Il presbitero e la compunzione

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compunzione

Il senso fondamentale della Quaresima è tenere viva, nel cuore del credente, la consapevolezza che la natura umana è segnata dalla presenza del male, fenomeno che nella teologia cristiana viene chiamato peccato. Insieme a questa consapevolezza, la spiritualità cristiana ha sempre sottolineato l’importanza di coltivare un sincero senso di pentimento, ovvero lo spirito di compunzione.

Il termine “compunzione” ha origine dal tardo latino ecclesiastico (compunctio) e, nel suo significato letterale, indica una “puntura”. In senso figurato, esprime un dolore o un turbamento interiore, spesso accompagnato da lacrime di pentimento, che possono manifestarsi esteriormente o rimanere un’esperienza intima e profonda.

Il termine richiama l’idea di una puntura: la compunzione è infatti una “ferita nel cuore”, una trafittura che lo colpisce profondamente, provocando il dolore interiore e facendo scaturire le lacrime del pentimento.

Convertirsi significa sempre abbandonare gli idoli per scegliere di seguire il Signore, che ci attira a sé, ci invita alla comunione con Lui e perdona le nostre infedeltà e le incoerenze nel nostro amore per Lui.

Quaresima: tempo propizio per la compunzione

Per il cristiano, la conversione consiste nel lasciarsi trasformare dalla grazia del Signore, un dono che non si può mai meritare. Tuttavia, questo cambiamento di mentalità, di cuore e di comportamento richiede anche il riconoscimento del male commesso, l’assunzione delle proprie responsabilità e il vivere un autentico pentimento. Ma sorge una domanda: è ancora possibile, oggi, provare dolore per le proprie colpe e versare lacrime di pentimento?

Nei “Detti” dei Padri del deserto, il monaco Longino spiegava così la necessità della compunzione: «In principio Dio non ha creato l’uomo perché piangesse, ma perché gioisse ed esultasse, gli rendesse gloria con cuore puro e integro dal peccato, come gli angeli.

Ma quando cadde nel peccato l’uomo ebbe bisogno delle lacrime. E tutti quelli che sono caduti, ne hanno bisogno allo stesso modo. Infatti, dove non vi sono peccati, non sono necessarie neppure le lacrime».

Il fine immediato della compunzione del cuore, spesso accompagnata dalle lacrime, è quello di spingere il credente a intraprendere con fiducia il cammino della conversione. Quest’ultima, infatti, rappresenta un aspetto essenziale e imprescindibile della ricerca di Dio e, proprio per questo, non si interrompe mai. Questo percorso rimane sempre aperto a nuove possibilità, a un “oltre” e a un “di più” che impediscono a chi cerca Dio di arrestarsi, ma lo spronano continuamente ad avanzare, fino al giorno in cui potrà incontrare il Signore faccia a faccia.

Nell’antico cristianesimo, il pianto (penthos) rappresentava il primo passo nel percorso di crescita spirituale, e l’esperienza di un “cuore contrito e spezzato” (Sal 51,19) era oggetto di profonda riflessione e meditazione. Oggi, invece, questa dimensione sembra offuscata da atteggiamenti che tendono a evitare la responsabilità per il male compiuto: di fronte al peccato, si cercano spesso scuse e giustificazioni.

Se è vero che oggi si assiste a una preoccupante perdita del senso del peccato, causata da diversi fattori, sarebbe davvero desolante se anche i presbiteri ne fossero influenzati. Sebbene il peccato esista, oggi è sempre più facile non riconoscerlo come tale, a causa di una mentalità diffusa che tende a minimizzare ogni errore, considerandolo normale, e a negare qualsiasi responsabilità personale.

Recuperare la corretta consapevolezza del peccato è fondamentale per poter affrontare la profonda crisi spirituale che caratterizza l’umanità nella società contemporanea.

La compunzione del cuore resta sempre il solido fondamento di ogni nostra vita di unione con Dio. La compunzione fa emergere l’enorme distanza che intercorre tra la contemplazione cristiana e la spiritualità orientale non cristiana[1].

