Lo scorso 21 gennaio è apparso su SettimanaNews un articolo di Amedeo Cencini dal titolo Per una Chiesa, e un prete, in missione. L’articolo nel suo complesso e alcuni passaggi in particolare hanno suscitato vivaci reazioni da parte di chi lo ha letto, come dimostrano i numerosi commenti via via pubblicati nei giorni successivi.
Il testo di Cencini non ha lasciato indifferente neanche me, anzi, mi ha dato molto da pensare.
Ambiguità e comunicazione
L’ambiguità è elemento “naturale” di ogni atto linguistico in quanto atto comunicativo. La comunicazione si struttura, infatti, a partire dal movimento che il messaggio compie nel suo amb-agere, nel suo procedere peregrinando da emittente a ricevente/i.
Le strettoie del canale comunicativo che si protende fra le nostre intenzioni di dire e l’altrui comprensione rappresentano uno dei fattori primari di rischio, rispetto all’ambiguità.
Per ridurre questo rischio, l’emittente della comunicazione deve sforzarsi di dare forma ad un dettato chiaro, univocamente interpretabile, che presti il fianco il meno possibile al gioco polisemico che dà esca alle pluralità ermeneutiche.
D’altra parte, proprio il gioco polisemico qualifica l’atto comunicativo come “atto ironico”: in omaggio all’eironeuomai greco, in cui il detto viene sempre a dire non ciò che dice, ma ciò che non dice, la polisemia può farsi di volta in volta cifra artistica oppure strumento di difesa – modalità efficace e a basso costo escogitata dall’emittente per tenere celate le proprie vere intenzionalità.
Se alcune forme testuali – un ricettario di cucina, ad esempio – sono costitutivamente chiamate a superare la polisemia attraverso processi di semplificazione che riducano in modo drastico le possibilità di fraintendimenti, altre, invece, trovano nell’ambiguità del modus cogitandi che le sottende il terreno di coltura di modalità comunicative che della mancanza di trasparenza fanno il loro elemento distintivo.
Esempio efficace di questa tipologia comunicativa giocata sull’ambiguità sono tanti testi curiali contemporanei, caratterizzati da un’ambivalenza lessicale che trasferisce a livello di significante le oscillazioni di un pensiero che, nonostante le dichiarate buone intenzioni, si muove ancora indeciso tra spiragli di apertura allo spirito del Vaticano II e un inveterato retaggio maschilista e sessuofobo, incrostato di clericalismo.
Chiesa istituzione e preti al centro
L’articolo in questione prende le mosse da un’osservazione preliminare: in questo nostro tempo critico è difficile parlare di ratio, intesa come «regola, progetto definitivo, indicazione vincolante», soprattutto «in relazione a un’istituzione che sta conoscendo una fase piuttosto problematica, e a una figura che ne è al centro (sia dell’istituzione che della crisi), come quella del prete».
L’ambiguità, qui, non si gioca tanto sul testo in sé, le cui parole molto chiare danno per scontato il concetto che la Chiesa sia un’istituzione al cui centro c’è la figura del prete. L’ambiguità si innesca, piuttosto, nel dialogo implicito con tutta una serie di documenti prodotti da qualche anno a questa parte in merito alla parola sinodalità.
Da una parte, la sinodalità come dimensione costitutiva della Chiesa, Popolo di Dio, secondo le direttrici di senso tracciate dal testo della Commissione teologica internazionale del 2018, La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa: «La sinodalità, in questo contesto ecclesiologico, indica lo specifico modus vivendi et operandi della Chiesa Popolo di Dio che manifesta e realizza in concreto il suo essere comunione nel camminare insieme, nel radunarsi in assemblea e nel partecipare attivamente di tutti i suoi membri alla sua missione evangelizzatrice».1
Dall’altra parte, la Chiesa come società ineguale di ineguali, secondo le affermazioni espresse con chiarezza dalla Vehementer nos di Pio X del 1906, che tracciava una linea di demarcazione netta tra presbiteri – centro e vertice della Chiesa gerarchica – e docile gregge: «La Chiesa è per sua natura una società ineguale, cioè una società formata da due categorie di persone: i Pastori e il Gregge, coloro che occupano un grado fra quelli della gerarchia, e la folla dei fedeli. E queste categorie sono così nettamente distinte fra loro, che solo nel corpo pastorale risiedono il diritto e l’autorità necessari per promuovere e indirizzare tutti i membri verso le finalità sociali; e che la moltitudine non ha altro dovere che lasciarsi guidare e di seguire, come un docile gregge, i suoi Pastori».2
È sullo sfondo di questa ambiguità concettuale che diventa ancora più urgente riformulare la domanda che Cencini pone a chiusura della sua premessa: «quale prete e per quale Chiesa?».
