La “Chiesa di carne”

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Koldo è al corrente di ciò che si discute in altri paesi e in altre Chiese, soprattutto europee, in questi giorni di pandemia. Conosce il conflitto divampato tra la Conferenza episcopale italiana e il governo di Giuseppe Conte per l’apertura delle chiese, alla fine risolto. È informato della via aperta, a questo riguardo, da quella tedesca e intuisce che pare abbia ispirato la Chiesa spagnola. Segue con interesse il dibattito che si è sviluppato in quella francese per il ritardo (giudicato eccessivo) nella riapertura per le celebrazioni liturgiche.

Si sente rivoltare lo stomaco quando gli parlo del modo con cui il fondamentalismo evangelico statunitense o brasiliano sta affrontando la pandemia. Lo indigna il silenzio su ciò che sta avvenendo in Africa e in altri luoghi. Lo disturba il modo con cui viene trattata la Chiesa in certi media¸ sia per attaccare Francesco sia per prendersela contro lo spirito antiquato che persiste ancora in essa: «So bene – sottolinea – che tra i 1.300 milioni di cattolici c’è di tutto: come in farmacia. E so che molte volte non rimane altra scelta che informare sui comportamenti e le dichiarazioni istrioniche o le stupidaggini che alcuni dicono sull’attuale pontefice. È un modo per vendere. Ma sia gli uni sia gli altri, coinvolti in queste guerre, sembrano ignorare ciò che è abituale nell’enorme maggioranza delle nostre Chiese».

Chi si esprime così è il parroco della città dove io risiedo. Lo conosco da molti anni. È più vicino ai sessant’anni che ai cinquanta e, di fronte alle sue lagnanze, gli chiedo che cosa fa in questo tempo di templi chiusi, ma di Chiese aperte. «Sì, puntualizza, di templi chiusi, ma di Chiese aperte. I templi, prosegue, sono edifici; le Chiese sono comunità vive, formate da persone in carne e ossa». D’accordo, gli dico, ma c’è della gente nella Chiesa che è molto arrabbiata per il suo silenzio. Mi risponde: «Non è un tempo di diventare “influencer” per la vita, ma di stare vicino a chi realmente è nel bisogno. Ci siamo trovati davanti a una situazione che è molto difficile per una quantità di gente, e non solo per il numero enorme di decessi.

Lo è anche per le famiglie (non molte, ma ci sono) che hanno problemi per poter mangiare tutti i giorni. Stiamo aiutando alcuni con del denaro; altri con il cibo. Contiamo su un gruppo di volontariato che ha dovuto riorganizzarsi, rispettando scrupolosamente le condizioni igieniche, e che si è assunto questo servizio, per niente facile, nei tempi che corrono.

Ritengo – afferma – che, a mano a mano che usciremo dal confinamento, questa situazione si aggraverà. Le cose si fanno difficili. Soprattutto per i più bisognosi che, come sempre, sono coloro che di solito hanno più difficoltà ad andare avanti».

«Nelle occasioni in cui abbiamo parlato – rispondo – ho visto te e gli altri membri della parrocchia più preoccupati degli indifesi che dell’impossibilità di celebrare la messa. Mi è sembrato che vi interessaste, in particolare, delle persone anziane. Mi dicono che avete aiutato a compilare richieste per coloro che hanno enormi difficoltà all’accesso telematico. Ho saputo del tuo interesse per le famiglie dei defunti, accompagnandole nel loro ultimo addio, quando lo hanno chiesto. Sono molte le persone che ringraziano per il chat creato con le persone più legate alla chiesa, alcune delle quali avete aiutato nel loro “battesimo online” per sostenere video-conferenze…».

«Ci sono – mi risponde – molti che si sono sentiti attirati. E che tuttora lo sono. Più di quanto possa sembrare. Mi dispiace di non essere stati sufficientemente solleciti ad avviare l’incontro attraverso la video-conferenza con il gruppo di Alcolisti Anonimi (una comunità internazionale di aiuto contro la malattia dell’alcolismo, ndtr.) che si riuniva nei locali. Credo che, se lo avessimo fatto prima, avremmo evitato la ricaduta di qualcuno di essi, dopo anni affrontati con successo nel fronteggiare la malattia. Anche il virus si sta diffondendo tra queste persone».

Ora vado. Non voglio stancarlo con le mie domande e i miei commenti. Non è interessato a sapere perché hanno multato mons. Munilla. Lo lascia indifferente che ci siano sacerdoti che benedicono il popolo dai loro tetti e sopporta il casino che si è creato con le prime (e «ultime» commenta sornionamente) comunioni spostate a settembre, e gli danno fastidio le lamentele di alcuni per non aver aperto il tempio. «Dovremmo essere molto più preoccupati per la Chiesa di carne che non dell’edificio» lo sento ripetere prima di salutarci. Ha fretta perché va a visitare una persona che vive sola, in una baracca, fuori della città e non vuole sapere niente di nessuno. Egli è uno dei pochi a cui non sarà usurpato il posto. Sia perché non si sente giudicato, sia perché sa di essere un po’ accompagnato.

Koldo è un prete, ma anche un cittadino il quale, siccome ama la Vita (l’altro nome di Dio), la desidera per i membri della sua comunità e per i suoi vicini. Probabilmente gli interessa poco il lato istrionico della Chiesa (fa parte della vita) e si attende ogni giorno che passa che lo sia un po’ meno. Anche nei media.

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