Famiglie missionarie a km0

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famiglie in canonica

«Nell’orizzonte di rinnovamento tracciato dal concilio Vaticano II, si sente sempre più l’urgenza oggi di riscoprire la corresponsabilità di tutti i battezzati nella Chiesa, e in particolar modo la missione del laicato. L’Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per la regione Pan-Amazzonica (6-27 ottobre 2019), nel quinto capitolo del documento finale ha segnalato la necessità di pensare a nuovi cammini per la ministerialità ecclesiale. Non solo per la Chiesa amazzonica, bensì per tutta la Chiesa, nella varietà delle situazioni, è urgente che si promuovano e si conferiscano ministeri a uomini e donne… È la Chiesa degli uomini e delle donne battezzati che dobbiamo consolidare promuovendo la ministerialità e, soprattutto, la consapevolezza della dignità battesimale» (Francesco, dalla lettera del 10 gennaio 2021 al prefetto della Congregazione per la dottrina della fede).

Abitare, come famiglia, in una canonica in stato di abbandono, in un oratorio o in una struttura sussidiaria parrocchiale in disuso.

Per vivere nell’ordinaria quotidianità impegni e doveri familiari e sociali, sostenendosi con il proprio lavoro.

Per fare un’esperienza di fraternità e sororità, di accoglienza e di condivisione, di testimonianza cristiana e di corresponsabilità pastorale.

Per annunciare la gioia del Vangelo in modo semplice e autentico: da persona a persona, da famiglia a famiglia, da comunità a comunità.

Per tenere aperte chiese, santuari o cappelle perché, pur in assenza di presbiteri, continuino ad essere luoghi vivi ed accoglienti dove la Parola di Dio è ascoltata, pregata e vissuta.

Per evitare che immobili adibiti a canoniche o a centri parrocchiali precipitino in forme irrecuperabili di degrado. In un contesto di Chiesa in uscita missionaria verso le periferie geografiche ed esistenziali lontane dalla vita parrocchiale e in uscita solidale verso le vecchie e nuove forme di povertà.

Per essere Chiesa all’insegna di una ministerialità diffusa e sinodale, nella consapevolezza che nella vigna del Signore non è lecito a nessuno rimanere in ozio e che «una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passeggio sulla terra» (Evangelii gaudium 183).

È l’esperienza delle “famiglie missionarie a km0” che, nata a Milano alcuni anni fa, si sta diffondendo, con modalità diversificate, in numerose realtà ecclesiali italiane: dalla canonica dove conducono vita in comune presbiteri e famiglie agli immobili parrocchiali abitati da coppie di sposi impegnate nell’animazione pastorale della comunità; dalle strutture parrocchiali per l’accoglienza affidate alla presenza di una famiglia ai santuari o ai monasteri dove religiosi e religiose condividono la preghiera e la vita con alcune coppie. Tutte esperienze significative anche per recuperare il senso dell’abitare sostenibile e solidale, tenendo insieme intimità e socializzazione, identità e alterità, autonomia e integrazione.

Un libro prezioso che ne racconta la storia

A raccontare la storia di questa innovativa pratica ecclesiale è un prezioso libro-testimonianza, dal titolo Famiglie missionarie a km0 – Nuovi modi di abitare la Chiesa, edito nel settembre del 2019 dall’Istituto di Propaganda Libraria (IPL) e curato dal giornalista e scrittore Gerolamo Fazzini.

Ne ero venuto a conoscenza grazie ad un ampio servizio di Luca Lorusso pubblicato come dossier del numero di dicembre 2019 della rivista Missioni Consolata (“Famiglie missionarie e il Vangelo del quotidiano – Missione a km0”).

L’ho letto con grande interesse in questi giorni, sollecitato dai contenuti di alcuni scritti ospitati da SettimanaNews. In particolare, faccio riferimento alla pubblicazione della lettera Caro prete di Sara Armanni con il dibattito che ne è seguito e alla condivisione dell’intervento del presbitero vicentino Luigi Maistrello su Crisi dei preti: riflessioni e proposte, ripreso dal settimanale diocesano La Voce dei Berici.

Mi sembra che quella raccontata molto bene da Gerolamo Fazzini sia una proposta ecclesiale in grado di prospettare soluzioni efficaci ai problemi seri sollevati da Sara Armanni e da Luigi Maistrello e riscontrabili ormai in tutte le realtà ecclesiali locali.

Il volume racconta dieci esperienze di famiglie missionarie a km0: sette milanesi, due piemontesi e una veneta.

