Disarmare le parole, le menti, la terra

di:

congdon

Il filo rosso che lega gli interventi dei relatori al Convegno[1] di un bollente fine giugno è Disarmare le parole, le menti, la terra, espressione di papa Francesco contenuta nella lettera[2] da lui indirizzata al direttore del Corriere della Sera.

Resistere alla cultura della guerra nel tempo del riarmo

A sessantadue anni dall’enciclica Pacem in terris e a 110 dalla nascita di Thomas Merton, il monaco trappista, paladino della pace, “resistere alla cultura della guerra” è oggi più che mai necessario, dice Carlo Cefaloni[3].

Una bandiera dell’Europa fatta a pezzi, comparsa sulla copertina del penultimo numero del periodico Città Nuova è la risposta alle parole di papa Francesco, a cui si aggiungono quelle allarmate e allarmanti di un funzionario della Comunità europea che, in un’intervista rilasciata sotto copertura, parla di “delirio militare” e di “deriva verso la guerra” da parte del Parlamento Europeo.

La Russia è percepita come “nemico esistenziale” e per questo l’Unione Europea approva investimenti miliardari sul riarmo e spinge le singole nazioni a destinare il 5% del PIL alle spese militari. Una follia, soprattutto per i paesi già fortemente indebitati come l’Italia, che dovranno stornarle dalle politiche sociali.

Nella società, fra molti esponenti della politica e della chiesa, l’aria che si respira è del periodo precedente la Prima guerra mondiale. Del tutto dimenticati sembrano gli sforzi di uomini come Lelio Basso, che nel 1975 diede vita ad una piattaforma per la sicurezza condivisa, o come Aldo Moro che, da “cristiano non mai appagato della realtà”, alla Conferenza di Helsinki dello stesso anno, parlò di sicurezza e di cooperazione.

L’opzione “Helsinki 2”[4] come alternativa alla NATO, sostenuta dalle voci più lucide del panorama internazionale, è stata vanificata da quel “se vuoi la pace, prepara la guerra” della premier Meloni al Vertice dell’Aja del 25 giugno scorso.

In questo clima da propaganda interventista prebellica, ritorna ad aleggiare l’idea della “guerra giusta” e “giustificata”, contro cui, sulla linea della guerra inutile strage[5] di Benedetto XV, si è pronunciato con parole non ambigue papa Francesco.

Ma la retorica attuale abitua le coscienze a pensare che il sangue versato “è servito a ricomporre l’unità”, che si deve decidere “per che cosa morire e uccidere” e che le morti in guerra sono state il presupposto della pace[6]. Come era giustificata la guerra contro l’invasore Hitler, allo stesso modo bisogna essere pronti contro Putin. Il complesso militare esistente spinge ad “obbedire all’autorità” e uccidere si può se lo si fa senza odio.

Il “qui giace Caino” e “la guerra lascia il mondo peggiore di prima” sono, invece, le parole non ambigue di papa Francesco, a Redipuglia nel 2014 e del Card. Re alla Messa funebre dello stesso Francesco, a fronte di un passato da “neopaganesimo materialistico[7]” in cui si benediva la “santità di omicidi, frutti della vittoria di chi aveva cannoni[8]”.

“Tu non uccidere” raccomandava ai suoi giovani al fronte Don Mazzolari e Eligio Cacciaguerra, tra i fondatori della Democrazia Cristiana, scrive che “il dovere di uccidere è peggiore – più straziante – del dovere di farsi uccidere”. Di qui la proposta di una legge sull’obiezione di coscienza, di cui fu promotore nel 1949 Igino Giordani, condannata dalla Civiltà Cattolica che, a suo tempo, la considerò disastrosa se si fosse estesa agli operai dell’industria bellica. Ma quanto più disastroso – egli si chiede – di un Cristianesimo di “facciata” che induce a “generare alla vita un giovane, farlo consumare negli studi e nei sacrifici, al fine di maturarlo in un’operazione, in cui lui avrebbe dovuto uccidere gente estranea, sconosciuta, innocente” per farsi uccidere, a sua volta, “da gente a cui non aveva fatto alcun male?”[9].

In quegli anni, la proposta di legge sull’obiezione di coscienza fu insabbiata e fu boicottato e addirittura estromesso dal sindacato chi la sosteneva. Oggi gruppi di lavoro operano per la riconversione industriale e perché un’economia “disarmata” possa prendere il posto di un’economia di guerra.

