Carcere, letteratura, teologia

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Presentiamo qui, nella versione italiana, la breve relazione tenuta presso il workshop del 15-16 marzo su Letteratura e religione fuori luogo[1], in cui si racconta un’esperienza collegata al centro ricerche Insight presso la scuola superiore del carcere di Bologna[2]. Il testo risente di un linguaggio pensato per la comunicazione orale.

In questa riflessione racconterò un’esperienza di lettura di classici antichi e moderni all’interno del carcere. Si tratta di una pratica di lettura – e riflessione – condivisa che cerca anche di collegare questioni esistenziali e rappresentazioni di fede. È una pratica che ha una serie di premesse che qui non posso affrontare, posso solo suggerire alcuni termini chiave tra cui «parola», «interiorità», «frontiera». Per comprenderli rimando ad alcune citazioni di Lorenzo Milani, Madeleine Delbrêl, Jorge Bergoglio che lascio alla vostra attenzione:

«Signore ognuno di noi è a una delle tue frontiere […] noi avevamo pensato che tutti i paesi fossero segnati sulle carte geografiche e che le linee nere che indicano le ferrovie e i battelli fossero sufficienti per andare dagli uni agli altri. Vivendo in mezzo agli uomini, noi abbiamo imparato il contrario. Se ci sono carte geografiche in estensione, ce ne vorrebbero in spessore» (M. Delbrêl, Missionari senza battello – in occasione della partenza di missionari dal porto di Le Havre 1943).

«Un’opera perde il suo vigore apostolico quando è incapace di volgersi apostolicamente verso la frontiera e di conseguenza quando non sa raccogliere in sé le problematiche e le persone che fanno parte di questa frontiera».  (Jorge Bergoglio 1986)

«Dal punto di vista proprio di parroco, ho l’incarico di predicare il Vangelo. Predicare in greco non si può perché non intendono. Sicché bisogna predicarlo in italiano. Resta da dimostrare che i miei parrocchiani intendano l’italiano. Questa è quella cosa che io nego. Quantunque i miei parrocchiani siano toscani, quantunque usino espressioni dantesche ogni poco, non sono capaci di un discorso lungo, di un discorso complesso, di una lingua che non sia quella che serve per vendere i polli al mercato di Vicchio il giovedì […]

Una lingua così povera non è assolutamente sufficiente per ricevere la predicazione evangelica […] Ecco perché io ho iniziato il mio contatto con la grammatica italiana nella scuola e alla fine è successo, mi è successa la disgrazia di innamorarmi di loro personalmente e quindi poi ora mi sta a cuore tutto quello che sta a cuore a loro. Ecco perché questa scuola poi è diventata una scuola diciamo così laica, severamente laica, nel senso che, partito con l’idea di fare della scuola il mezzo di intendersi e di predicare, poi in questa scuola gli ho voluto bene ed ora mi sta a cuore tutto di loro, quindi perfino l’aritmetica che a me non piace, tutto quello che per loro è bene» (Don Lorenzo Milani 1962)

Presento sette tappe o momenti della nostra esperienza.

Il punto di partenza

Chi partecipa alla lettura condivisa? Persone dentro il carcere (persone detenute di tutte le sezioni: media sicurezza, alta sicurezza – cioè associazione di natura mafiosa -, protetti e sezione femminile) e persone fuori dal carcere (una dozzina di ricercatori e volontari in età universitaria o post-universitaria, in prevalenza giovani con anche alcune presenze più adulte).

Dove e quando? Nelle classi e nelle ore della scuola superiore all’interno del carcere di Bologna, da dicembre a maggio. Questo avviene da alcuni anni.

Cosa facciamo? Leggiamo testi classici antichi e contemporanei: Antigone, Iliade, Odissea, alcune fiabe di Sepulveda, il libro biblico di Giona, il racconto biblico e coranico di Giuseppe, Ritorno a Haifa del palestinese Ghassan Kanafani, la storia di una sopravvissuta alla strage nazifascista di Monte Sole: Vivere nonostante tutto di Cornelia Paselli per le edizioni Zikkaron[3]. Testi che interroghiamo con domande di comprensione e poi con domane esistenziali e sociali, talora religiose, usando in maniera libera alcune modalità della philosophy for children.

