La politica della cittadinanza

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Proprio nei giorni nei quali si inizia a parlare del referendum dell’8-9 giugno, il Parlamento converte in legge un decreto del governo Meloni che interviene su uno dei temi oggetto della consultazione: la cittadinanza.

Il primo quesito del referendum vuole ridurre da 10 a cinque gli anni di residenza legale in Italia richiesti a uno straniero extracomunitario per richiedere la cittadinanza italiana. A quel requisito formale se ne somma uno sostanziale, cioè i tre anni circa che passano dalla richiesta della cittadinanza alla eventuale concessione. Quindi il referendum ridurrebbe i tempi effettivi da 13 a 8 anni circa, e avrebbe poi un beneficio più di lungo termine perché i figli nati in Italia delle persone diventate cittadine italiane sarebbero automaticamente italiani senza dover aspettare i 18 anni.

La legge della maggioranza interviene invece su un altro fronte della questione, la cittadinanza italiana ai figli nati all’estero di cittadini italiani. In pratica, chiunque avesse un antenato italiano fino all’unità d’Italia poteva chiedere la cittadinanza italiana, anche senza essere mai stato in Italia e senza avere avuto alcuna partecipazione alla vita del Paese. Soltanto negli Stati Uniti ci sono tra i 16 e i 20 milioni di discendenti di migranti italiani, arrivati nella prima parte del secolo scorso.

I beneficiari potenziali di cittadinanza italiana sono almeno 80 milioni, molti più di tutti i residenti in Italia. Le richieste pendenti, che l’amministrazione italiana non riesce più a gestire, sono almeno 60.000. Con le nuove regole, i discendenti di cittadini italiani nati all’estero saranno automaticamente cittadini italiani solo per due generazioni, serve quindi almeno un genitore o un nonno italiano. Mentre i figli di italiani avranno la cittadinanza in automatico se nascono in Italia o se prima della nascita uno dei loro genitori ha risieduto in Italia per almeno due anni continuativi.

Perché il Governo Meloni interviene proprio ora, per restringere la cittadinanza per diritto di sangue, che è uno dei pilastri della visione nazionale della destra, contrapposta a quella del diritto di suolo, più favorevole agli immigrati, proposta dai progressisti?

Il Financial Times suggerisce una spiegazione: perché l’amministrazione Trump è molto seccata dalla facilità con cui vengono concessi passaporti italiani a persone che li usano per avere accesso facilitato agli Stati Uniti, una pratica a lungo tollerata, quando addirittura gli italoamericani erano considerati un pezzo fondamentale dell’identità americana, ma che oggi è malvista in tempi di politiche restrittive sui migranti e deportazioni.

Nel 2024 hanno avuto la cittadinanza italiana 25.000 bambini nati all’estero, mentre sono nati in Italia 50.000 bambini senza cittadinanza italiana, figli di genitori stranieri. Altre 85.000 persone hanno ottenuto la cittadinanza italiana da residenti all’estero grazie a un antenato italiano o a un matrimonio con un italiano.

L’inclusione è la premessa della democrazia

Lea Ypi è una filosofa, nata in Albania, si è laureata alla Sapienza, a Roma, e oggi insegna Teoria politica alla London School of Economics. Per Feltrinelli ha appena pubblicato Confini di classe. Disuguaglianze, migrazione e cittadinanza nello Stato capitalista.

  • Nelle sue undici tesi sulla cittadinanza, in apertura del libro, sostiene che “le politiche di cittadinanza oggi rafforzano il carattere di classe dello Stato”. In che senso?

La cittadinanza oggi è diventata uno strumento di selezione economica e sociale. I criteri per ottenerla – il reddito, l’istruzione, le competenze linguistiche – riflettono e rafforzano le gerarchie già presenti nella società. Di conseguenza, chi ha più mezzi ottiene un accesso più rapido e stabile a uno status giuridico che garantisce diritti fondamentali. Al contrario, chi è più vulnerabile rimane esposto all’arbitrarietà dello Stato, alla precarietà legale e spesso alla criminalizzazione.