Ha ancora senso parlare di guerra giusta? Thomas Merton e la pace

“Ha ancora senso parlare di guerra giusta?” è la domanda di Mario Zaninelli[10]. L’uso insistito della parola “disarmare” da parte di papa Francesco implica già la risposta. Custodita nella Dottrina sociale della chiesa e nella spiritualità di tutti i popoli, è “un anelito del cuore, un germe che fiorisce nell’interiorità dell’essere umano”. E che abbia dato i suoi frutti lo si è visto in molti personaggi che hanno saputo convertire le parole in gesti e azioni. Come fece Paolo VI che, nel 1965 all’ONU, ha invocato “Mai più la guerra” e parlato di fratellanza, in nome della quale, nel 2019, papa Francesco firmò ad Abu Dhabi il famoso Documento con il Grande Imam.

Leit motiv dei discorsi di tutti i pontefici, la parola pace è nel “Nulla è perduto con la pace! Tutto può esserlo con la guerra” di Pio XII[11]; nell’incipit dell’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII; nell’idea di “guida dei popoli e dell’intera umanità alla fratellanza[12]” di Paolo VI.

merton

Thomas Merton

Questo patrimonio di parole, di cui si fa interprete oggi anche Leone XIV con pace disarmata e pace disarmante, umile e perseverante”, fu il lievito dal quale fiorì il pensiero del monaco trappista Thomas Merton, che papa Francesco, nel suo discorso all’ONU nel 2015, definì “fonte di ispirazione spirituale e … pensatore che ha sfidato le certezze di questo tempo e ha aperto nuovi orizzonti per le anime e per la Chiesa”. Come lo furono A. Lincoln, Martin Luther King e Dorothy Day[13], sognatori della libertà, della pluralità e della non-esclusione, della giustizia e dei diritti umani.

In nome di queste verità T. Merton, che fece della Bibbia e della Dottrina sociale della Chiesa la palestra di riflessione di tutta la sua vita, criticò i principi di “guerra giusta”, di “pacifismo”, di “non violenza” al centro del Magistero della chiesa, affermando che, se nessuna guerra può essere giusta, la parola “violenza nasce dal non rispetto dei diritti”. Anche il “pacifismo” in quanto obbliga a “schierarsi” senza andare al “cuore della protesta” non va perseguito.

Nostro compito è diventare, alla luce delle parole “Verità, Giustizia, Amore, Libertà”, invocate nella Pacem in terris “operatori e artigiani di pace”. Solo in questa veste si possono “costruire ponti” e non “tregue” e fare della relazione quel “dono” necessario a realizzare il “disarmo”.

“Obiezione di coscienza”, “pacifismo non in forma incondizionata”, “disarmo”, “vita trasformata”, “negazione del virus apocalittico” e “rapporti umani” sono il vocabolario e la grammatica da costruire [14], che costarono a Merton condanne e censure. “L’ascia cade su di me” – dice nella sua lettera all’amico Jim Forrest − ma l’obbedienza fu la sua risposta di uomo di pace.

La radice della pace è la paura

Se per Leone XIV “l’inaccettabile sproporzione di ricchezza posseduta da pochi e una povertà estesa oltre misura[15]” sono la causa delle guerre contro cui ci si deve mobilitare “per evitare la corsa al riarmo”[16] , la loro radice è per Merton la paura, idea che egli condivide nella corrispondenza con alcuni amici del Catholic worker movement [17].

In un articolo del 1960, inviato al Catholic Worker – giornale la cui sede, collocata proprio di fronte alle Torri Gemelle, fa da contraltare all’opulenza di una città indifferente all’emarginazione – egli fa presente che “la paura è un’interpretazione sul perché la guerra esiste” il cui solo “vincitore” sono “la guerra stessa” e il commercio delle armi.

A “salvaguardia del diritto infranto o per respingere un’aggressione” persiste nella chiesa ed è presente nell’Enciclica giovannea il concetto di “guerra giusta”, che – dice Merton – invoca con forza il “dono speciale “della protesta e l’obiezione di coscienza, uniche vie per la pace, come ci insegnò Franz Jägerstatter[18], il contadino soldato messo a morte per essersi rifiutato di arruolarsi nell’esercito nazista.

Solo con la Gaudium et spes le idee cambiarono e il pensiero coraggioso e sofferto di Merton divenne punto di riferimento di molti uomini di fedi diverse, come Giorgio la Pira – che visitò nel 1964 il Gethsemani, la trappa nel Kentucki dove il monaco si ritirò nel 1941 – di Paolo VI e di Thich Nhat Hanh.

