Il papa e la guerra: la solitudine di Francesco

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La proposta più creativa e organica da parte della diplomazia pontificia in ordine alla pace in Europa è quella di una nuova conferenza di Helsinki.

Sul tema della pace, del disarmo nucleare, della riduzione del commercio delle armi, del possibile e pericoloso connettersi delle decine di guerra attive o dormienti, dell’urgenza di bloccare lo scontro Russia-Ucraina e della crescente tensione fra Cina e USA, papa Francesco appare in grande solitudine.

Come ha commentato Marco Politi: «È una situazione mai sperimentata della diplomazia vaticana. Nelle cancellerie europee la (sua) voce è rispettata, ma marginalizzata, silenziata». Né Putin, né Biden, né Xi Jinping, né Zelensky hanno chiesto il suo intervento. Diversamente da quanto succedeva nella crisi di Cuba (1962), nel trattato di Beagle (fra Argentina e Peru nel 1979), nella riapertura delle rappresentanze diplomatiche fra USA e Cuba (2015) o in altre situazioni come la netta opposizione di Giovanni Paolo II alla guerra del Golfo nel 2003.

L’Occidente politico non gli perdona di avere accennato all’«abbaiare» della Nato ai confini della Russia e la costatazione di non poter essere «il cappellano dell’Occidente».

Ma tutto questo non significa una minore consonanza con lui di vaste aree delle società civili e del mondo cattolico, né che ogni vittoria sia tale solo se inclusiva. Come ha scritto Gaïdz Minassian: «Il solo senso della vittoria possibile è quello che l’associa alla pace, secondo il filosofo Brian Orend, che analizza due modelli post-bellici. Da una parte, il modello della retribuzione, quando la vittoria è ottenuta allorché una delle due parti raggiunge con la forza il fine prefissato e la distruzione del nemico. La vittoria è totale perché l’altro non esiste più, una negazione dell’alterità che sfocia in una pace punitiva, come quella di Versailles nel 1919. Il secondo modello è quello della riabilitazione e cioè la vittoria è ottenuta dal vincitore che, al di là del successo militare, pensa ad aprire la via a negoziati rispettosi col vinto in vista di sottoscrivere una pace durevole e giusta. La vittoria è inclusiva e l’altro è rispettato, come successe nel 1945» (Le Monde, 1° marzo 2023).

Lo spirito di Helsinki

La proposta più creativa e organica da parte della diplomazia pontificia in ordine alla pace in Europa è quella di una nuova Conferenza di Helsinki (cf. qui).

Il card. Pietro Parolin, segretario di stato, l’ha formulata al convegno “L’Europa e la guerra. Dallo spirito di Helsinki alle prospettive di pace” (Roma, 13 dicembre 2022).

A distanza di oltre quarant’anni dalla firma dell’Atto di Helsinki (1975), che ha garantito la distensione nel continente e il cambio di regime in molti paesi dell’Est senza una (inevitabile) guerra civile, l’ipotesi diplomatica torna, secondo J. Allen, per tre ragioni. Anzitutto, la possibilità di venire a patti con il “nemico” (allora il sistema comunista); in secondo luogo, per la sintonia con la diplomazia italiana come suo alleato “più naturale” e, in terzo luogo, per un modello di dialogo che anticipi e rimuova i possibili scontri futuri.

Così il card. Parolin: «Anche se l’esperienza di Helsinki appare oggi irripetibile nelle sue caratteristiche e peculiarità, cerchiamo di recuperare lo “spirito di Helsinki”, torniamo a rileggere la dichiarazione sui principi che guidano le relazioni tra gli stati partecipanti che venne inserita nell’Atto finale, un decalogo che prevedeva: eguaglianza sovrana, rispetto dei diritti inerenti alla sovranità; non ricorso alla minaccia o all’uso della forza; inviolabilità delle frontiere; integrità territoriale degli stati; risoluzione pacifica delle controversie; non intervento negli affari interni; rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza e religione o credo; eguaglianza dei diritti e autodeterminazione dei popoli; cooperazione fra gli stati; adempimento in buona fede degli obblighi di diritto internazionale».

L’Occidente perde peso

Una piattaforma suggestiva per l’attuale emergenza bellica in Europa, ma anche in ragione dello sfarinamento dei due blocchi (Occidente e Oriente) che allora caratterizzavano l’intero spettro della geopolitica mondiale.