Il peccato, in realtà, non consiste semplicemente nella trasgressione di regole e precetti, ma rappresenta piuttosto la rottura di un legame d’amore personale. Si è peccatori davanti a Dio.

Tuttavia, in molte persone si manifesta un senso di colpa patologico che non va confuso con la compunzione del cuore. Il vero senso del peccato porta alla preghiera con fiducia, mentre il senso di colpa morboso la respinge. Il vero senso del peccato è già di per sé una forma di liberazione dal male, poiché, proprio nel momento in cui commettiamo il peccato, o addirittura prima, siamo consapevoli dell’amore di Dio che perdona e trasforma.

La compunzione del cuore non può che aumentare la pace intorno a noi, poiché ci fa perdere il desiderio di giudicare e condannare gli altri. Chi riconosce di essere un peccatore “in prima persona” trova ingiustificato occuparsi degli errori altrui. Se è costretto a farlo per il suo ruolo, lo fa come parte del suo ministero, ma sempre con misericordia, umiltà, comprensione e compassione.

Troppo spesso perdiamo la pace perché attribuiamo troppa importanza alle trasgressioni degli altri, siano esse dei fratelli o dei responsabili dell’eremo. Desideriamo un mondo migliore, e abbiamo ragione, ma prima dobbiamo lavorare su noi stessi. Solo chi conosce i propri limiti può realmente impegnarsi a migliorare l’ambiente in cui vive, altrimenti rischia di aumentare il male e la confusione.

La beatitudine degli afflitti: Mt 5,4

Papa Francesco ha spiegato il significato del termine “compunzione” prendendo le mosse dalla beatitudine di Mt 5, 4 «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati»:

“Nella lingua greca in cui è scritto il Vangelo, questa beatitudine viene espressa con un verbo che non è al passivo – infatti i beati non subiscono questo pianto – ma all’attivo: “si affiggono”, piangono, ma da dentro. Si tratta di un atteggiamento che è diventato centrale nella spiritualità cristiana e che i padri del deserto, i primi monaci della storia, chiamavano penthos, cioè un dolore interiore che apre ad una relazione con il Signore e con il prossimo; a una rinnovata relazione con il Signore e con il prossimo”[2].

Nelle Scritture questo pianto può avere due aspetti:

“il primo è per la morte o per la sofferenza di qualcuno. L’altro aspetto sono le lacrime per il peccato – per il proprio peccato –, quando il cuore sanguina per il dolore di avere offeso Dio e il prossimo”[3].

Da qui due possibilità: ci sono degli afflitti da consolare, ma talvolta ci sono pure dei consolati da affliggere, da risvegliare, che hanno un cuore di pietra e hanno disimparato a piangere. C’è pure da risvegliare la gente che non sa commuoversi del dolore altrui.

La seconda possibilità si riferisce a chi prova dolore autentico per quanto ha commesso, con una reazione che però bisogna distinguere, poiché “c’è chi si adira perché ha sbagliato. Ma questo è orgoglio. Invece c’è chi piange per il male fatto, per il bene omesso, per il tradimento del rapporto con Dio”[4].

Stati di compunzione

Cassiano, abate e scrittore spirituale del IV-V secolo, aveva redatto un breve elenco degli “stati di compunzione” legati ai quattro tipi di preghiera che san Paolo suggerisce nella sua Prima Lettera a Timoteo: «Raccomando quindi, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere di intercessione e ringraziamenti per tutti gli uomini» (1Tm 2,1).

Secondo Cassiano, la prima forma di compunzione, quella associata alle “domande”, si manifesta con lacrime che sgorgano quando il ricordo dei peccati commessi ci ferisce profondamente, come una spina nel cuore, e con cui chiediamo a Dio di liberarci dal male.

