

È un paradosso che, arrivando ai giorni nostri, può essere sintetizzato in questo modo: i suprematisti ebrei di Israele appoggiano i suprematisti bianchi americani, i quali, in molti casi, non nascondono nemmeno le loro pulsioni antisemite. La cosa apparentemente incomprensibile trova qui una spiegazione. Ciò che unisce soggetti così distanti sarebbe, dunque, la visione «tribalista» della società. In quest’ottica l’ebraismo viene impoverito e ridotto a legame tribale.

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Il libro è caratterizzato da tanti altri esempi che l’autore documenta attentamente. Il capitolo conclusivo esplicita la tesi de «i figli di Korech». Korech è un personaggio che compare nel Libro dei Numeri: è l’antagonista di Mosè e Aronne. Beinart riporta testualmente: «Vi basti! Tutta la comunità è di tutti santi, e in mezzo a loro è il Signore; perché vi elevate al di sopra della congrega del Signore?», proclama Korech. Per risolvere la contesa Mosè offre incenso a Dio e invoca il suo giudizio. «Dio appare, la terra si squarcia e inghiotte Korech».

A una prima lettura non risulta ben chiaro cosa abbia fatto di tanto male Korech. Lo stesso Beinart si pone questa domanda e, per trovare la risposta, propone l’interpretazione formulata da Yeshayahu Leibovitz. Per questo intellettuale ebreo bisogna riprendere i versetti precedenti là dove Dio ordina a Mosè: «Affinché vi ricordiate ed eseguite tutti i Miei precetti e siate santi al vostro Dio». Dunque, la santità è condizionata al rispetto dei comandamenti. Nell’invocazione di Korech, al contrario, gli Israeliti sono già tutti santi, di una santità intrinseca.

L’autore richiama anche un’altra tesi di Leibowitz che riguarda il concetto di «popolo prescelto», o «eletto». Non si tratta di una superiorità predeterminata bensì di una condizione che prevede particolari obblighi. «Nella Bibbia i profeti non dicono al popolo ebraico che non ha mai torto». «Gli dicono che è proprio per il rapporto unico che lo lega a Dio che i suoi errori non possono essere perdonati».

Di questa fraintesa superiorità elettiva ed infallibilità si trovano numerosi esempi nella storia dell’ebraismo. Beinart recupera citazioni tra poeti, filosofi e rabbini che, nel corso dei secoli, hanno denunciato la distorsione. Fintanto che erano singoli pensatori ad esprimersi, non potevano esserci concrete conseguenze. Il problema, a detta dell’autore, è comparso con la nascita dello Stato di Israele: un fatto che ha comportato il potere di vita e di morte su milioni di non ebrei; da allora l’invettiva di Korech sull’intrinseca santità ebraica è diventata il vero problema.

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Il pericolo va a braccetto con un altro fenomeno che l’autore è andato ad indagare: quello della idolatrizzazione dello Stato. L’idolatria è uno dei peccati più gravi per l’ebraismo. «Nel Talmud – ricorda Beinart – il rabbino Jochanan definisce il rifiuto dell’idolatria la vera essenza dell’essere ebreo». Nonostante l’assunto, negli ultimi decenni, abbiamo assistito, in buona misura, alla sostituzione dell’ebraismo con lo Stato di Israele. L’autore porta esempi di come, sempre più spesso, nelle comunità americane si sorvoli sui precetti dell’ebraismo – come andare in sinagoga o rispettare lo Shabbat – mentre sia assolutamente non tollerato il mancato riconoscimento di Israele.

A tal proposito le parole usate nel 1963 da Abraham Joshua Heschel, riportate nel libro, suonano estremamente attuali: «Agire nello spirito della religione significa unire ciò che è diviso, ricordare che l’umanità intera è figlia di Dio. Agire nello spirito della razza – o di un suprematismo tribale di qualunque genere, precisa Beinart – significa separare, spaccare, smembrare la carne dell’umanità vivente». Le parole usate da Heschel sessanta anni fa si riferivano al suprematismo dei bianchi americani. Ma quegli stessi concetti si possono oggi utilizzare per descrivere il suprematismo degli ebrei di Israele.

