Quando si parla di Kosovo, a qualcuno che non ci è mai stato, basta soffermarsi sul suo sguardo: un misto di perplessità, vaghi ricordi di guerra, e la convinzione che non ci sia molto da vedere e da apprezzare. Il mio ultimo viaggio, un’avventura alla scoperta di questo splendido Paese, tra Pristina, Prizren e Mitrovica, mi ha raccontato una storia diversa – fatta di bellezza sommessa, di giovani che ballano tra i vicoli della capitale, di ponti che uniscono e dividono, di speranze più forti della memoria del conflitto.
Il Kosovo è un paese che vive su un crinale sottile: quello tra il desiderio di guardare avanti, che è ben visibile in città come Pristina e Prizren, e il peso di una storia ancora troppo recente per essere digerita del tutto, una realtà che nessun luogo può raccontare meglio di Mitrovica. Mitrovica, proprio quella città dove un ponte sul fiume Ibar divide concretamente e ideologicamente due comunità, quella albanese-kosovara e quella serba.
Pristina, memoria e futuro
Sono arrivata a Pristina in autobus, da Tirana, dopo aver attraversato le montagne albanesi e kosovare ancora con le cime innevate. Il Kosovo era da tempo nella mia lista dei Paesi da visitare. Sapevo che mi sarebbe piaciuto, ma ammetto che non mi aspettavo l’impatto che avrebbe avuto su di me.
Probabilmente la mia sorpresa è derivata dal fatto che del Paese si racconta poco, e quel poco è spesso ridotto a cliché: la guerra, il passato difficile, la povertà, il conflitto con la Serbia. Non è una meta turistica ambita, raramente si trovano persone che ne parlano e, quando questo avviene, solitamente, lo si fa con toni sensazionalistici, come se la complessità di un luogo potesse ridursi al solo trauma.
Pristina, al mio arrivo, era viva e frizzante: famiglie sedute nei ristoranti del centro; ragazzini in motorino che sfrecciavano tra i caffè; bambini che giocavano nel grande parco cittadino Qytetit; il richiamo alla preghiera che s’intrecciava con i rumori della città. La cosa che più mi ha colpita è stata la gentilezza delle persone. Negli articoli e post che avevo letto prima del viaggio, mi era capitato più volte di imbattermi in persone che descrivevano gli abitanti di Pristina come molto riservati e schivi, ma l’esperienza mi ha dimostrato l’esatto opposto. Così ho capito che il Kosovo, più che un viaggio, sarebbe stato una scoperta, anche di quanto poco sappiamo di luoghi così vicini.
Pristina, spesso, non è considerata una città «bella» nel senso classico del termine. Eppure io l’ho trovata splendida; una città che ha tanto da raccontare e che vuole farsi conoscere. Basta guardare alcuni dei suoi simboli per immergersi nella storia del Paese. La Biblioteca Nazionale del Kosovo, costruita nel 1982 durante l’epoca jugoslava, un enorme edificio in stile brutalista, è il riflesso di un’identità complessa: quella di un Paese che per decenni è stato parte della Jugoslavia, ma che faticava già allora a sentirsi davvero rappresentato da essa.
Un altro monumento centrale è il Monumento Newborn, inaugurato nel 2008, nel giorno della dichiarazione d’indipendenza del Kosovo dalla Serbia. Questo monumento cambia colore ogni anno e raccoglie scritte, firme e graffiti che riflettono gli umori di un Paese ancora in costruzione.
Continuando a camminare per la città, ci si imbatte in un altro simbolo: la statua di Bill Clinton, nell’omonimo boulevard. La statua è un omaggio al ruolo degli USA e della NATO nella guerra del Kosovo del 1998-1999, quando le forze serbe, sotto il regime di Slobodan Milošević, tentarono di reprimere violentemente il movimento indipendentista kosovaro guidato dall’UÇK (Esercito di Liberazione del Kosovo). Al contempo, la statua testimonia quanto la politica estera americana sia ancora percepita come parte importante della storia recente kosovara.