È una lettura che ha due caratteristiche principali: la libertà e una certa pluralità. La comunità di ricerca ha infatti un piano di lavoro, ma molto spesso si segue la lettura e le domande che emergono. Cioè noi leggiamo il testo, ma il testo oggetto di dialogo ci conduce spesso per strade e riflessioni impensate. Una comunità di ricerca in cui vi è chi è libero e chi no, chi è giovane e chi è già parecchio avanti nella vita, chi ha studiato e chi no, chi ha un’esperienza della vita molto estrema[4] e chi un’esperienza meno ai limiti, chi è italiano (del nord o del sud) e chi è straniero, con una pluralità di convinzioni religiose differenti (tra cui molti cristiani e molti musulmani)

Cercare di capire cosa succede

L’operazione di fondo consiste nella lettura dei testi che viene svolta a turno, da tutti (spesso le persone si vergognano perché non sanno leggere bene), a voce alta, con molte interruzioni per le domande o per le spiegazioni necessarie. C’è bisogno di pazienza per riflettere insieme, per capire le parole, per capire le differenze di sensibilità (sono molto diverse le letture tra uomini e donne). Uno sforzo per comprendere: cosa succede, i personaggi, le identificazioni, i sentimenti in gioco, le ambiguità dei personaggi e della realtà.

Un esempio di identificazione, avvenuta nelle letture delle ultime settimane, riguarda la vita di Cornelia Paselli. I racconti della sua vita semplice e povera sui monti prima della guerra hanno fatto risuonare molte corde degli uomini detenuti in alta sicurezza della Calabria che hanno iniziato a raccontare la vita sui monti dei loro nonni. Nella sezione femminile i racconti di una giovinezza povera ma spensierata hanno evocato nelle donne detenute i ricordi di una vita “innocente” in cui non erano ancora avvenute delle catastrofi.

Questo lavoro richiede tempo, silenzio e concentrazione, cercando piccoli indizi[5] e segnali per cogliere meglio cosa succede nel racconto ed in noi. Intendiamo questa parte della nostra ricerca come una sorta di educazione all’ascolto e come una propedeutica alla lettura della realtà nei suoi vari aspetti e livelli. Un estratto dal diario di Etty Hillesum rende bene tale lavorio di ascolto interiore:

«Lo spirito non dovrebbe forse continuare a lavorare e a essere creativo anche quando il corpo è malato? E amare e hineinhorchen [ascoltare dentro] se stessi, gli altri, il contesto di questa vita, e te. Hineinhorchen, vorrei trovare una buona traduzione olandese di questa parola. In fondo la mia vita è un ininterrotto ascoltar dentro me stessa, gli altri, Dio […]. La parte più essenziale e profonda di me che ascolta la parte più essenziale e profonda dell’altro» (E. Hillesum, 17 settembre 1942).

Cercare le parole

Ricordo qui la poesia di un amico[6] che ha come ritornello: “io cerco le parole”. È una descrizione precisa del nostro cercare le parole per dire le cose, le emozioni e i sentimenti. Si tratta di “dare la parola”[7] per aiutarci a descrivere il racconto ma – attraverso le identificazioni dei lettori con i vari personaggi – anche a esprimere noi stessi e la nostra situazione. La prima impressione entrando in carcere è spesso quella di un luogo in cui le persone non parlano, ma urlano: vi è sempre un gran rumore. Il nostro compito è, quindi, riuscire a leggere un racconto come aiuto per un lavoro di descrizione di sé più pacata, meno confusa e straziata.

Sono moltissimi gli esempi di tali identificazioni: il viaggio di Ulisse nell’Odissea è stato interpretato come il proprio viaggio negli ingranaggi della giustizia e del carcere, come un’esperienza di lunghe distanze e assenze da chi si ama con la paura – crescente man mano passa il tempo – di rivedersi; al femminile i tradimenti di Ulisse sono stati visti come l’esperienza di molte detenute della grande inaffidabilità degli uomini.

Nel libro di Ghassan Kanafani, Ritorno ad Haifa, in cui si racconta lo scambio di un figlio neonato tra una famiglia di ebrei e palestinesi nei giorni drammatici della guerra del ’48, è emerso potentemente il tema del rapporto con i genitori, con i figli, la domanda su cosa significa essere madre e padre: «chi sarò io per i miei figli quando tornerò dopo 5, 10, 20, 30 anni?»

Questa parte del lavoro è complessa: vengono fuori parole ciniche, stanche (Qo 1,8) ma talvolta parole nuove o tentativi di interpretare la propria vita con la domanda: qual è il racconto “giusto” della propria vita? Qualcosa di simile alla interrogazione rivolta a Giovanni il Battista nel vangelo di Giovanni: «Chi sei? Che cosa dici di te stesso?» (Gv 1,22).