Le vostre vie sono le mie vie?
Già, quali preti? L’articolo di Cencini dà conto della recente promulgazione, da parte del Dicastero per il Clero, della Ratio Nationalis Institutionis Sacerdotalis (Norma nazionale della formazione sacerdotale) per l’Italia, la quale si presenta, a sua volta, come emanazione della terza edizione, risalente al 2016, della Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis.
Nell’introduzione della Ratio Fundamentalis si legge: «Il dono della vocazione al presbiterato, posto da Dio nel cuore di alcuni uomini, impegna la Chiesa a proporre loro un serio cammino di formazione». Uomini chi? Uomini maschile inclusivo (uomini-umanità, l’indistinto che comprende anche il genere femminile, come quando recito “per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo…”) o uomini maschile esclusivo (uomini-maschi, senza dubbi e senza contraddizioni)?
Qui, credo, possiamo ragionevolmente sgomberare il terreno da qualsiasi ambiguità e supporre che, nelle intenzioni dei redattori del testo, trattasi non di altro che di maschile esclusivo. Ne consegue che, sempre secondo i redattori del testo, Dio sia ben attento ad elargire il dono della vocazione al presbiterato, quanto meno nella Chiesa cattolica, con riguardo particolare al sesso dei vocati.
Ora, se nella frase «posto da Dio nel cuore di alcuni uomini», si può asserire con certezza che l’espressione alcuni uomini faccia riferimento solo ed esclusivamente ad uomini-maschi, ne consegue un’altra interessante e per nulla ovvia conseguenza, ossia che, benché i pensieri di Dio siano impenetrabili (…I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie…), di uno almeno dei suoi pensieri possiamo dire di avere piena e indefettibile contezza: la vocazione a diventare preti cattolici Dio la pone soltanto nel cuore dei maschi.
E se qualche donna si sente chiamata? Nessun problema. O la sua non è una vera vocazione o, ipotizzando una confusione di ramo ecumenico, la si inviterà cortesemente a spostarsi ad altra confessione cristiana.
Castità come garanzia
Ma arriviamo al passaggio testuale che ha suscitato maggiori perplessità. Si tratta del breve paragrafo titolato “Castità come garanzia del dono di sé”.
L’ambiguità comunicativa si lega qui, in prima istanza, all’uso della parola garanzia, termine del lessico giuridico-economico che indica, di per sé, il mezzo idoneo ad assicurare l’adempimento di un impegno o di un’obbligazione. Posto il valore tecnico (giuridico-economico) della parola, possiamo stabilire una equivalenza logico-semantica fra le frasi:
- Assegno come garanzia del saldo del debito
- Castità come garanzia del dono di sé
Se si assume la parola garanzia nel suo valore economico-giuridico, la frase nella sua interezza viene a collocarsi su un piano economico-giuridico: così come si può richiedere un assegno a garanzia di un pagamento, si può richiedere la castità a garanzia del dono di sé. Diventa necessario, allora, domandarsi se sia possibile pensare il dono, e nello specifico il dono di sé, in termini economici. Detto altrimenti: il dono ammette delle garanzie? Il rapporto basato sul dono può pretendere o offrire delle garanzie? Ancora, si dà “dono” nel momento in cui vengano chieste o offerte delle garanzie?
È evidente che, se nella frase “Castità come garanzia del dono di sé” la parola garanzia è assunta secondo il significato proprio, le qualità costitutive del dono – libertà e gratuità – vengono inficiate. Il dono è veramente tale nella misura in cui è libero e gratuito, e non chiede e non dà assicurazioni e garanzie; diversamente, sarebbe un bene mercantile, un contratto, non un dono.
Dato per plausibile che l’intenzionalità comunicativa non volesse virare verso orizzonti di mercato, si può scartare questa ipotesi interpretativa e prendere in esame la possibilità di intendere la parola garanzia secondo un significato secondario, quello che si evince da una frase del tipo:
- Riflessi verdi garanzia della genuinità dell’olio
Qui garanzia vale “segno, dimostrazione”: se l’olio presenta riflessi verdi, vuol dire che è genuino. Allo stesso modo, se c’è la castità, vuol dire che c’è dono di sé.
Ma, a questo punto, si apre un secondo livello di ambiguità, questa volta in relazione alla parola castità.
Quid est castitas?
Il significato d’uso comune della parola castità rimanda alla sfera sessuale dell’esistenza. Castità significa astensione da rapporti sessuali o, tutt’al più, da rapporti sessuali non leciti, fuori e dentro il matrimonio.