Nella prefazione, il vicario episcopale della diocesi di Milano, Luca Bressan, non ha dubbi nel ritenere questo modo di “abitare” la Chiesa da parte delle famiglie un dono dello Spirito Santo «che sa unire nello stesso corpo esperienze, carismi, istituzioni, storie di santità anche molto diverse tra loro, realizzando quella pluriformità nell’unità che è il tratto distintivo della Chiesa, corpo di Cristo dentro la storia» (p. 9).

Un’esperienza che si va consolidando

Nella diocesi di Milano i nuclei familiari coinvolti sono ormai una trentina e risiedono in varie strutture della diocesi, a volte in coabitazione con i presbiteri. Qui l’esperienza si sta consolidando e una commissione diocesana ne sta redigendo delle linee-guida per accompagnarla e sostenerla.

L’intuizione di avviare, promuovere e consolidare questa forma di presenza della Chiesa nella società l’ebbe, nell’estate del 2008, il card. Dionigi Tettamanzi, anche se il primo esperimento prese avvio nel 2001 alla parrocchia Pentecoste nel quartiere Quarto Oggiaro.

Come da testimonianza riportata da Fazzini a pag. 73 del libro, in occasione del tradizionale incontro estivo dell’arcivescovo di Milano con i missionari ambrosiani nel mondo, una coppia di sposi relazionò sull’esperienza che da due anni stava facendo in Venezuela come animatrice pastorale di una comunità senza prete residente.

Il cardinale, molto colpito dalla testimonianza, chiese ai coniugi Di Giovine: «Non potremmo immaginare presenze laicali o di famiglie anche in chiese milanesi dove non c’è più il presbitero, come già succede nella vostra esperienza di fidei donum?».

A livello nazionale si contano un centinaio di realtà in qualche modo simili a quelle milanesi sparse in numerose diocesi italiane: da Milano a Como, da Piacenza a Cremona, da Torino a Cuneo, da Alba ad Acqui, da Padova a Verona, da Pordenone a Treviso, da Reggio Emilia a Bologna, da Firenze a Pistoia, da Fiesole a Massa Marittima/Piombino…

Ma di che cosa si tratta ?

Tenere le «porte aperte» e farsi «gli affari degli altri»

Le persone impegnate in questa bella esperienza di Chiesa in silenziosa crescita ci tengono ad essere considerate come “gente comune”, alle prese con problemi che sono quelli tipici di ogni famiglia. Se qualche cosa di “diverso” hanno non è in virtù della laurea magistrale in teologia conseguita all’Istituto superiore di scienze religiose, ma piuttosto – come scrive Gerolamo Fazzini nell’introduzione del libro citato (pp. 13-14) – per due semplici ragioni: hanno scelto di «farsi gli affari degli altri», ossia di non vivere in «appartamento» come chi, rientrato a casa dopo il lavoro, si «apparta», chiudendo spesso gli occhi su quello che succede fuori; hanno accettato di vivere «con la porta aperta» sia sulle necessità delle comunità ecclesiali caratterizzate dall’inesorabile invecchiamento e dal calo progressivo del numero di presbiteri, sia sulle situazioni umane e sociali fatte di sofferenza e di disagio che interpellano il senso di responsabilità e di solidarietà di ogni uomo e donna di buona volontà.

«Siamo una famiglia normale. E vogliamo mostrare a tutti che seguire Gesù, con quattro figli e lavorando, è qualcosa alla portata di tutti. Non è un’impresa riservata a superfamiglie» (p. 46). «La nostra è l’avventura di una casa dalle porte aperte che non è riservata a supercattolici, ma è davvero aperta a tutti» (p. 85). «Non c’è cristianesimo vissuto senza porte aperte» (p. 88).

Vogliono essere un esempio di Chiesa in uscita missionaria che, dalla vita di fede, trae energie per tessere legami comunitari, consapevoli che, per toccare il cuore delle persone, non basta più – come scrive Fazzini – suonare le campane dei campanili, ma vanno suonati i campanelli delle case (pag. 16). «Se c’è una cosa sulla quale queste famiglie scommettono è che l’evangelizzazione procede per relazioni coltivate più che per eventi organizzati, grazie a porte che imprevedibilmente si aprono più che a programmi da implementare con ferree scadenze» (pag. 14). «Il nostro modo di intendere la missione a kmzero è precisamente questo: vivere in pienezza le circostanze che ci vengono date, valorizzando le relazioni rispetto ai programmi» (p. 59).