Questa ricerca delle parole diviene così una lotta tra parole che aprono un possibile orizzonte per il racconto di sé e parole-tomba che chiudono l’orizzonte e si traducono spesso in espressioni come: «io sono un delinquente, questo è il mio destino, non c’è nulla da fare». Come affermato ancora da Etty Hillesum: «C’è differenza fra temprato e indurito. Spesso non se ne tiene conto, oggi. […] Temprato distinguerlo da indurito” (E. Hillesum, 28 luglio 1942 otto e mezza di sera).

La parola e il silenzio (Dossetti[8] e Steiner)

Ancora la Hillesum: «In me c’è un silenzio sempre più profondo. Lo lambiscono tante parole, che stancano perché non riescono ad esprimere nulla. Bisogna sempre più risparmiare le parole inutili per poter trovare quelle poche che si sono necessarie» (E. Hillesum 25 luglio 1942).

Il nostro lavoro cerca le parole, ma ha bisogno di silenzio. La lettura, il tempo di rispondere alle domande, i piccoli momenti di riflessione creano uno spazio tranquillo in cui pensare, parlare e ascoltare. In alcuni momenti si vede tutto il gruppo della classe in silenzio, concentrato nella lettura e nel voler capire: sono momenti importanti.

Una lettera della scorsa estate – studente molto attento di una sezione di alta sicurezza – diceva così: «è stato un piacere avervi conosciuto ma soprattutto condividere le nostre emozioni dopo la lettura dei testi, e credetemi, in certi contesti, la mente torna ad essere libera per qualche ora, e per tutti noi fa tanto». Recentemente una persona sempre dell’alta sicurezza ha detto al gruppo dei ricercatori: «questi momenti insieme ci fanno sentire liberi, fuori, senza mura».

Si crea così un’esperienza di silenzio che è collettiva e personale. E che ricorda da vicino il tema biblico dell’ascolto di cui tratta la 1 Re 3,19: “Dammi un cuore che ascolta” o il vangelo in Lc 2,19: “Maria da parte sua, custodiva tutte queste cose, conservandole nel suo cuore”. È il tema delicato della coltivazione e custodia dell’interiorità in carcere. Si pensi, da un lato, all’espropriazione del sé di cui parla Erwin Goffman quando, in Asylums, tratta delle istituzioni totali e, dall’altro lato, dei modi con cui i detenuti resistono a tale profanazione del sé dedicando molto tempo a lettere, poesie, diari, disegni.

Tentativi di risposta alla fine del mondo

Un altro passaggio del nostro percorso è quello che riguarda i traumi e il male. È un tema onnipresente all’interno del carcere: l’intreccio di colpe e traumi subiti o causati. Il tema è stato recentemente scandagliato in un interessante romanzo di Silvia Avallone, Cuore nero per Rizzoli che tratta di come è possibile vivere dopo un male irreparabile causato ad altri e/o dopo un male irreparabile subito come vittime.

Nelle nostre letture insieme emergono costantemente i traumi e le ferite dei rapporti familiari, dei rapporti sociali, con le conseguenti alienazioni, distorsioni e intermittenze interiori. Probabilmente siamo vicini a quel cuore spezzato, in frantumi secondo l’originale ebraico, di cui parla il Salmo 147, 3 “Risana i cuori affranti [spezzati] e fascia le loro ferite”. Spesso la descrizione del rapporto con i figli e la moglie, oppure con l’intera società, viene descritto come qualcosa di rotto, irrimediabilmente spezzato.

In quest’ambito, durante le nostre discussioni, emerge sullo sfondo la riflessione dell’antropologo Ernesto de Martino – in La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali – che trattando del senso della fine del mondo parla di questa come un’esperienza che facciamo quando il nostro mondo personale viene giù. Quando, per parafrasare il vangelo di Matteo (Mt 24), il sole si oscura e le stelle cadono dal cielo, quando cioè le luci del nostro mondo si oscurano e i punti di riferimento crollano.

Molto spesso, nei nostri incontri, si evoca tale esperienza di “fine del mondo” come i primi giorni in carcere dopo l’arresto oppure quando – cito un esempio di un giovane ragazzo – si racconta del momento in cui si è ascoltata la lettura in tribunale della sentenza in cui è stato comminato l’ergastolo sentendosi descrivere come un criminale pericoloso per sé e per altri.

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Interruzioni

Un momento significativo è quando la lettura provoca una discussione che porta più lontano del previsto, a fare riflessioni potenzialmente capaci di porre seriamente in discussione le persone del gruppo di lettura. Recentemente è avvenuto questo fenomeno di interruzione, leggendo un brano tratto dal libro di Cornelia Paselli in cui si descrive un momento della strage di Monte Sole avvenuta nel settembre del ’44:

«Non lontano dalla mamma, contro il muretto, un soldato tedesco aveva trascinato nostra cugina, Elide Ruggeri. Aveva la mia stessa età ed era ferita a un fianco. Questo soldato, una volta cessati gli spari della mitragliatrice e i lanci delle granate, aveva il compito di finire con la pistola i sopravvissuti. Quando si accorse che Elide era ferita, ma ancora viva sotto ai corpi dei suoi familiari, le si fece vicino. Aveva appena sparato a un bambino morente ed Elide, credendo di essere perduta, scoppiò in lacrime.