Le “suppliche” rappresentano la compunzione che nasce negli animi forti e generosi, i quali offrono la loro sofferenza unendola al sacrificio espiatorio di Cristo.

Le “preghiere di intercessione” esprimono la compunzione che si traduce nell’intercessione per tutta l’umanità, che deve fare i conti con il fascino del peccato.

Infine, i “ringraziamenti” simboleggiano la compunzione che si esprime con la preghiera di gratitudine per i benefici ricevuti, soprattutto per la gioia di essere stati guariti e interiormente rinnovati dalla grazia divina.

San Gregorio Magno (540 circa – 604), in un testo molto conosciuto, distingue quattro stati d’animo che suscitano la compunzione nell’anima del giusto:

«Ci sono quattro motivi che spingono l’anima del giusto alla compunzione.

  • Quando ricorda le proprie colpe, riflettendo su dove si trovava (ubi fuit);
  • quando teme la sentenza del giudizio di Dio e si interroga su dove si troverà (ubi erit);
  • quando riflette sui mali della vita presente e, con tristezza, considera dov’è (ubi est). E qui sentiamo risuonare la domanda primordiale di Dio ad Adamo: “Adamo, dove sei?”, dove ti trovi?
  • e quando contempla i beni della patria eterna che ancora non ha raggiunto e, piangendo, si rende conto di dove non è (ubi non est[5].

Ci sono quindi quattro tipi di sentimenti per cui la mente di una persona giusta prova compunzione e un sano disgusto. Essi sono:

  • ricordare i peccati del passato,
  • ricordare le punizioni a venire,
  • considerare come si è in pellegrinaggio nella miseria di questa vita presente e
  • desiderare di raggiungere la terra natia in alto e di poterci arrivare il prima possibile.

Quando queste quattro cose sono presenti nel cuore, allora si può credere che Dio sia presente nel cuore umano per grazia.

Esistono due tipi di compunzione:

  • quella che scende dall’alto e
  • quella che sale dal basso.

Si sperimenta quella che viene dal basso quando, nel pianto, si teme la punizione eterna dell’inferno.  Si riceve quella che scende dall’alto quando si piange desiderando il regno celeste.  La compunzione è guarigione per l’anima; la compunzione è illuminazione per la mente; la compunzione è perdono dei peccati; la compunzione permette allo Spirito Santo di abitare in noi.

Fra le pressioni interiori che agiscono sul cuore e producono due stati d’animo diversi, distinguiamo:

  • Contritio: frantumare, schiacciare, ridurre a pezzi, come il nostro cuore di pietra.
  • Compunctio: pungere.
Il dono delle lacrime

Evagrio Pontico, uno scrittore spirituale del IV secolo, parlando della preghiera, raccomanda per prima cosa di chiedere il dono delle lacrime, allo scopo di «rammollire, con la compunzione, la durezza inerente all’anima, e, confessando la propria iniquità al Signore, ottenere da lui il perdono».

A sua volta, Isacco il Siro, vissuto nel VII secolo, afferma: «Colui che conosce i propri peccati è più grande di colui che con la preghiera risuscita un morto. (…) Colui che per un’ora piange su se stesso è più grande di colui che ammaestra l’universo intero. Colui che conosce la propria debolezza è più grande di colui che vede gli angeli». E ancora: «Quando tu piangi di pentimento, i tuoi pensieri si incamminano sulla strada della vita eterna».

“Piangere su noi stessi, invece, è pentirci seriamente di aver rattristato Dio col peccato; è riconoscere di essere sempre in debito e mai in credito; è ammettere di aver smarrito la via della santità, non avendo tenuto fede all’amore di Colui che ha dato la vita per me. È guardarmi dentro e dolermi della mia ingratitudine e della mia incostanza; è meditare con tristezza le mie doppiezze e falsità; è scendere nei meandri della mia ipocrisia, l’ipocrisia clericale”[6].