All’inizio della mia avventura ero pronta a «vedere la guerra» in ogni angolo, ma una volta lì ho capito che non sarebbe stato così. La capitale, più di ogni altra città, sembra voler guardare avanti… senza, però, mai dimenticare.
Prizren, il volto giovane
Mentre Pristina cerca di lasciarsi alle spalle la memoria del conflitto e costruirsi una nuova identità europea, Prizren, città nel Sud del Paese ai confini con l’Albania, si è trasformata in un simbolo positivo, dinamico, capace di attrarre giovani, turisti e artisti. È, sorprendentemente per molti, la città più visitata del Kosovo, più della capitale.
Questo è sicuramente merito di una serie di fattori: del suo patrimonio storico e culturale ben conservato, con un centro ottomano sorprendente e un bazar caratteristico; dell’atmosfera conviviale; delle iniziative culturali che animano la città. Prizren è la prova che la bellezza, se custodita e condivisa, può diventare motore di riscatto, anche per un Paese che è stato messo in ginocchio e in parte dimenticato.
Camminare per le vie del centro, all’ombra della moschea Sinan Pasha, significa vedere con i propri occhi un Paese che, nonostante tutto, ha scelto di raccontarsi con estremo orgoglio.
Mitrovica, il confine
Se Prizren mostra il volto più sereno del Kosovo e Pristina la volontà di riscatto, basta risalire verso Nord, ai confini con la Serbia, per ritrovarsi in un luogo dove le tensioni del passato sono tutt’altro che sopite: nella città di Mitrovica.
Mitrovica non è solo una città: è un confine. Non geografico ma, identitario, politico ed emotivo. La città trasuda un’energia completamente diversa rispetto alle precedenti: più tesa, più silenziosa e più guardinga. Nonostante ciò, è una città che non si nasconde, anzi, espone le sue fratture a cielo aperto.
Appena arrivata a Mitrovica, a bordo di una marshrutka dai sedili di velluto nero e le tendine bordeaux, mi sono ritrovata di fronte alla moschea di Xhamia Zallit, un chiaro segno del fatto che mi trovavo nella zona Sud della città.
Il fiume Ibar, infatti, taglia in due la città: a Sud, la maggioranza della popolazione è albanese-kosovara e di religione musulmana; a Nord, la popolazione è serba e di religione, prevalentemente, ortodossa. Per visitare la zona Nord, dominata dalla Cattedrale ortodossa di San Demetrio e dallo Spomenik (monumento) del Santuario della Rivoluzione, e immergersi nel conflitto, è necessario attraversare il ponte, presidiato dalla KFOR (Una Forza Militare Internazionale guidata dalla NATO), simbolo concreto di un confine interno.
Nella parte Sud si trovano le bandiere del Kosovo e dell’Albania, murales che celebrano l’indipendenza del Paese e statue ritraenti i soldati dell’UÇK. A Nord, invece, ci si imbatte in graffiti con l’effigie di Slobodan Milošević, in tricolori serbi e in scritte che negano l’esistenza stessa del Kosovo come Stato.
Mitrovica è molto più di una città contesa: è una lente attraverso cui osservare il fallimento (o la sospensione) del dialogo post-bellico internazionale. Eppure, al di sotto delle tensioni visibili, ci sono vite quotidiane di persone qualunque che cercano normalità e stabilità: studenti che attraversano la linea del fiume per recarsi a scuola o a fare shopping, famiglie che passano da un lato all’altro durante la passeggiata domenicale e associazioni che tentano piccoli gesti di riconciliazione.
Raccontare Mitrovica oggi significa confrontarsi con l’idea stessa di frontiera: geografica, culturale, identitaria. All’inizio di questo reportage ho detto che non sono d’accordo con il racconto sensazionalistico di un Kosovo ancora legato a doppio filo al passato e alla guerra. Ma Mitrovica è uno dei pochi luoghi in Kosovo, e in Europa, dove la guerra sembra non essere mai davvero finita – ma dove, allo stesso tempo, come in tutto il resto del Paese, ogni giorno qualcuno prova comunque a ricominciare.