«No, no – fece il soldato – Non temere, tu no caput. Ma guarda che strano: assomigli alla mia fidanzata in Germania». Le domandò dove abitasse e, prima di andarsene, le infilò un biglietto in una tasca su cui era scritto il suo nome e dove avrebbe potuto trovarlo. La lasciò così, ferita sotto alla pioggia battente, a un passo dai cadaveri dei familiari che lui e i suoi le avevano appena ucciso. Prima dell’alba di sabato, dopo una di pioggia, lo zio di Elide, Attilio Ruggeri, venne in cerca dei sopravvissuti. Si caricò sulle spalle sua nipote e la trasportò a Ca’ Pudella, dove abitavano. Poi tornò a prendere nostra madre e gli altri pochi sopravvissuti. In seguito, Elide ci raccontò che il soldato che non le aveva sparato si era recato a Ca’ Pudella per prendere sue notizie. Aveva portato persino delle medicine. Nessuno di noi è mai riuscito a spiegarsi quella storia»[9].

«Nessuno di noi è mai riuscito a spiegarsi quella storia» afferma Cornelia nelle sue memorie: il comportamento del soldato ha molto interrogato le persone in alta sicurezza – di cui alcuni accusati di reati gravi – e ha portato tutti a formulare varie ipotesi per cercare di spiegare cosa è avvenuto e perché il soldato che fino a quel momento aveva ucciso come una macchina donne e bambini, vede una giovane che assomiglia alla sua fidanzata e la risparmia. Ad un certo punto vi è chi ha ipotizzato che può succedere nella vita che l’umanità di una persona – cioè i suoi sentimenti, emozioni, capacità di vedere gli altri – si accenda o si spenga con una specie di click. Giunti a quel punto il racconto aveva funzionato come una parabola evangelica che svela in ritardo il suo significato per l’uditore che l’ascolta e che si trova così coinvolto e messo in questione.

La possibilità del ripensamento e il senso del futuro

In tale itinerario di lettura pare di poter intravedere anche le tracce della possibilità – che richiede tempi lunghi e percorsi carsici – di un ripensamento. «Bisogna essere sempre disposti a rivedere la propria vita, a ricominciare tutto da capo in un luogo diverso» (E. Hillesum 27 luglio 1942). Si tratta di un processo che attraversa molti momenti con, spesso, il passaggio da un’idea – religiosa o mitica – di destino a un’idea di responsabilità personale, o meglio di possibilità personale. In questo transito osserviamo che cambiano i modi di raccontarsi e intravediamo l’azione di una “grazia” nei termini di Mariline Robinson[10]. In tale quadro la prospettiva evangelica rimane un seme possibile e delicato che “per grazia” può fecondare le relazioni, creare campi di rapporti liberi e gratuiti, avviare processi di liberazione, costituire un “orizzonte espanso” per la propria e altrui esistenza.

Questo può essere descritto anche in termini teologici in vari modi: grazia tematica o atematica (Rahner), un contatto con ciò che tocca ultimamente (Tillich), un incontro con Gesù il traghettatore (Theobald), l’azione di una luce gentile (Newman). A prescindere dal tipo di descrizione ci sembra che talora si intravedano gli effetti di tale “grazia” in un cambiamento di visione del futuro e del passato:

L’anno scorso, in un dialogo su l’Antigone in cui compare l’indovino cieco, a volte uomo a volte donna, Tiresia che conosce il futuro, in classe è stata posta la domanda se si vorrebbe conoscere il futuro; uno studente – accusato di omicidio – ha affermato, sorprendendo un po’ tutti, che più che conoscere il futuro si vorrebbe cambiare il passato.

Emergono in questi racconti varie possibili visioni di futuro nel suo radicamento nel passato e nel presente. Qui spesso aiuta una distinzione sul senso del futuro trovata in Arjun Appadurai nel suo lavoro con i poveri degli slum di Mumbai[11]: c’è un modo ci concepire il futuro che è quello della previsione, del calcolo in base alle premesse attuali (e se così fosse per molti le speranze si restringono potentemente), e vi è un modo di sentire e concepire il futuro che è quello della possibilità, di futuri possibili (che apre modi inediti e piccole vie di speranza) nel senso del profeta Geremia: “Io, infatti, conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – dice il Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza” (Ger 29,11).