Le lacrime sono un segno della sincerità del pentimento e della compunzione di chi sa riconoscere i propri peccati di fronte al Signore: «Chi prega con lacrime è simile a colui che, ai piedi del Signore, Gli chiede misericordia, come quella peccatrice che, in poco tempo, lavò con le sue lacrime tutti i suoi peccati» (cfr. Lc 7,36-50). Le lacrime per i peccati diventano una richiesta di purificazione e, non a caso, sono considerate addirittura come un rinnovamento (e non sostituzione!) del battesimo.

Come non ricordare il pianto di Davide, quando il profeta gli rivelò il suo peccato, e la sua preghiera del Miserere, una confessione a Dio del crimine commesso, seguita da pianto e dolore per aver assunto la responsabilità della sua azione malvagia, chiedendo misericordia e perdono? E come dimenticare le lacrime di Pietro, il suo pianto amaro per aver rinnegato di conoscere il suo maestro e profeta, dopo averlo riconosciuto come inviato di Dio? Chi ha tradito la propria fedeltà, chi ha contraddetto il bene ricevuto, dovrebbe sapere come piangere.

Per noi cristiani, le lacrime hanno a che fare anche con la grazia di Dio, che ce le concede come un dono. Gli orgogliosi e gli arroganti non piangono, mentre gli ipocriti riescono a versare solo lacrime superficiali, finte, fatte per impressionare. Il penthos, la contrizione, le lacrime sono il segno che il cuore di pietra si rompe, si frantuma e lascia spazio a un cuore di carne, capace di ricevere la tenerezza misericordiosa di Dio.

Un monaco scriveva: “Quando mi presenterò davanti a Dio nel giudizio, vedrò accanto a me tutti i peccati che ho commesso, ma chiederò a Dio di guardare anche alle lacrime che ho versato nel pentimento e nel dolore. E le mie lacrime saranno lì, raccolte da Dio come in un otre (cf. Sal 55,9), come una supplica di purificazione e perdono”.

“Tra i vari motivi che illustrano l’importanza delle lacrime vi è certamente il fatto che esse sono il segno tangibile del pentimento. Vi sono essenzialmente due tipi di lacrime di cui parlano i Padri: vi sono le lacrime “non buone”, quelle di un pianto che porta alla disperazione, quelle che indicano sì il dolore di un peccato commesso, ma che chiudono la persona dentro un pericoloso circolo chiuso di rimorso, in quanto sono più dolore per “non essere stati irreprensibili” che per il vero senso del peccato. E poi, invece, ci sono le lacrime del penthos, lacrime che sono sì segno di dolore per aver ferito l’amore di Dio, ma che al contempo dicono l’immensa allegria e lo stupore per la misericordia che Dio ha nei nostri confronti”[7].

Uno dei primi monaci, Efrem il Siro dice che un viso lavato dalle lacrime è indicibilmente bello (cfr. Discorso ascetico).

Effetti della compunzione

La compunzione non solo ha il potere di cancellare i peccati, ma anche di santificarci. Se c’è qualcosa che può perdurare per tutta la nostra vita, è il sentimento di compunzione. Esso ha un ruolo cruciale nel nostro ritorno a Dio, e non c’è alcun grado di santità così alto che non possa essere raggiunto attraverso la compunzione.

La compunzione cancella i peccati e ci santifica: la compunzione ha una forza straordinaria presso Dio. San Girolamo scrive: ‘Umile lagrima del cuore: tu sei una regina, tu sei onnipotente; tu non temi il tribunale del Giudice, tu imponi silenzio ai tuoi accusatori; nulla ti arresta; tu hai accesso al trono della grazia, e non te ne allontani mai con le mani vuote; e la pena che tu causi al demonio è per lui più terribile della stessa pena dell’Inferno. Tu trionfi sull’Invincibile, tu leghi ed obblighi l’Onnipotente. La sola preghiera Lo intenerisce, ma l’anima che piange pregando, Gli è irresistibile: la preghiera è un olio che Lo dispone ad esaudire, le lagrime sono uno strale che gli ferisce il cuore, e Lo forza ad agire.’

