Francesco Spoto, missionario martire

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«Il Signore risorto è vicino ai suoi discepoli missionari e cammina accanto a loro, specialmente quando si sentono smarriti, scoraggiati, impauriti di fronte al mistero dell’iniquità che li circonda e li vuole soffocare. L’immagine dei “piedi in cammino” ci ricorda ancora una volta la perenne validità della missio ad gentes, la missione data alla Chiesa dal Signore risorto di evangelizzare ogni persona e ogni popolo sino ai confini della terra» (Messaggio per la 97ª Giornata missionaria mondiale, nn. 1-3).

Cuori ardenti, piedi in cammino

Per la Giornata missionaria del 22 ottobre 2023, papa Francesco prende spunto dal racconto dei discepoli di Emmaus per sollecitarci a raccontare gioiosamente il Cristo Signore, la sua vita, la sua passione, morte e risurrezione, le meraviglie che il suo amore ha compiuto nella nostra esistenza.

Siamo perfettamente in linea con l’istanza missionaria della lunghissima esortazione apostolica (ben 288 paragrafi!) intitolata Evangelii gaudium… sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale (24 novembre 2013), la prima pietra miliare di questo papa scelto dalla fine del mondo, per ribadire il dovere dell’annuncio ovunque, anche nel continente africano.

Le cose non andarono a buon fine?

Il golpe in Nigeruno Stato continentale dell’Africa centro-settentrionale, senza sbocchi sul mare – ha riportato l’attenzione del mondo opulento su un territorio in cui oltre 2/3 sono desertici e soltanto le aree nei dintorni del fiume Niger e, in misura minore, lungo il confine con la Nigeria, offrono condizioni ambientali decenti, anche se non ideali.

A queste zone africane – tra le più militarizzate del mondo – si guarda con preoccupazione. In particolare, si guarda al Sahel, regione geografica “assetata”, nella quale sono comprese porzioni più o meno estese di Senegal, Mauritania, Mali, Burkina, Niger, Nigeria, Ciad, Camerun, Sudan, Etiopia ed Eritrea. Paesi tutti in cui sono presenti anche gruppi terroristici, che approfittano della preesistente instabilità e contribuiscono a peggiorarla, spesso cavalcando mire anti-occidentali e anti-colonialiste.

Tutta una regione oggi in subbuglio, insomma, con notevoli riverberi sulle postazioni missionarie cattoliche. In una di esse fu martirizzato Padre Francesco Spoto, dei Missionari servi dei poveri – i cui resti mortali sono conservati nella chiesa parrocchiale “Cuore Eucaristico di Gesù”, in corso Calatafimi, 327 a Palermo.

Padre Francesco Spoto morì all’alba di domenica 27 dicembre 1964. La sua congregazione aveva da poco (1961) aperto una missione nel nord-est dell’ex Congo belga e padre Francesco, all’epoca giovanissimo superiore generale (era stato eletto trentacinquenne nel ’59), si era sentito in dovere di far visita ai suoi confratelli, i primi impegnati nella missione ad gentes, e poi di restare con loro nel momento in cui la situazione in quella zona del Congo si era fatta incandescente per le lotte seguite all’indipendenza di quell’immenso territorio, da sempre cruciale non solo – come oggi appare – nella geografia dell’Africa, ma anche per le sorti del cristianesimo nel continente africano.

Padre Spoto apparteneva alla famiglia religiosa fondata nelle sue varie articolazioni fra il 1867 e il 1887 dal beato medico e sacerdote palermitano Giacomo Cusmano (1834 – 1888), e negli anni Sessanta del secolo successivo composta ancora per la quasi totalità da siciliani, della cui serietà e del cui ardore padre Spoto portava l’impronta.

Se Cusmano aveva dovuto accontentarsi del martirio a secco, Spoto muore per i postumi delle violenze e delle percosse subite.

I suoi scritti (conserviamo 13 fascicoli di prediche, 4 fascicoli di lettere e il diario redatto in Congo in limine mortis) mettono in risalto uno spaccato umano, immediato, a volte intimistico, oltre allo zelo missionario e alle non indifferenti doti necessarie per gestire tante situazioni.

Nelle sue prediche, in particolare, siamo posti in presenza dell’intimo dell’anima, con tutti i suoi tesori che ci svelano un uomo, un sacerdote in cammino, mai pago del già raggiunto, ma proteso sempre verso un ideale scelto e fortemente amato: un vero sacerdote, un puro missionario e un grande superiore generale, che esalta la gioia del martirio già in una predica sul giovinetto Pancrazio: «Alcuni giorni dopo, il giovinetto Pancrazio veniva preso e condannato a morte come cristiano. Nel patibolo, stringendo al petto il sangue del padre, tutto raggiante di gioia moriva martire della fede cristiana» (in Appunti di prediche sul battesimo, fondamento della vita cristiana e religiosa).

Non lasciamoci rubare l’entusiasmo missionario

Nato nel 1924 nell’Agrigentino, a Raffadali, un piccolo borgo di collina, padre Francesco era stato lì battezzato e la mamma lo aveva consacrato a san Francesco Saverio, facendogli indossare l’abitino votivo del santo patrono delle missioni. Presagio di quella “camicetta” battesimale, che diventa rossa per il sangue del martirio.

