Padre Francesco Spoto

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Il 24 settembre ricorre la memoria liturgica del beato Francesco Spoto, religioso bocconiano, martirizzato in Congo dai guerriglieri Simba nel 1964.

«Come ho avuto modo di dire tante volte, la Chiesa non è una ONG. La nostra azione caritatevole dev’essere ispirata dal e al Vangelo. Questi aiuti devono essere un segno tangibile della carità di una Chiesa locale che aiuta un’altra Chiesa che sta soffrendo… Una Chiesa che aiuta un’altra Chiesa!».

Queste recenti battute di papa Francesco nel suo Videomessaggio ai partecipanti all’incontro online sulla crisi umanitaria siriana e irachena, promosso dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale nel 2020, fanno la differenza del credente cristiano rispetto ad altri pur lodevoli operatori sociali e di solidarietà.

Il beato p. Francesco Spoto, missionario bocconista martirizzato a Biringi dai Simba il 27 dicembre 1964, in una Predica ai sacerdoti del 16 gennaio del 1962, affermava: «La nostra vita non ha nessun significato senza la fede: le nostre parole, i nostri gesti, le nostre genuflessioni, la nostra carità sarebbero senza valore Tutto invece s’illumina con la nostra fede: la croce, l’ostia, la sofferenza, il sacrificio, l’apostolato, la morte. L’invisibile diviene una realtà più solida del visibile: ciò che non passa, assume ai nostri occhi un’importanza maggiore di ciò che passa; alla sua luce vediamo ogni cosa, andando oltre le apparenze per raggiungere in tutto la realtà profonda, la sola vera, la sola che conta».

La fede è sempre vissuta, oltre che creduta

Come a dire che la fede creduta è sempre vita vissuta, oppure non è fede genuina; o anche che il Vangelo è sempre azione verso chi soffre.

«Fede non è sapere
che l’altro esiste
è vivere
dentro di lui
calore nelle sue vene
sogno
nei suoi pensieri.
Qui aggirarsi dormendo
in lui destarsi» (Lalla Romano, Poesie, a cura di Cesare Segre, Einaudi).

Certo, la fede è “anche” questo dire e non dire, che è proprio del poeta e – tra i poeti – di colui che solo pensa a lasciarsi cullare dallo sciabordio del lirismo. Compiere un atto di coraggio o di affidamento e sperare nella “cecità” della fede.

Per altri, per i credenti, invece, la fede, al pari delle sue sei sorelle virtuose, è una “lampada”, è un dono di Dio. Papa Luciani chiamava proprio così le sette virtù: “le sette lampade”. La metafora è tanto lampante che non va spiegata. Guai all’uomo meschino se lascia che qualcuna delle lampade si spenga.

E, se è possibile fare una gerarchia, mai e poi mai deve cessare la fiammella della fede. La chiamata di Gesù a diffondere e testimoniare la fede non è diretta solamente al piccolo numero degli uomini da lui eletti a predicare il Vangelo, bensì a tutti coloro che l’impulso della fede spinge a diventare suoi discepoli.

Tutti sono chiamati ad essere discepoli di Gesù: se si vuole raggiungere la salvezza, non si può far a meno di seguirlo. Il suo regno è universale: esteso a tutte le creature, di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

Il martire Francesco Spoto

In questa linea, p. Francesco Spoto si dichiarava certo che la fede senza le opere è davvero morta. Scrive nel Regolamento per i Cooperatori: «Scopo dei Cooperatori: praticare le opere di misericordia in maniera da rendere testimonianza alla fede cristiana e riportare le anime a Dio» (Francesco Spoto, Cooperatori delle opere di Padre G. Cusmano).

È, questa, un’efficace sintesi di questo raccordo tra fede e opere. Il credere non è mai soltanto un fatto teorico, ma è inevitabilmente azione e pratica.

Catturato da due “Simba” e da questi percosso a morte, tanto che dopo poco più di due settimane, dopo dolori inenarrabili sopportati con cristiana e serena rassegnazione, p. Spoto muore appena quarantenne, egli mostra il coraggio di chi subisce il martirio per fede e amore. Fu il suo “sogno”.

Al giovane chierico Giovanni Avena, in procinto di essere ordinato sacerdote, Spoto disse: «Non smettere mai di sognare e di realizzare il sogno di Dio su di te». Poi lo abbracciò con evidente commozione e scomparve dentro la carlinga di un aereo che lo rapì planandolo sul Congo, senza ritorno.

Dio ha “progettato” su ciascuno di noi: ci ha fatto suoi figli e noi, da buoni figli, gli siamo diuturnamente debitori di un “sì”. Un “sì” filiale, per l’appunto, da mormorare a Dio in un intimo meraviglioso colloquio d’amore, semplice e complicato insieme, chiaro eppure misterioso, che si apre inevitabilmente all’ultimo e al povero.

In fondo, il grande Calderon de la Barca continua a ripeterci che “la vita è sogno” e tu, padre Spoto, ci ammonisci che, senza la fede in Dio, il sogno non riesci a ricordartelo. E resti lì, imbambolato, stupito e anche contrariato dalla tua stessa inanità a “ri‑vivere” il sogno.

Un’ala che ci fa volare fino al cielo

Scriveva ancora p. Francesco: «I poveri abbandonati da una società egoista, tormentati dalla fame, immersi in una cupa disperazione, vivevano lontani da Dio, pieni di odio contro tutti, anche contro la religione. I ricchi, chiusi nel loro egoismo, avevano abbandonato l’esercizio della carità, ch’è l’alimento della fede in Dio» (Spoto, Appunti per il Bollettino).

Padre Francesco, tu stai qui a rammentarci di essere stato sacerdote di fede, sacerdote per fede e sacerdote nella fede, ovvero operatore di amore. Ecco: dovremmo oggi raggiungere anche noi – che ci dichiariamo donne e uomini di fede – quell’abbandono totale in Dio (o fede) che vediamo risplendere nei mistici e nei martiri, e allora tutto sarebbe incredibilmente chiaro.

In una predica ai sacerdoti nel 1962, sempre p. Spoto concludendo citava opportunamente il Fondatore dei Bocconisti, Giacomo Cusmano: «La fede è viva quando opera per mezzo della carità; al contrario, è morta quando è senza le opere. Ravviviamo la nostra fede! Questa virtù è come un’ala, che ci farà volare sino al cielo e ci porterà a Dio».

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