Questo ci fa capire che, se da un lato lo Stato moderno si presenta come neutrale, nella pratica agisce invece come un custode di privilegi. Così, la cittadinanza – che originariamente era concepita come un veicolo di emancipazione universale nell’epoca di espansione democratica dei diritti – viene ridotta oggi a un meccanismo di esclusione di classe. Non è più, quindi, uno strumento egualitario ma uno strumento oppressivo. E così la democrazia degenera in oligarchia, nel senso classico greco del termine: cioè, il potere finisce per essere detenuto da una minoranza, la minoranza più ricca.

  • Nel libro affronta il dilemma dei progressisti che condanna tutti i partiti diciamo di centrosinistra a non sapere bene che dire sulla migrazione: da un lato predicano una “solidarietà civica”, dall’altro temono le conseguenze del “conflitto distributivo”, cioè dello stress a cui si sottopone la società e la finanza pubblica se entrano troppe persone. Come se ne esce?

Il centrosinistra oggi è paralizzato tra l’universalismo dei principi che dichiara e un pragmatismo politico che lo porta a competere alle elezioni con partiti che controllano il discorso sulla migrazione in modo sempre più restrittivo.

Da un lato, i progressisti sostengono i principi universali di solidarietà; dall’altro, però, temono che un’eccessiva apertura possa destabilizzare lo Stato sociale e il contratto sociale tra cittadini e Stato. Il punto centrale, tuttavia, è che questo contratto sociale è già profondamente iniquo, e chi arriva da fuori non solo ne subisce le contraddizioni più dure, ma rischia anche di essere usato contro i diritti dei più vulnerabili, diventando spesso uno strumento di sfruttamento.

Una soluzione possibile consiste nel riconoscere che la migrazione non rappresenta una minaccia: i confini, infatti, sono sempre stati aperti per alcune persone e chiusi per altre. Bisogna comprendere che la migrazione non è il vero problema per la partecipazione alla comunità politica, ma piuttosto una conseguenza delle disuguaglianze globali spesso create o alimentate proprio da coloro che oggi vogliono alzare muri.

Un autentico discorso progressista, dunque, dovrebbe spostare il dibattito: non dovrebbe concentrarsi sul numero degli arrivi o sulle modalità di controllo dei confini, e nemmeno distinguere tra migranti «bravi» e migranti «cattivi», tra migranti legali e migranti che violano la legge. Piuttosto, dovrebbe focalizzarsi sulle cause profonde di questo movimento asimmetrico da una parte all’altra del mondo e su come realizzare una giustizia sociale che non si fermi ai confini nazionali.

  • Da un punto di vista filosofico, qual è il modo più equo, o giusto di distribuire la cittadinanza? Per nascita o per scelta? Sembra che tutti siamo d’accordo che chi nasce da genitori italiani in Italia sia italiano, ma quali sono le basi filosofiche per scegliere una delle altre combinazioni o delle vie di mezzo tra queste che sia il diritto di sangue (nascere ovunque ma da italiani) o di territorio (nascere da chiunque ma in Italia)?

Attribuire la cittadinanza per nascita, che sia per diritto di sangue o per diritto di suolo, è sempre un atto arbitrario: nessuno sceglie dove o da chi nascere. Secondo me, il modello più giusto è quello che mette al centro la partecipazione, l’impegno concreto nella vita collettiva e la difesa dei diritti. Credo che la cittadinanza dovrebbe essere accessibile e aperta a tutti, non dovrebbe essere concepita né come un’eredità né come una concessione.

Le obiezioni che oggi vengono mosse contro l’allargamento del diritto di cittadinanza mi ricordano quelle che un tempo sollevavano gli aristocratici contro il suffragio universale. Anche allora si diceva che chi non parlava la lingua nazionale, chi non leggeva i giornali perché analfabeta o chi non guadagnava abbastanza non fosse pronto per partecipare alla vita politica collettiva. Io invece credo che sia proprio partecipando che si diventa cittadini. L’inclusione, dunque, non è il premio per chi è già pronto, ma è la condizione necessaria per una vera democrazia.

  • Venendo alla sua personale esperienza, quali cittadinanze ha e come le ha ottenute? E come si intersecano con il senso di appartenenza?