Nel famoso passo di Isaia “il lupo abiterà con l’agnello, e il leopardo con il capretto…” è forse racchiuso l’ideale per cui questo uomo di pace lottò per tutta la vita.

Cristianesimo, democrazia e pace in Jacques Maritain

Questi sono i principi che animano le associazioni dedicate a T. Merton, W. Congdon e J. Maritain, l’altro paladino della pace e uomo importante per il pensiero teologico.

 Ci fu vera amicizia fra i tre – dice Paolo Nepi[19] – illuminata aristotelicamente dal “bene” e dalla “verità”. Amicizia spirituale, che guardava “oltre”, a un Assoluto che essi hanno cercato, non nell’intimo della loro coscienza, ma fuori.

La loro lotta fu per una pace fondata sulla verità, diversamente dai trattati cosiddetti di pace che, umilianti per il vinto, immancabilmente pongono le premesse per nuovi conflitti, come lo fu il Trattato di Versailles per la Seconda guerra mondiale dopo l’avvento del Nazismo.

Vero progresso è distinguere doxa da aletheia – sostiene Maritain – perché è con la verità che le democrazie, dopo aver vinto le guerre, possono “vincere la pace[20]”.

Nel 1989, con la caduta del comunismo, la loro vittoria non vinse la pace, poiché il capitalismo selvaggio, che seguì, non garantì né giustizia né ordine mondiale, come denunciò papa Giovanni Paolo II nella sua Centesimus annus.

Solo sistemi e istituzioni democratiche, tutela dei diritti umani e del “diritto sussistente” della persona (Rosmini), possono garantire la pace e alimentarla nelle coscienze di chi, soprattutto, conserva la memoria della tragicità delle guerre.

Tuttavia, se il relativismo delle idee proprio dei sistemi liberi è garanzia contro l’affermarsi di un’unica verità e la temporaneità del potere tutela contro ogni assolutismo, occorre che la politica usi un linguaggio non ambiguo e demagogico. Un popolo indottrinato genera tragedie- dice Zagrebelsky[21] facendo l’esempio del processo a Gesù e della sua condanna.

“Governo del popolo, con il popolo, per il popolo” – dice A. Lincoln – è la democrazia e il cristianesimo ne è la fonte, a partire dalle parole “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero…” con cui san Paolo ha rivoluzionato l’Occidente.

Senza di essa il rischio è il ritorno alle sovranità, invocate per tutelarci dalla hobbesiana paura dell’altro. Ma tale protezione non ci difende dal pericolo del vicino, per cui solo l’unificazione politica del mondo potrà, per Maritain, costruire l’agognata “pace perpetua” di Kant. L’ONU ne sembrò la creatura, ma la successiva guerra fredda e la dissoluzione del comunismo fecero a pezzi questa istituzione, che ha perso potere e autorità.

Come non incorrere oggi nel giustificazionismo di una nuova guerra giusta contro Putin come si fece contro Hitler nel secolo scorso? “Costru[endo] l’Europa dall’Atlantico agli Urali” secondo l’esortazione di san Giovanni Paolo II o recuperando, come palestra di pensiero per le giovani generazioni, la sapienza della letteratura latina, che nei versi di Orazio recita “bella matribus detestata sunt”[22].

«La mia passione per la pace»

La passione per la pace di Merton e le vie da lui indicate – dice Cesare Bonvinelli[23] – sono state fonte di ispirazione per papa Francesco, perché, più delle azioni, sono le parole, quando sono armate, a diventare azioni di guerra e a trasformarsi in stragi, genocidi, olocausti. Come a Gaza, vero campo di concentramento, dove lo sterminio è provocato, non dai gas, ma dalle bombe.

Cosa fare, allora, per disarmare? La “pacatezza” e la capacità di interpretare la “complessità” sono per papa Francesco gli antidoti all’indifferenza e al paradosso di una tecnologia che, da un lato, complica la realtà, dall’altro, la banalizza lasciando il singolo smarrito di fronte agli eventi e permettendo ai fabbricanti di armi e a chi le usa di agire.

Merton aveva intuito tutto ciò e già nel 1962 nel Preambolo del suo libro La pace nell’era postcristiana lancia il suo allarme sul pericolo di una non troppo lontana guerra nucleare, i cui prodromi egli aveva individuato nei movimenti di protesta diffusisi, dal 1919 al 1938, in Europa e negli Stati Uniti e soffocati dai regimi totalitari e da quella “guerra giusta o difensiva” che ne seguì. Dopo il 1945 i movimenti di pace, da lui definiti un’”enorme finzione”, vanificarono tutti gli sforzi di opporsi alla guerra nucleare.