La compunzione del cuore è umiltà d’animo, con lacrime e ricordo dei peccati e timore del giudizio. Dalla virtù dell’umiltà nasce la compunzione del cuore; dalla compunzione del cuore nasce il pentimento, e dal pentimento si ottiene il perdono dei peccati.

Un episodio biblico emblematico: At 2,36

Per comprendere il penthos, la compunzione, soffermiamoci sul libro degli Atti, capitolo 2, in cui al versetto 36 ritorna il verbo trafiggere, κατενύγησαν, che appunto trafiggere il cuore.

Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire. Davide infatti non salì al cielo; tuttavia egli dice: Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello ai tuoi piedi. Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!». All’udir tutto questo si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?».

«Si sentirono trafiggere». Trafiggere è il verbo che indica l’essere colpiti dall’esterno, è l’irruzione dello Spirito Santo che brucia e purifica. A noi spetta venire alla luce (Gv 3,20-21; 1Gv 1,7), esporci al fuoco.

L’irruzione dello Spirito, del Soffio, è un dono che entra nel levav (e quindi nella storia) quando vuole e come vuole ed irrompe in chi vuole. Trafigge, brucia. Dalla ferita dello Spirito sgorgano le lacrime del pentimento, di compunzione: «Tu ci nutri con pane di lacrime, ci fai bere lacrime in abbondanza» (Sal 79,6). Le lacrime possono trovare uno sbocco effettivo oppure dimorare allo stato di impulso interiore. Ignazio di Loyola ne parla diffusamente nel libretto degli Esercizi spirituali e indica quattro tipi di lacrime[8]:

  • lacrime di pentimento
  • lacrime di disperazione
  • lacrime di partecipazione al dolore e ai tormenti di Cristo
  • lacrime di consolazione.

Si può provare anche uno stato continuo di compunzione, in cui il bruciore non si estingue ma sfocia generando amore. L’orante che si riconosce sulla soglia sperimenta la contrizione, che esplode nel grido di supplica sgorgatogli dal cuore grazie al fatto che egli tiene, simultaneamente, nel proprio interiore campo visivo sia il suo peccato che la misericordia di Dio: «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia, nel tuo grande amore cancella il mio peccato!».

Possiamo quindi delineare alcuni passi:

  • la promessa del passaggio dal cuore di pietra al cuore di carne
  • la trafittura del cuore con l’irruzione dello Spirito
  • le lacrime amare di penthos
  • le lacrime dolci di consolazione

Dopo questi passaggi si giunge alla disponibilità totale che fa esclamare la domanda: «Fratelli, che cosa dobbiamo fare?» (At 2,38).

Pietro aveva sperimentato il penthos, culminato nel versare le lacrime (Mt 26,74), dopo aver rinnegato Gesù:

Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quell’uomo!». E subito un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola di Gesù, che aveva detto: «Prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori, pianse amaramente.

Grazie a questa sua esperienza può parlare ed indicare la strada agli altri. E Pietro disse: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro». Con molte altre parole li scongiurava e li esortava: «Salvatevi da questa generazione perversa». Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno si unirono a loro circa tremila persone.

Dirigersi, guardare a «quei che volentier perdona» (Dante, Purgatorio, Canto III, v.120). Ne consegue che, da trafittura estemporanea, può diventare penthos perpetuo, cioè compunzione perpetua, memoria incessante, per chi dona la propria vita? La compunzione si concretizza nel dolore ma giunge alla contemplazione[9].

La compunzione, il penthos, quindi, è il clima interiore nel quale dovrebbe trascorrere tutta la vita spirituale. Dovremmo lasciarci trafiggere: “ci punge” con insistenza (cum-pungere), come per trafiggerci. L’amore del mondo ci addormenta; ma come per un fragore di tuono, l’anima è chiamata all’attenzione a Dio”[10].