Per lo più sono famiglie che, provenienti da esperienze missionarie ad gentes, dichiarano al vescovo la disponibilità a mettersi nuovamente a disposizione delle diocesi con lo stile imparato e vissuto in missione e a condividere il patrimonio di esperienze accumulato in quel contesto. L’esperienza missionaria come fidei donum ha allargato i loro orizzonti (p. 136). «Siamo rimasti affascinati dall’idea di poter dare continuità a quanto vissuto in Brasile. Non più da singoli, ma come famiglia» (p. 87).

Ma altrettanto numerosi i casi in cui, ad animare in stile missionario e a testimoniare una presenza continuativa e accogliente della Chiesa tra le case, anche quando i pochi presbiteri sono divisi tra più comunità, sono coppie di sposi e famiglie appartenenti o provenienti da cammini diocesani o associativi che hanno lasciato un segno. C’è chi viene dal mondo scout dell’Agesci, chi dall’Azione cattolica, chi da Comunione e liberazione, che dall’Associazione papa Giovanni XXIII, chi dal laicato dei Missionari della Consolata, chi dall’Operazione Mato Grosso, chi dalla Rete delle Famiglie Ignaziane, chi dall’Ordine Francescano Secolare…

«Quello delle famiglie missionarie a km0 è chiaramente un modello ministeriale nuovo» (p. 81). «Un’avventura che ha cambiato la nostra vita in maniera significativa» (p. 83). Un’esperienza che sta a dimostrare che «la Chiesa non è fatta solo di preti» (p. 106). Una vita semplice «che sa di Vangelo» ed è caratterizzata da uno stile che può rendere felici (p. 68). «Un’esperienza particolarmente bella e intensa perché unifica la vita, nel senso che contagia tutti gli ambiti dell’esistenza con una certa coerenza» (pp. 116-117). «Anche noi ci siamo dati cinque pilastri: l’ascolto della Parola di Dio; la fraternità tra le famiglie; il servizio alla Chiesa diocesana; la misericordia; l’accoglienza dei poveri» (p. 138).

Stare prima che fare

Stare prima che fare è una “parola d’ordine” molto utilizzata dalle famiglie missionarie a km0. Nasce dalla profonda convinzione che «prima viene la vita e poi l’organizzazione» (p. 55). Il che significa appunto che, prima di fare, bisogna stare (p. 27), cioè essere presenti. Anzi, addirittura, non fare ma stare, conservando la capacità di essere liberi dall’esito (p. 92).

«Quello che per noi è diventato fondamentale non è più tanto una sorta di santo attivismo, ma uno stile di apertura e condivisione che segna il nostro quotidiano, e che viene prima delle cose da fare» (p. 65). «La nostra idea era ed è che una famiglia che abita in oratorio può mostrare, semplicemente vivendo con un certo stile, come dei laici possono farsi carico dell’annuncio del Vangelo, pur senza avere un incarico predefinito» (p. 52).

Stare a livello individuale, ma anche in quanto famiglia: «cerchiamo di testimoniare la fede nella sua dimensione più feriale, puntando a rendere significative anche le tante piccole azioni del quotidiano di una famiglia normale. Lo slogan che ci siamo dati è «fare sempre tutto con i figli e mai nonostante loro» (p. 76). «Crediamo che faccia bene ai figli vedere che i genitori hanno una passione nella vita e un ideale in cui credere, Gesù e il Vangelo, e da questo fanno discendere scelte e comportamenti concreti e quotidiani. Insomma: vedono che non sono parole, ma fatti» (p. 79).

Stare vuol dire relazionarsi con le persone con benevolenza e pazienza (p. 88), restituire e rendere fruibili alla comunità luoghi e strutture in stato di abbandono (p. 75), mettere in moto e alimentare meccanismi virtuosi perché altre persone – a livello individuale o familiare – si mettano a servizio della comunità (p. 41).

Stando, si ha la possibilità di sperimentare che «nelle periferie esistenziali» solo in apparenza «Dio non c’è». «In verità, le domande su Dio ci sono, eccome! Ma il più delle volte rimangono inespresse perché spesso preti e religiosi non sono più riconosciuti come persone privilegiate cui porre le domande che scottano» (pp. 77-78).

Stando, ci si rende conto di quanta verità ci sia in ciò che era solito dire Oreste Benzi (il fondatore dell’Associazione Papa Giovanni XXIII): «ciò che sei grida più forte di quello che dici». E allora, «prima ancora di parlare di Dio sarebbe bello che fosse la nostra vita a parlare di Lui» (p. 59).