Per questo – dice – la protesta cristiana è oggi più urgente che mai, ma le risposte più diffuse alla bomba H sono “silenzio imbarazzato, passività abbattuta e belligeranza da crociati”. La chiesa è “esitante” e i teologi protestanti e cattolici “conciliano la guerra nucleare con la teoria della guerra giusta” e la fanno accettare come “un male minore”. Tuttavia essa non deve essere valutata in relazione ai nostri interessi o alla nostra sopravvivenza, bensì “alla luce della verità morale”, che ci induce a considerarla come “un male così grande da non poter essere giustificato neppure per fini migliori, come difendere la patria”.

Politiche che danno per scontato l’uso delle armi nucleari vanno abbandonate e le controversie internazionali risolte non con le guerre, cosa difficile in un contesto in cui i cristiani sfuggono alle “esigenze coercitive dell’etica cristiana”. Se il ricorso al nucleare è visto come l’”opzione razionale” ai fini della deterrenza e in difesa della patria, servono “rettitudine e verità morali” senza le quali “è meglio essere morti[24]”.

Il dialogo interreligioso – conclude Bonvinelli – è la pista, che si offre alla chiesa attuale, per interpretare l’intreccio di questioni religiose, politiche, sociali ed economiche. Al di fuori di questo, il discorso teologico risulta incomprensibile[25]: spezzare la parola di Dio significa parlare dell’oggi – questa è la Lectio divina- ma un cristianesimo oggi minoritario e privato della sua dimensione apostolica non abilita i credenti alla complessità e ad agire in essa con responsabilità.

«Ha senso la guerra?». William Congdon e la Seconda guerra mondiale

“Ha senso la guerra?” è la domanda che ha ispirato l’opera e la vita di William Congdon, personaggio ancora sconosciuto nel panorama culturale italiano, che la Fondazione a lui dedicata e il Presidente Giorgio Gandolfi[26] hanno divulgato attraverso una mostra[27] dal titolo: “La pace non è anch’essa un’emergenza?”[28], organizzata dal 21 giugno al 24 ottobre 2024.

Nei suoi epistolari e disegni vengono ripercorsi i fatti del terribile periodo bellico, visti attraverso lo sguardo di umana pietas di un uomo di “guerra contro la guerra”.

Costruttore di pace insieme a Thomas Merton, con il dono della sua arte ci ha consegnato il “vero della vita” – dice Gandolfi – che non è battaglia ideologica ma cammino quotidiano verso la pace. Il dono di grande umanità, scoperta e ricevuta nell’esperienza della guerra, che nella sua arte si è fatto immagine “viva” perché “sgorgata dal vero”, è testimonianza e percorso educativo insieme.

Due le traiettorie che segnarono la sua vita: la guerra e la conversione. A trent’anni, come volontario ambulanziere nell’American Field Service, egli partecipa alle campagne militari in Nord Africa, in Italia e Germania. Di quest’esperienza folgoranti sono i disegni del campo di concentramento di Berghen Belsen appena liberato, dove alle immagini di morte si alternano quelle di “redenzione”, per la vita che, nonostante tutto, ricomincia.

Solo con il gesto umano si può spegnere il sentimento dell’odio per il trauma sofferto – dice negli scritti dedicati alla ricostruzione del Molise, missione a cui egli partecipa nel 1946. “Per circa 9 mesi … il fiume Sangro, insieme al possente bastione di Cassino, segnò il sanguinoso spartiacque fra due mondi, fra due civiltà, fra due eserciti … In questo lasso di tempo, tutti i riflettori furono puntati su questo confine che passava per un “remoto mondo contadino” che mai si sarebbe sognato di trovarsi al centro dei destini del mondo … immerso nel ritmo uguale delle stagioni e del succedersi delle generazioni”.

Nel 1959 la conversione alla Chiesa cattolica è il passo verso la “pacificazione”. “Mi arrendo alla Chiesa cattolica” – dice – e per venti anni, dal 1979 al 1998, sceglie come sua dimora un monastero benedettino nella campagna milanese.