Io sono nata in Albania e mantengo ancora la cittadinanza albanese. Poi ho vissuto molti anni in Italia, senza mai riuscire a ottenere la cittadinanza a causa della legislazione restrittiva, e infine ho ricevuto la cittadinanza britannica dopo molti anni trascorsi a lavorare e a vivere nel Regno Unito. In realtà, nessuna di queste cittadinanze è arrivata come frutto di una scelta consapevole legata alla mia identità: tutte sono state risposte a bisogni concreti, materiali, come studiare o lavorare.

Alla fine, il mio senso di appartenenza non coincide con nessuno di questi passaporti, e penso che questa sia una condizione piuttosto tipica dell’esperienza migrante. Chi migra, infatti, è sempre un po’ senza patria: deve abbandonare il proprio Paese, ma raramente ne trova davvero uno nuovo. È una condizione di continua tensione, in cui si è allo stesso tempo integrati e alienati. E forse proprio da questa ambivalenza nasce poi una consapevolezza diversa di cosa significhi davvero appartenere: non un’identità fissa, ma una pratica quotidiana di relazione e responsabilità.

La scelta politica

Le regole sulla cittadinanza da concedere o meno agli immigrati e quelle per gli italiani residenti all’estero sono sempre legate nella storia recente italiana. Per capirlo, bisogna tornare all’inizio degli anni Novanta, quando l’Italia si scopre per la prima volta meta di immigrazione, soprattutto dai Balcani in guerra, soprattutto dall’Albania, il Paese di origine di Lea Ypi.

In quella fase succedono varie cose importanti: nel 1992 cambiano le regole per i cittadini di Paesi dell’Unione europea che vogliono la cittadinanza, i tempi scendono da cinque a quattro anni, mentre raddoppia il tempo per gli extracomunitari, da cinque a dieci anni, con moltissime incertezze nel processo: basta una multa non pagata o una irregolarità nella denuncia dei redditi per avere responso negativo.

In parallelo, l’ex fascista della Repubblica di Salò poi diventato parlamentare di Alleanza nazionale Mirko Tremaglia inizia una battaglia per aumentare il peso politico degli italiani residenti all’estero, per bilanciare la composizione etnica, diciamo così, degli italiani con diritto alla partecipazione democratica.

La legge Tremaglia per gli italiani all’estero del 2001 è per anni un pilastro dell’attività del centrodestra di governo di Silvio Berlusconi: nasce la circoscrizione estero, che spesso si rivela decisiva e che addensa polemiche per il voto per corrispondenza si rivela facile da manipolare. Ha scritto il sociologo Maurizio Ambrosini nel trentennale della legge del 1992,

I nostri legislatori appaiono attanagliati da varie paure. La prima è quella del confronto con una concezione della cittadinanza legata all’eredità ottocentesca della nazione: «una d’arme, di lingua, d’altare/ di memorie, di sangue e di cor», come la definiva esemplarmente Alessandro Manzoni nell’ode Marzo 1821. In altri termini, suscita resistenze l’idea che si possa essere italiani con la pelle nera, gli occhi a mandorla, il velo, il turbante, o comunque con un cognome strano e difficile da pronunciare. Per molti l’identità nazionale rimane basata sul sangue, come nella legge del ‘92, e rivolta sostanzialmente al passato.

Adesso un’altra destra di Governo, con una premier che arriva dalla stessa tradizione politica di Tremaglia, va in un’altra direzione e prova a restringere il numero e dunque l’impatto di questi italiani per sangue e non per nascita o vissuto.

Comunque la si pensi sul referendum e sulla legge del Governo, il solo fatto che il confine della cittadinanza e della partecipazione democratica e civile siano così arbitrari, che con un tratto di penna si possano includere o escludere dall’italianità milioni di persone, ci conferma che la cittadinanza è il prodotto della politica.

L’italianità non è una caratteristica intrinseca, ancestrale e inalienabile, ma una questione amministrativa, sempre in evoluzione.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 25 maggio 2025

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Un commento

  1. Maria Laura Innocenti 3 giugno 2025

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