Un’esperienza temporanea

Uno dei tratti comuni del modello milanese delle famiglie missionarie a km0 è la temporaneità della missione.

Normalmente l’ospitalità in una struttura abitativa diocesana si concretizza tramite la stipula di un comodato d’uso gratuito dell’immobile, della durata da tre a cinque anni, con possibilità di proroga, e con l’assunzione, da parte della famiglia comodataria, delle spese relative alle utenze e al vitto: «per cui non pesiamo nemmeno per un centesimo sulle spalle della comunità» (p. 74).

Il tutto, con grande elasticità (p. 42). Ad esempio, a volte la durata del comodato può coincidere con la durata del periodo di permanenza del parroco responsabile della canonica abitata dalla famiglia (p. 69).

Ancorché la presenza nei locali parrocchiali sia “a tempo”, le famiglie ci tengono a considerarla non una sorta di “parentesi” della loro vita di coppia, ma una scelta vissuta fino in fondo con il massimo di intensità (p. 35).

«Sentirsi provvisori ci costringe a metterci nell’ottica che quello che costruiamo deve rimanere, perché non è legato a noi. Per questo, ogni volta che abbiamo cercato di dar vita a qualche iniziativa, lo abbiamo fatto coinvolgendo la comunità ed evitando di essere gli unici protagonisti» (p. 42). «Stiamo cercando di investire nel futuro, facendo sì che, quando ce ne andremo, chi rimane vada avanti con le sue gambe… Tutti siamo utili, nessuno indispensabile… Agli amici preti dico spesso: la comunità c’era prima di te e ci sarà dopo di te. Occorre operare di conseguenza» (p. 80). «Ai nostri referenti abbiamo detto chiaramente: se un giorno avete l’impressione che noi non siamo più adatti a condurre l’esperienza comunicatecelo senza timori e senza esitazioni» (p. 93).

Garantisce una certa libertà di movimento il fatto che la coppia missionaria a km0 «disponga di un’abitazione propria e svolga professioni che non dipendono dalla realtà ecclesiale» (p. 93).

Il progetto milanese strutturato a livello diocesano prevede che alla famiglia che ha concluso il periodo di missione ne subentri un’altra in modo da dare continuità al progetto stesso.

La disponibilità ad avviare un periodo di missione a km0 viene dichiarata dalla famiglia o al parroco o al vescovo. Ma può essere il prete a proporre alla famiglia di andare ad abitare nella canonica dismessa. «Ci ho impiegato due anni – confessa un parroco – per individuare una coppia che potesse accogliere l’invito» (p. 37). In ogni caso la proposta di inserimento di una famiglia missionaria a km0 nella comunità viene sempre maturata e condivisa nell’ambito del Consiglio pastorale parrocchiale.

«Faccio fatica a pensarmi come prete solitario»

L’esperienza delle famiglie missionarie a km0 – soprattutto quando si concretizza in forma di convivenza tra coppie di sposi e presbiteri – sembra si stia rivelando di particolare utilità anche per questi ultimi.

«Il confronto costante tra persone con vocazioni diverse – confessa un parroco che vive nella canonica che ospita la famiglia – è un arricchimento reciproco e tutti lo percepiamo» (p. 27). E aggiunge: «La verità è che oggi come oggi faccio fatica a pensarmi come prete da solo. Anzi, ho maturato l’idea che un prete da solo in parrocchia non sia un bel segno. Continuiamo a parlare di comunità. Poi, però, noi preti siamo i primi a fare un vita da single, da solitari e talvolta un po’ da orsi, senza dover rendere conto o confrontarci con nessuno» (p. 28).

Quanto alle famiglie: «Noi vediamo il parroco tutti i giorni e potremmo accorgerci, se dovesse capitare, che si sta ammalando di stanchezza o sta andando in burnout, perché, grazie alla confidenza che si è creata, è bello che egli possa esprimere le proprie fragilità. L’idea del prete tutto d’un pezzo, che non molla e non deve mollare un colpo ormai non esiste più o, quantomeno, non è più vera» (pp. 28-29).

«Devo riconoscere – confessa un altro parroco – di sentirmi molto rispettato e apprezzato dalla famiglia: per un prete non è poco, di questi tempi, sentirsi compreso, avvertire che l’altro sa quello che stai passando. Io lo tocco con mano». «Questi tre anni insieme – gli fa eco la coppia di sposi – ci hanno aiutato un po’ a calarci nei panni del parroco e a capire le sue fatiche, che spesso la gente non vede» (p. 57).

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