Questa interpretazione restrittiva, in senso sessuale, della parola castità trova fondamento e ragione nell’impianto moralistico della religione romana, fortemente condizionata dal timore dell’impuro. Le pratiche religiose romane si fondavano sul precetto della castità rituale, come ben illustra Tibullo nella prima elegia del II libro: chi la notte ha goduto dei piaceri di Venere, non può avvicinarsi all’altare, non può prendere parte ai riti sacri.
…discedat ab aris,
cui tulit hesterna gaudia nocte Venus.
Casta placent superis.
…Si allontani dall’altare
chi la notte passata ha goduto i doni di Venere.
La castità piace agli dèi.3
Ma, pensare la castità solo in termini sessuali è riduttivo e impoverente. Ormai anche la religione cattolica ha abbandonato il moralismo fine a sé stesso, tant’è vero che l’articolo stesso ci propone una risposta alla domanda “Che cos’è la castità?” in questi termini: «La castità è il contrario del possesso in tutti gli ambiti della vita». Niente o quasi a che vedere con il sesso, dunque.
Castità come qualità evangelica
Niente a che vedere con il sesso, anzi. La castità si declina come atteggiamento interiore e fattivamente concreto, come postura esistenziale che libera dalla volontà di possesso in tutti gli ambiti della vita, nelle relazioni con le persone, nelle relazioni con il mondo, con il creato, con il tempo, perfino con noi stessi. Non sono padrona di niente, neanche di mio marito, neanche dei miei figli e delle mie figlie, neanche delle mie allieve e dei miei allievi. Neanche del mio giardino, neanche della mia vita. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore.
Bellissimo. Evangelico, profondamente evangelico.
Come ribadisce l’articolo, infatti, le relazioni evangeliche «sono libere da ogni forma di potere sull’altro e d’autoreferenzialità, e capaci di custodire con rispetto i confini della propria e altrui intimità, ovvero il mistero dell’io e del tu».
Bellissimo, davvero. Ma allora perché – sempre secondo l’articolo – «la castità diventa la cifra del modo d’amare e di vivere le relazioni tipiche del celibe e del prete celibe, chiamato a vivere molte relazioni ma senza possedere alcuno»? Declinata in questi termini, come qualità evangelica, anzi come qualità evangelica per eccellenza, la castità non dovrebbe essere la cifra del modo di amare e di vivere le relazioni tipico di chiunque si metta alla sequela di Cristo?
Per chi è, dunque, il vangelo? Chi è chiamato a vivere relazioni evangeliche libere dal potere e dalla autoreferenzialità? Solo i preti, etero o omo che siano, o tutti e tutte? E la Chiesa, la Chiesa che cos’è?
Intanto, mentre il clericalismo non perde occasione per fare capolino, dalle parole dette e da quelle non dette trapela un inquietante sottotesto. Perché, se solo dei preti, casta dei casti, si dice che sono chiamati a vivere molte relazioni senza possedere alcuno, gli altri – i padri, i mariti, i fidanzati – si possono sentire implicitamente autorizzati a vivere le loro (poche?) relazioni nel segno del possesso esclusivo. Che così sia, la contabilità annuale dei femminicidi ce ne dà triste conferma.
Non fate quello che fanno
Concludo la mia riflessione tornando ai due documenti di cui veniva a dare conto l’articolo di Amedeo Cencini. Nelle pagine introduttive della Ratio Fundamentalis si legge: «La vocazione al presbiterato è un dono che Dio fa alla Chiesa e al mondo, una via per santificarsi e santificare gli altri che non va percorsa in maniera individualistica, ma sempre avendo come riferimento una porzione concreta del Popolo di Dio».
Per ribadire l’importanza di questo legame concreto tra presbiteri e Popolo di Dio, la Ratio attinge al repertorio di papa Francesco, in particolare ad una di quelle immagini colorite cui Francesco ci ha abituati fin dall’inizio del suo pontificato: «L’idea di fondo è che i Seminari possano formare discepoli missionari “innamorati” del Maestro, pastori “con l’odore delle pecore”, che vivano in mezzo a esse per servirle e portare loro la misericordia di Dio».
L’immagine è efficace, nulla da dire. Peccato che a sottoscrivere queste affermazioni si trovi, in calce alla Ratio Fundamentalis, la firma, in qualità di segretario della Congregazione per il Clero, di un tale arcivescovo titolare di Rota, diocesi spagnola soppressa nel 1149, attualmente esistente solo sulla carta.