“Ecco la compunzione: non un senso di colpa che butta a terra, non una scrupolosità che paralizza, ma è una puntura benefica che brucia dentro e guarisce, perché il cuore, quando vede il proprio male e si riconosce peccatore, si apre, accoglie l’azione dello Spirito Santo, acqua viva che lo smuove facendo scorrere le lacrime sul volto. Chi getta la maschera e si lascia guardare da Dio nel cuore riceve il dono di queste lacrime, le acque più sante dopo quelle del Battesimo”[11].

La dinamica del pentimento in due episodi manzoniani

Il dialogo tra il Cardinale Federigo e l’Innominato. Il pentimento, nella prospettiva teologica cristiana, rappresenta un evento di grazia, un incontro trasformante con la misericordia divina. Questo tema emerge in modo esemplare nel dialogo tra il cardinal Federigo Borromeo e l’Innominato nei “Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, dove il dramma interiore del peccatore si scontra con l’amore incondizionato di Dio, mediato dalla figura del santo cardinale.

L’Innominato si presenta al cospetto di Federigo lacerato dal conflitto tra vergogna e speranza. Egli teme di essere giudicato e respinto, ma al contempo desidera ardentemente una redenzione che sembra impossibile. Questo contrasto evidenzia la lotta interiore tra l’uomo vecchio, dominato dal peccato e dall’orgoglio, e l’uomo nuovo, risvegliato dalla grazia divina. La tensione tra disperazione e attesa di misericordia è un elemento centrale nella teologia del pentimento: solo attraverso la consapevolezza della propria miseria l’uomo può aprirsi alla grazia salvifica.

Il cardinale Borromeo incarna la figura del pastore buono che, invece di giudicare, accoglie con amore il peccatore. La sua prima reazione non è quella di rinfacciare all’Innominato i suoi crimini, ma di mostrargli la grandezza dell’amore divino. Con la sua affermazione: «Dio sa fare Egli solo maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza de’ suoi poveri servi», il cardinale sottolinea la gratuità della grazia e il ruolo attivo di Dio nella conversione del cuore umano.

Il pentimento dell’Innominato si manifesta in un’invocazione accorata: «Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?». In questa domanda si riflette l’esperienza di ogni uomo che, toccato dalla grazia, cerca Dio non più per sfidarlo, ma per incontrarlo. L’Innominato non è più un uomo autosufficiente, ma un’anima bisognosa di salvezza.

La risposta del cardinale è centrale dal punto di vista teologico: «E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira?».

Qui Manzoni esprime magistralmente la concezione cristiana della grazia: Dio non è lontano, ma agisce silenziosamente nel cuore dell’uomo, inquietandolo fino a condurlo al pentimento autentico.

Il pentimento non si esaurisce nel dolore per il male compiuto, ma si completa nel desiderio di bene. L’Innominato, illuminato dalla misericordia divina, non rimane prigioniero del suo passato, ma si apre a un futuro rinnovato. Decide di liberare Lucia e di cambiare vita, testimoniando come il vero pentimento non sia solo un atto interiore, ma una trasformazione concreta dell’esistenza.

Questo episodio dimostra come il pentimento cristiano non sia un peso opprimente, ma una rinascita nella gioia, un cammino che trasforma il cuore e lo rende capace di amare.

Il dialogo tra il Cardinale Federigo e don Abbondio. Il dialogo tra il cardinale Federigo Borromeo e don Abbondio nei “Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni rappresenta un altro momento significativo in cui emerge il tema della responsabilità morale e della chiamata alla conversione cristiana. A differenza dell’Innominato, il cui pentimento scaturisce da un drammatico incontro con la grazia divina, don Abbondio incarna la paura e la resistenza al cambiamento, mostrando un atteggiamento più umano e quotidiano.

Don Abbondio si presenta al cospetto del cardinale con il timore di essere rimproverato per la sua condotta codarda. La sua giustificazione, basata sulla paura e sull’istinto di autoconservazione, riflette un atteggiamento comune: quello di chi, pur conoscendo il bene, sceglie di evitarne le conseguenze per timore delle difficoltà. Il sacerdote cerca di discolparsi sottolineando la sua natura debole e la sua impossibilità di opporsi a forze più grandi di lui.