«La guerra in Ucraina – ha scritto M. Duclos su La Croix del 27 febbraio – ha un effetto performativo e aggravante le fratture tra Europa dell’Ovest e dell’Est e fra Occidente e il Sud globale. Una maggioranza dei paesi del Sud ha condannato l’aggressione russa contro l’Ucraina, ma un numero significativo di essi si sono astenuti e nessuno ha seguito gli occidentali nella loro politica delle sanzioni contro la Russia».

Potenze medie come l’India, la Turchia, l’Arabia Saudita, l’Iran aiutano indirettamente Putin. Ed è assai diffuso l’indirizzo di non pronunciarsi in quello che si profila essere lo scontro del futuro: fra USA e Cina. Non è casuale che, nella risoluzione ONU per il ritiro immediato, completo e incondizionato della Russia dall’Ucraina, la maggioranza (141 voti) abbia lasciato fuori una vasta parte della popolazione mondiale.

Scommettere sulla pace

La guerra russa, passata di mano dai fallimentari progetti dei servizi segreti ai generali dell’armata, minaccia di diventare lunga. L’invito di Francesco a fare il possibile per porre fine alle ostilità è caduto nel vuoto. Così anche l’offerta del Vaticano come luogo di incontro possibile fra i contendenti, rifiutato dal Cremlino per la battuta del pontefice, diplomaticamente infelice, sui soldati ceceni e buriati mandati al massacro in prima linea.

Ma Parolin insiste: «Abbiamo bisogno di immaginare e di costruire un nuovo concetto di pace e di solidarietà internazionale, ricordandoci che tanti paesi e tanti popoli chiedono di essere ascoltati e rappresentati. Abbiamo bisogno di realizzare nuove regole per i rapporti internazionali che oggi ci appaiono – passatemi l’espressione – molto più “liquidi” e dunque inconsistenti, rispetto al passato. Abbiamo bisogno di coraggio, di scommettere sulla pace e non sull’ineluttabilità della guerra; sul dialogo e sulla cooperazione, e non sulle minacce e sulle divisioni. Abbiamo bisogno di una de-escalation militare e verbale, per ritrovare il volto dell’altro, perché ogni guerra – diceva il venerabile mons. Tonino Bello – trova la sua radice “nella dissolvenza dei volti”».

Non fermare la guerra significa indebolire i residui legami del mondo globalizzato, enfatizzare le pretese delle potenze statuali medie, ignorare la domanda di rappresentatività di molti stati e alimentare lo scontro USA – Cina per l’egemonia.

Un magistero aperto

Un approccio ad un tempo “visionario”, politico e realistico che si scontra con la debolezza della divisione nel mondo cristiano. Se la stragrande maggioranza delle Chiese è vicina a Francesco, non così l’Ortodossia russa e slava. Sull’asse della valutazione della guerra le due polarità sono identificabili nel magistero di Francesco e di Cirillo di Mosca.

Sulla posizione attuale del papato basta rileggersi il n. 258 di Fratelli tutti che chiude così: «Dunque, non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”».

Affermazione che non invalida, ma sottopone a verifica – non ancora a smentita – il contenuto della dottrina tradizionale fissata nel Catechismo della Chiesa cattolica che non solo richiama il diritto alla legittima difesa dei popoli, ma anche il dovere dei pubblici poteri relativi agli obblighi necessari alla difesa nazionale (CCC 2307–2317).

La ripetuta difficoltà di rendere chiara la posizione del papa in ordine alla guerra per molti ucraini e numerosi osservatori occidentali non nasce da una distanza rispetto ai diritti quanto all’“evidenza” morale ed evangelica di un tramonto della legittimità della guerra che pur contrasta con i dati di fatto. Una sorta di anticipo di quello che “dovrà” essere in futuro.

Cirillo: un magistero chiuso

Al contrario, le ripetute e reiterate parola di Cirillo a sostegno della guerra all’Ucraina vanno in senso opposto. Non solo rifiuta di onorare il magistero conciliare da lui sottoscritto (I fondamenti della concezione sociale, cap. 3, n. 8) circa il rifiuto della guerra di aggressione, ma trasforma l’aggressione in un conflitto metafisico, mistico e messianico che affiderebbe al popolo russo l’ultima difesa del cristianesimo.