[1] Il Convegno, dal titolo “Disarmare le parole, le menti, la terra”. Papa Francesco e Thomas Merton, a 62 anni dalla “Pacem in terris” di Giovanni XXIII, si è svolto al Monastero Badia di Passignano, Centro di spiritualità San Giovanni Gualberto, dal 27 al 29 giugno 2025. Relatori: Cesare Bonvinelli, Carlo Cefaloni, Giorgio Gandolfi, Paolo Nepi, Mario Zaninelli.

[2] In questa lettera, datata 14 marzo 2025 e pubblicata sul Corriere della Sera il 18 marzo 2025, papa Francesco, ancora ricoverato al Policlinico Gemelli, risponde ad un messaggio del direttore Luciano Fontana che, oltre ad esprimergli la sua vicinanza in questo momento di malattia, gli chiede di ribadire, sulle colonne del suo quotidiano, un appello per la pace e il disarmo.

[3] Carlo Cefaloni è redattore del periodico mensile e quotidiano web “Città nuova”, che si occupa di lavoro, economia e diritti umani. Coordina il Gruppo di Lavoro Economia Disarmata promosso dal movimento dei Focolari in Italia. Premio giornalismo 2023 “Colombe per la pace”.

[4] L’opzione “Helsinki 2” si riferisce all’idea di una nuova conferenza sulla sicurezza e cooperazione ispirata all’Atto finale di Helsinki del 1975 − accordo che ha segnato un momento cruciale per il dialogo e la distensione tra Est e Ovest durante la guerra fredda − in vista delle sfide attuali e future alla luce del conflitto in Ucraina.

[5] Lettera del Santo Padre Benedetto XV ai capi dei popoli belligeranti, 1 agosto 1917.

[6] Sergio Mattarella, Discorso del 20 febbraio 2025 all’Università di Marsiglia.

[7] Igino Giordani, Memorie d’un cristiano ingenuo; Città Nuova,1994; 48.

[8] Ivi, 160.

[9] Ivi, 47.

[10] Mario Zaninelli è sacerdote della diocesi di Milano, Presidente dell’Associazione Thomas Merton Italia.

[11] Pio XII, radiomessaggio del 24 agosto 1939 rivolto ai governanti ed ai popoli nell’imminente pericolo della guerra.

[12] Paolo VI, Discorso pronunciato all’ONU- 4 Ottobre 1965

[13] Dorothy Day, giornalista e attivista statunitense, fu famosa per le sue campagne di giustizia sociale in difesa dei poveri, dei senzatetto e dei lavoratori. Si convertì al cattolicesimo nel 1927.

[14] Thomas Merton, Pace nell’era postcristiana; Qiqajon.

[15] Papa Leone XIV, Messaggio ai governanti e agli amministratori pubblici di 68 paesi; da Il Sole 24 ore, domenica 22 Giugno 2025.

[16] Card. Parolin, da Il Sole 24 ore, domenica 22 Giugno 2025.

[17] Il Catholic worker movement fu fondato da Dorothy Day nel 1933 al fine di aiutare i bisognosi e i senzatetto di New York.

[18] Franz Jägerstatter, contadino cattolico austriaco, fu beatificato nel 2007 da Benedetto XVI.

[19] Paolo Nepi, già ordinario di Filosofia morale all’Università di Roma Tre, insegna materie filosofiche all’Istituto Superiore di Scienze Religiose della Toscana «Santa Caterina da Siena», collegato alla Facoltà teologica dell’Italia centrale (Firenze).

[20] J. Maritain, Cristianesimo e democrazia; Passigli, 2007.

[21] G. Zagrebelsky, Il” Crucifige!” e la democrazia; Einaudi, Torino 1995.

[22] Le guerre sono detestate dalle madri. Orazio, Ode I, 1, 24.

[23] Cesare Bonvinelli, monaco camaldolese di Fonte Avellana, è Vicepresidente dell’Associazione T. Merton Italia.

[24] T. Merton, Preambolo, op. cit., 69ss

[25] T. Merton, Diario asiatico, Gabrielli, 2015.

[26] Carlo Gandolfi, Presidente della The William Congdom Foundation, ha curato diverse mostre dedicate all’artista e con l’Associazione Thomas Merton Italia ha organizzato presso Cascina Roma in San Donato Milanese nel 2024 la prima mostra in Italia dedicata contemporaneamente a Thomas Merton e William Congdon sul tema della pace.

[27]Sedi della mostra il Museo Archeologico Nazionale di Campobasso, il Castello Pandone di Venafro (IS), il Castello di Civitacampomarano (CB).

[28]La frase, che dà il titolo alla mostra, conclude In the death on (In morte di Uno), il primo testo letterario di W. Congdon.

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