Miracoli della creatività curiale! Vescovi e arcivescovi titolari sono, infatti, vescovi di una diocesi che non c’è o che non c’è più, una sede episcopale, cioè, che esiste solo nominalmente. La stessa Ratio Nationalis è sottoscritta dall’arcivescovo titolare di Tiburnia, antica capitale del Norico, sede vescovile soppressa nel VII secolo, i cui reperti archeologici, riportati alla luce qualche decennio fa, sono oggi pregevolmente custoditi fra i boschi della Carinzia. Come dire: il recinto è distrutto e le pecore non ci sono più.
Non ci resta, dunque, che rubricare sotto la voce “linguaggio ironico” anche questo passaggio testuale, in cui a raccomandare ai candidati al sacerdozio di essere pastori impregnati dell’odore delle pecore sono dei pastori senza gregge; non ci resta che ritornare all’antico adagio con cui da sempre, fra commiserazione e indulgenza, il popolino guarda agli uomini di Chiesa: “predicano bene e razzolano male”.
Detto altrimenti: “fate quello che dico, ma non fate quello che faccio”. Atteggiamento raccomandato, per altro, dallo stesso Gesù, a proposito di coloro che stanno seduti sulla cattedra di Mosè: «Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno».
1 https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_20180302_sinodalita_it.html
2 https://www.vatican.va/content/pius-x/it/encyclicals/documents/hf_p-x_enc_11021906_vehementer-nos.html
3 Tibullo, Elegiae II, 1, 11-13
Concordo con la scrivente nella sua risposta ad un’ analisi che mi sembra lunare.
Com’ è possibile pensare a persone in missione e, per questo, necessariamente capaci di amare e di condividere, sulla base di presupposti che disconoscono l’umano nei suoi aspetti fondamentali, compresi limiti, bisogni e fragilità?
Non mi risulta che nei Vangeli si insista su castità, orientamento sessuale e celibato. Queste sono le richieste di una chiesa che da comunità si è fatta istituzione.
Tutti, allo sguardo di Gesù, erano all’altezza.
Ottimo e interessante articolo, come sempre sono gli articoli di Anita Prati. E per quanto mi riguarda sono felice di non fare parte di una chiesa maschilista e discriminatoria come quella cattolica.
Anche noi siamo felici che tu non ne faccia parte
Quando ho letto che la castità non c’entra col sesso mi sono fatta una risata. Eccome se c’entra (non solum, sed etiam), pure per chi non è prete! La risata più bella però l’ho fatta quando ho letto della donna che si sente chiamata a diventare prete: insomma, Dio deve darci la vocazione che vogliamo. La crisi morde tanto da forzarlo alle quote rosa. Sorella, anch’io ho sindacato sulla fede per decenni: il tempo mi ha insegnato che è meglio credere di più, non diversamente
L’autrice ha buoni spunti di riflessione. Dimostra però di ignorare le basi della teologia cattolica o forse la sua è una provocazione.
“E se qualche donna si sente chiamata? Nessun problema. O la sua non è una vera vocazione o, ipotizzando una confusione di ramo ecumenico, la si inviterà cortesemente a spostarsi ad altra confessione cristiana”.
Giovanni Paolo II si è pronunciato: la dottrina che il sacerdozio è solo per gli uomini è da ritenersi definitiva.
Se verrà inventato un altro giro di parole per oltrepassare ciò che è stato proclamato definitivo non so, è possibile e forse auspicabile, visti i vicoli ciechi in cui la teologia cattolica si è cacciata con questa facoltà del papa di determinare qualcosa come definitivo- a quanto pare i cristiani dei secoli precedenti erano riusciti a sopravvivere e anche ad avere un pò di fede in Gesù Cristo anche senza necessità di tutti questi atti magisteriali definitivi….
Al momento parlare di sacerdozio alle donne con l’attuale teologia cattolica è come cercare di tornare con il fidanzato che ti ha già scritto MAIUSCOLO che non ti vuole.
Onore a te che cerchi di combattere con i mulini a vento, se non fosse che le pale del sacro magistero girano più forte invece di cominciare a fermarsi, in un avvitamento di citazioni e di rimandi tra sentenze definitive, documenti ecclesiali prodotti da autorità senza importanza, visto che ciò che scrive una conferenza episcopale è spazzato via da uno sfogo di qualunque papa in una intervista…i teologi si avvitano ormai tra i doppi sensi colti tra le righe di documenti con nessuna autorità vincolante sui fedeli. Come siamo giunti a questo Gesù mio? Vogliamo tornare ad ascoltarti ed a mangiare i pesci arrostiti con i piedi sporchi sulla riva di un lago.