Il cardinale Borromeo, pur con fermezza, non si limita a rimproverarlo, ma cerca di condurlo a una comprensione più profonda del suo ruolo sacerdotale. Egli non accetta le giustificazioni di don Abbondio, ma gli ricorda che la sua missione non è quella di proteggere sé stesso, bensì di guidare spiritualmente la comunità, anche a costo di sacrifici. La sua affermazione: «Dio non ha dato ai suoi ministri uno spirito di timore, ma di fortezza» esprime il cuore della questione: la fede non può essere vissuta nella paura, ma deve tradursi in coraggio e responsabilità.

Questo confronto evidenzia un aspetto fondamentale del pentimento cristiano: mentre l’Innominato si apre alla grazia con un cuore turbato ma desideroso di redenzione, don Abbondio resta chiuso nella sua paura, incapace di accogliere pienamente l’invito alla conversione. Egli non si sente un peccatore nel senso drammatico del termine, ma piuttosto una vittima delle circostanze, e proprio questa mentalità lo rende restio a un vero cambiamento interiore.

Tuttavia, il dialogo con il cardinale rappresenta un momento di confronto necessario, in cui don Abbondio è messo di fronte alla sua responsabilità morale. Il pentimento, in questo caso, non si manifesta in un’immediata trasformazione, ma nell’inizio di una presa di coscienza. Manzoni mostra come il cammino di conversione possa essere più complesso e graduale, soprattutto per chi è legato da abitudini e paure radicate.

Mentre l’Innominato abbraccia il cambiamento con slancio, don Abbondio rimane esitante, a dimostrazione che il pentimento non è solo una questione di emozione, ma di volontà. Solo chi è disposto a lasciare le proprie sicurezze e a fidarsi di Dio può sperimentare la vera libertà interiore.

In conclusione, il confronto tra il cardinale e don Abbondio ci ricorda che la grazia di Dio opera nei cuori in modi diversi: alcuni si convertono in un istante, altri resistono, combattuti tra il desiderio di sicurezza e la chiamata alla fede autentica. Ma il messaggio resta chiaro: il pentimento vero richiede il coraggio di abbandonare la paura e di fidarsi pienamente della Provvidenza.

La compunzione è i suoi contrari: tracotanza e disperazione

Partiamo da un testo di romano Guardini:

“Capire il pentimento è essenziale per ogni comprensione profonda dell’uomo, così come la sua pratica è fondamentale per guidare la propria vita tra i due abissi, quello dell’hybris da un lato e quello della disperazione dall’altro. Il pentimento è una delle forme più importanti della nostra libertà. Con esso valutiamo noi stessi e ci poniamo nuovamente dalla parte del bene. Il pentimento non può far sì che ciò che è accaduto non sia; tentare questo, sarebbe menzogna. Il pentimento si basa sulla verità, sulla presa di coscienza che io ho fatto questo e questo… ciò non significa però che il pentito debba denigrare e rigettare se stesso. Qualora lo facesse, si tratterebbe non più di pentimento, ma di disperazione. L’uomo deve riscoprire nuovamente ciò che significa il rispetto verso se stesso”[12].

Nel testo di Guardini vengono messi in evidenza due atteggiamenti che possono ostacolare o rendere complicato il pentimento: da una parte, la tracotanza di chi rifiuta di accettare l’umiliazione legata al riconoscimento delle proprie azioni offensive; dall’altra, l’atteggiamento di chi non si limita a umiliarsi, ma arriva a svalutarsi completamente fino a cadere nella disperazione.

Come emerge dalle profonde analisi di Manzoni, una persona saggia e misericordiosa, come il Cardinale Federigo, è in grado di orientare il suo interlocutore evitando che cada in uno dei due estremi.