Criticato dall’intero Concilio ecumenico delle Chiese, da oltre 400 teologi ortodossi e da una parte (seppur minore) del suo clero, è stato più recentemente stigmatizzato da Sergei Chapnin e dal vescovo Jean de Doubna. Il primo è stato un suo stretto collaboratore e ha diretto la rivista del patriarcato. Il secondo è il metropolita della Chiesa ortodossa di tradizione russa che, pochi anni fa, ha traghettato la sua Chiesa dal patriarcato di Costantinopoli a quello di Mosca.

Chapnin guarda ai vescovi russi in una lettera aperta (5 febbraio): «Mi rivolgo a voi, perché mi sento esausto per la lunga e tormentosa attesa di una vostra sincera parola pastorale, esausto per il vostro infinito silenzio sulle cose più importanti», sulla guerra. La fedeltà incondizionata richiesta da Cirillo e l’atmosfera soffocante della Chiesa ortodossa russa non dovrebbe impedire una parola esplicita contro la guerra, difesa dal patriarca con «argomenti che contraddicono palesemente il Vangelo e l’insegnamento della Chiesa». «Il vergognoso e catastrofico silenzio della maggioranza di voi nel corso della guerra della Russia contro l’Ucraina rappresenta una macchia indelebile sull’intera Chiesa ortodossa russa» (cf. qui).

In un’intervista alla svizzera Radio Liberty (febbraio 2023) mons. Jean de Doubna non teme di equiparare i delitti compiuti dai russi a quelli nazisti avvenuti nella seconda guerra mondiale. «Penso che il patriarca Cirillo abbia commesso un grande errore strategico, politico ed ecclesiale, tanto che alla fine si è trovato ai margini delle Chiese cristiane».

«Ci siamo inchinati davanti ai sacrifici (durante le persecuzioni comuniste); (davanti alla) santità della Chiesa emersa nel periodo sovietico; oggi quella santità è distrutta dalla collusione col potere, così prossimo a quello sovietico che ha ucciso milioni di persone». È stato intollerabile il suo iniziale silenzio e ancora più le successive giustificazioni. «Il contesto di servilismo incondizionato è diffuso nella Chiesa ortodossa russa. È amaro per me constatare che una parte importante del clero ha interiorizzato questa disastrosa tendenza e quelli che hanno parlato contro la guerra sono stati immediatamente censurati».

Vangelo e diplomazia multilaterale

Di tanto in tanto, i media affidano a improbabili mediatori gli sforzi di Francesco in ordine alla pace, come ad esempio Leonid Sevastianov, presidente dell’unione mondiale dei vecchi credenti.

Più consistente il riferimento ad un politico discusso come V. Orban, difensore delle ragioni di Putin in Europa e primo ministro d’Ungheria, dove il papa avviverà prossimamente in visita.

Le robuste radici delle scelte di Roma sono nel magistero sul tema della pace e della guerra e nella chiara scelta di una diplomazia multilaterale in un mondo che non può essere costretto in due appartenenze contrapposte.

La possibilità di una guerra nucleare ha avviato la teologia espressa nella Pacem in terris (1963) e nella costituzione conciliare Gaudium et spes (1965). Un magistero continuamente sviluppato negli interventi dei papi all’ONU, nei messaggi per la giornata della pace, in numerose lettere pastorali degli ultimi decenni, in particolare negli anni ’80.

Il sostegno alle istituzioni internazionali, ONU in testa, e la scelta per una diplomazia multilaterale sono frequentemente testimoniate, in specie nell’annuale discorso al corpo diplomatico. In quello del 2022 l’indirizzo è stato particolarmente sottolineato. «La diplomazia multilaterale attraversa da tempo una crisi di fiducia, dovuta a una ridotta credibilità dei sistemi sociali, governativi e intergovernativi».

Una caduta di interesse che è invece necessario ribaltare. «La diplomazia multilaterale è chiamata… ad essere veramente inclusiva, non cancellando ma valorizzando le diversità e le sensibilità storiche che contraddistinguono i vari popoli. In tal modo, essa riacquisterà credibilità ed efficacia per affrontare le prossime sfide, che richiedono all’umanità di ritrovarsi insieme come una grande famiglia, la quale, partendo da punti di vista differenti, dev’essere in grado di trovare soluzioni comuni per il bene di tutti» (cf. qui).

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2 Commenti

  1. Ruggero Canti 9 marzo 2023
  2. Ewa Czukwinska 9 marzo 2023

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