Nelle ultime pagine, l’autore traccia un parallelo tra l’attuale situazione del Medioriente e i conflitti tra protestanti e cattolici in Irlanda del Nord e anche, in modo ancor più significativo, tra bianchi e neri nel Sudafrica dell’apartheid. Tutti questi contesti sono caratterizzati dal suprematismo di una parte rispetto all’altra. Quello che ci insegnano i casi storici è che la rinuncia al suprematismo della parte dominante non porta necessariamente a ritorsioni da parte dei discriminati.

I bianchi sudafricani guardavano con terrore all’uguaglianza. Tuttavia, quando finì il regime dell’apartheid essi non subirono la vendetta dei sostenitori di Nelson Mandela. L’inclusione non porta necessariamente ad una situazione idilliaca, su questo l’autore è molto chiaro. In Irlanda del Nord e Sud Africa, persistono ancora oggi iniquità e divisioni tra le diverse comunità. Ciò nonostante, vincere la sfida dell’inclusione è fondamentale perché, usando le sue parole, «non è che rinunciare alla supremazia genera incolumità, ma rinunciare alla supremazia offre una possibilità di liberazione».

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Il libro si chiude con un messaggio di straordinaria potenza. L’autore, con alcuni passi dalla Bibbia ebraica e dal Talmud, accenna alla emancipazione dalle paure dell’altro da sé, all’alleggerimento del peso del sanguinoso passato. Per gli ebrei tale liberazione corrisponde anche all’emancipazione dal fardello del percepirsi come «eterne vittime».

A sostegno, cita il Levitico: «E proclamerete libertà nella terra per tutti i suoi abitanti». La frase è molto chiara, si offre la libertà per «tutti» e non solo per gli «schiavi». Infatti, secondo tutta la tradizione dell’ebraismo «non si parla solo del modo in cui Dio ci ha liberato dalla schiavitù. Si parla di come Dio ci ha liberato dall’essere padroni». Un passo del Talmud recita inoltre così: «Chi acquista uno schiavo ebreo acquista un padrone». La spiegazione, secondo Beinart, è semplice: «L’essere padrone di schiavi ti rende a tua volta schiavo», ed è per questo che nell’anno del Giubileo «liberando l’oppresso, si libera anche l’oppressore».

Quando ho iniziato a leggere volevo capire meglio gli ebrei e il loro rapporto col massacro dei palestinesi a Gaza. Ma la lettura, specie delle ultime pagine, mi ha portato a riflettere, come sempre quando si va in profondità, su di me e su di noi, cristiani, cattolici, italiani, europei. Forse la domanda implicita al titolo del libro – Essere ebrei dopo la distruzione di Gaza – non può che essere estesa: sarà ancora possibile dirsi umani dopo questo massacro?

Non è certo un caso se l’autore, nella penultima pagina, suggerisce che «nella sua incontrollata crudeltà e nel suo intollerabile dolore, la distruzione di Gaza è un simbolo della nostra epoca». Quasi due generazioni fa, ricorda Beinart, abbiamo vissuto una straordinaria ondata di libertà e di speranza: la caduta del Muro di Berlino, le prime elezioni in Russia, la vittoria di Mandela e la fine dell’apartheid. Tutto questo non c’è più, lo spirito di quell’epoca è morto e sepolto. Oggi, commenta, «i criminali dominano il globo, incitando alla violenza tribale, mentre derubano le loro nazioni».

La distruzione di Gaza può essere, però, il punto di una svolta per una liberazione che non sia solo dei palestinesi. Beinart lo dice in chiusura, ancora una volta, con una citazione biblica: «Parlando degli eredi di Abramo nel libro della Genesi, Dio dice: “E tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua progenie, perché tu hai ubbidito alla mia voce”. Forse è questo ciò che significa oggi per il popolo ebraico benedire l’umanità: significa liberarci dal suprematismo e contribuire, insieme ai palestinesi, a liberare il mondo».

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