Indicazioni per i presbiteri nella confessione

Il pentimento, nella prospettiva cristiana, non è un mero sentimento di colpa, ma un evento di grazia, un incontro autentico con la misericordia divina. Per noi presbiteri chiamati a guidare i fedeli nel sacramento della Riconciliazione, è fondamentale adottare un atteggiamento che favorisca un pentimento autentico e trasformante. Alla luce dell’incontro tra il cardinale Federigo Borromeo e l’Innominato nei *Promessi Sposi*, emergono alcune indicazioni pastorali utili:

Accoglienza senza giudizio. Il confessore deve incarnare la figura del buon pastore, accogliendo il penitente senza pregiudizi e senza un atteggiamento inquisitorio. Come il cardinale Federigo, il presbitero deve far percepire al fedele la grandezza dell’amore di Dio prima ancora di richiamarlo alle sue colpe.

Evidenziare la misericordia divina. Il pentimento autentico nasce non solo dalla consapevolezza del peccato, ma soprattutto dalla certezza della misericordia divina. Il confessore deve aiutare il fedele a comprendere che Dio non rifiuta chi si avvicina a Lui con cuore sincero, ma anzi lo attira a Sé con amore infinito.

Guidare tra gli estremi della tracotanza e della disperazione. Due atteggiamenti possono ostacolare il vero pentimento: l’orgoglio di chi non vuole ammettere la propria colpa e la disperazione di chi si sente indegno di essere perdonato. Il presbitero deve, con sapienza, aiutare il penitente a superare questi estremi, come il cardinale Federigo che mostra all’Innominato la vicinanza di Dio anche nei momenti di più profonda inquietudine.

Stimolare il desiderio di conversione. Il pentimento non si esaurisce in un rimorso sterile, ma porta a una trasformazione concreta della vita. Come l’Innominato, che decide di liberare Lucia e cambiare esistenza, il penitente deve essere incoraggiato a intraprendere un cammino di rinnovamento, alimentato dalla grazia e dall’amore di Dio.

Far percepire la presenza di Dio nel cuore del penitente. Il confessore può aiutare il fedele a riconoscere la voce di Dio nella propria coscienza, ricordandogli che la stessa inquietudine interiore può essere segno della grazia che opera. Come afferma il cardinale Federigo: «E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira?».

Trasmettere la gioia della riconciliazion. Il sacramento della Confessione non deve essere vissuto come un momento di mera sofferenza, ma come un incontro liberante con l’amore di Dio. Il presbitero deve comunicare ai fedeli che il pentimento autentico porta alla pace interiore e alla gioia della vita nuova in Cristo.

Seguendo questi principi, i confessori potranno aiutare i fedeli a vivere la confessione non come un peso, ma come un’opportunità di crescita spirituale e di rinnovamento profondo, sperimentando la bellezza della misericordia divina.


[1] Cfr. L. A. Lassus, Elogio del nascondimento, Qiqajon.

[2] Francesco, Catechesi sulle Beatitudini: 3. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati (Mt 5,4), Udienza generale, Aula Paolo VI, 12 febbraio 2020, http://www.vatican.va.

[3] Ivi.

[4] Ivi.

[5] D. OGLIARI, La compunzione del cuore, in “Il Gazzettino di Noci”, 2016.

[6] Francesco, Omelia messa crismale, 28. Marzo 2024.

[7] I. Hausherr, Penthos. La dottrina della compunzione nell’Oriente cristiano, Scritti monastici, 2013.

[8] Cfr. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, nn. 48; 55; 203; 282; 316.

[9] Cfr. C. Dobner, Penthos: la compunzione, in “Tredimensioni” 19 (2022), pp. 304-313.

[10] Cf J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, Sansoni, Firenze 2002.

[11] Francesco, Omelia messa crismale, 28. Marzo 2024.

[12] R. Guardini, Accettare se stessi, Morcelliana. Brescia 1992, p. 23ss.

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