Descrivendo la vocazione missionaria di ogni Chiesa particolare – che è il volto territoriale della Chiesa cattolica –, Evangelii gaudium raccomanda la centralità di Cristo nella predicazione missionaria, con la particolare curvatura preferenziale del missionario verso i bisognosi e i poveri: «La sua gioia di comunicare Gesù Cristo si esprime tanto nella sua preoccupazione di annunciarlo in altri luoghi più bisognosi, quanto in una costante uscita verso le periferie del proprio territorio o verso i nuovi ambiti socio-culturali» (n. 30).

Sembra di ritrovare le avvisaglie di quanto si legge nelle prediche di padre Francesco.

Valga per tutti un breve passaggio di una delle prediche tenute ai religiosi e ai seminaristi (datata 1962) sulla sequela di Cristo, nella quale addita appunto il Cristo come il centro della via ascetica, da percorrere con decisione da parte di chiunque voglia imitarlo, per esempio nella forma di vita della «perfetta carità», qual è quella delle persone di vita consacrata: «Seguire Gesù Cristo significa sceglierlo a modello della propria vita, cercando d’imitarlo nelle sue virtù e di metterne in pratica gli insegnamenti. In questa imitazione di Gesù Cristo consiste essenzialmente l’ascetica religiosa e tutta la perfezione cristiana. […] Cristo è il centro dell’ascetica […]. Termine di tutta la perfezione è, in ultima analisi, la “unio cum Deo”. Ma l’“unio cum Deo” è prima “cum Christo” e poi “per Christum unio cum Deo”».

Spoto spirerà in seguito alle percosse brutali cui lo avevano sottoposto i “Simba”.

Pierre Mulele, rivoluzionario congolese, capo del Parti solidaire africain e ministro dell’Educazione nel primo governo indipendente (1960), dopo l’assassinio di Lumumba, si era recato nella Repubblica popolare cinese per addestramento militare; di ritorno in patria nel 1964, capeggiò, nella regione del Kwilu, una sanguinosa rivolta, dove tratti di radicalismo ideologico rivoluzionario marxista si fusero con elementi magico–religiosi nativi.

I suoi seguaci erano chiamati Simba, una fazione ribelle che prendeva il nome dal termine swahili, che significa “leone”, e arruolava ragazzini fra i 10 e i 14 anni (un po’ come le nostre mafie locali).

Armati spesso soltanto di lance e frecce avvelenate, di fronte ai proiettili sparati contro di loro, i Simba urlano la litania: “Maji Mulele” (Acqua Mulele), convinti come sono che i proiettili si trasformeranno in acqua prima di colpirli.

Partito per l’Africa in visita canonica ai confratelli della Missione di Biringi il 4 agosto 1964, padre Spoto la sera dell’11 dicembre 1964 sarà catturato appunto da due “Simba” e da questi percosso a morte (gli fracassarono il torace), tanto che, dopo poco più di due settimane, dopo dolori inenarrabili, sopportati con cristiana e serena rassegnazione, spirò nella capanna di un fedele congolese.

Un sano dinamismo di annuncio

Non più percepita come lieta notizia, ma decaduta ad arido cristianesimo abitudinario, senza presa sull’orientamento della vita, anche negli anni di Spoto si sentiva la necessità di un rinnovamento della predicazione, soprattutto nelle congregazioni religiose di vocazione missionaria.

Non ci si doveva limitare a trattare questioni metodologiche e pratiche, ma entrare nel merito degli stessi contenuti, ricuperando il cristocentrismo del kerygma: «La predicazione, invece, è tutta rivolta alla vita, ed essa pertanto considera la stessa realtà religiosa solo come il bene finale della nostra ricerca (bonum). […] Il suo oggetto proprio è e rimane la lieta notizia, e precisamente quello che nel cristianesimo primitivo è stato chiamato il kerygma. […]. La stessa predicazione rimane sempre annuncio-di-salvezza; infatti, il senso del cristianesimo non è il sapere, bensì la vita; non la teologia, bensì la santità».

Queste battute di un’opera di Jungmann, del 1936, si riverberano negli scritti di Spoto. Quasi presago d’una vita breve, egli rivolge tutto il “sano dinamismo” nel solco cusmaniano, curando d’interpretarne con fedeltà e completezza il suo carisma. Soltanto in questo modo «la laboriosa ricerca» lo porterà a trovare «la soluzione del lungo e laborioso travaglio», come scrisse in una predica ai sacerdoti della congregazione il 21 novembre 1963.

Un simile progetto non può essere affrontato con leggerezza, improvvisando, con faciloneria: richiede “mestiere”, serietà, preparazione, duro e serio impegno. Potremmo dire: stile di vita, che si manifesta in ogni ambito della multiforme e instancabile attività che era il leit-motiv della giornata di Spoto.

Se a ciò aggiungiamo la serietà temperamentale, la profondità della cultura, il vasto orizzonte dei suoi interessi, l’onestà intellettuale e, soprattutto, il radicamento della religiosità e della spiritualità, abbiamo un ritratto che, oltre a trovare conferma nei giudizi di moltissime persone che lo conobbero, non ci permette di provare stupore – come verrebbe spontaneo – al cospetto della quantità e della qualità della sua attività.

La sua è una teologia destinata a far da ponte tra la teologia puramente intellettuale e la catechesi e la predicazione, che «deve essere cristocentrica», o anche, con le parole di Spoto, «kerigmatica sociale»: «La nostra predicazione deve essere kerigmatica e sociale: kerigmatica… concentrata cioè nel mistero di Cristo; deve essere efficace e chiara; sociale: deve avere uno sfondo sociale, per far comprendere la solidarietà della dottrina cristiana» (dalle Prediche ai sacerdoti per il 21 novembre 1963).

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