Un orizzonte di fondo

Un’ultima riflessione va svolta sul presupposto teologico del nostro lavoro di lettura che si svolge in un contesto pubblico, laico e interreligioso. La convinzione di fondo è che vi sia una presenza nascosta del regno di Dio nella vita delle persone[12] e che la ricerca collettiva su alcuni testi possa permettere a ciascuno di raggiungere quel centro di sé, quella frescura al centro del petto, che forse non è lontano dal cuore inteso in senso biblico.

Questa connessione tra sé, la propria vita e il regno di Dio nascosto è espressa sinteticamente in un appunto del giovane Bergoglio che commenta un testo – il racconto di un sogno – del teologo Romano Guardini: «[…] questa notte mentre albeggiava, quando di solito arrivano i sogni, cominciai a farne uno. Cosa successe nel sogno non lo so più, però qualcosa fu detto, e non so se fu detto a me o su di me. E fu detto che quando l’uomo nasce gli viene donata una parola e ciò ha un significato molto importante: non è solamente una capacità o un’attitudine, ma è una parola.

Questa parola è detta dentro sé stesso (Wesen), però è una parola d’ordine (Passwort) per tutto ciò che accade. È sia forza che debolezza. È un incarico e un dono. È una sicurezza (protezione) e un rischio. Tutto ciò che accade mentre gli anni scorrono è la traduzione di questa parola, è il suo chiarimento, è la sua realizzazione. E tutto questo avviene perché colui a cui fu detta questa parola (a ogni uomo viene detta una parola) la comprenda e viva rispettandola. E forse questa parola sarà la base (il supporto) di quella che il Giudice un giorno gli dirà».

Bergoglio nei suoi appunti di lavoro commenta così: «qui troviamo un riferimento a una nostalgia suscitata dalla prima Parola che fu detta (e ciò significa che fu annunciata). Quindi abbiamo un kerygma esistenziale previo al kerygma evangelico e sul quale si radica il kerygma evangelico. Com’è questo kerygma esistenziale? Questa parola-kerygma esistenziale è donata all’uomo. La sua vita è un’avventura fatta di incontri, perdite e re- incontri con la vita stessa.

I momenti in cui si realizza una sorta di “consonanza” interiore riguardano l’incontro, quelli che si riferiscono alla “dissonanza” sono la ricerca e il non-incontro. Anche qui abbiamo una base per la consolazione teologale (esempio di consonanza) e la desolazione (dissonanza). La parola centrale è: nostalgia. Questa parola, quindi, ha una storia: è storica […]. Il mito che meglio rappresenta sia il rincontro che il ritorno è quello di Ulisse: il nostos-algos [il dolore per ritorno a casa] in quel contesto è chiaro. Tutto il suo viaggio è non accettare le “parole” che non sono la parola»[13].

C’è in questo testo un dialogo profondo tra i fondamenti della vita ed il vangelo – tra le biografie e l’azione nascosta del regno di Dio – che costituisce l’orizzonte che sta sullo sfondo del nostro lavoro di lettura che rimane profondamente rispettoso delle convinzioni personali, religiose ed esistenziali. Lettura che incoraggia a dialogare con gli altri e con sé stessi nella ricerca di tracce di autenticità e verità, di umanità e cambiamento. Giunti a questo punto bisognerebbe riflettere sistematicamente – ma lo faremo in una prossima volta – su come la letteratura in carcere possa divenire un laboratorio estremamente interessante di teologia – intesa in senso interreligioso ed ecumenico e collocata all’interno di uno spazio democratico e pluralista -, ossia un possibile e diverso modo di fare teologia pubblica.


[1] https://www.settimananews.it/societa/letteratura-religione-luogo/
[2] Per questo tipo di lavoro ringraziamo per il sostegno il fondo di solidarietà Faac e Almalaurea srl.
[3] https://www.zikkaron.com/prodotto/vivere-nonostante-tutto/
[4] Cf. F. Dostoevskij, Memoria da una casa di morti, Feltrinelli, 2023.
[5] M. Lavagetto, Lavorare con piccoli indizi, Bollati Boringhieri, 2003. Ringrazio per la segnalazione Simone Carati.
[6] “I piccioni atterrati frugano / tra le foglie di gennaio / il pettirosso sgomento / invoca la neve persa / il picchio e la ghiandaia / scrutano alberi da depredare / la donna ricciuta sulla panchina / cerca un senso / al romanzo che legge / l’anziano chiama / il cane fuggito / Io cerco le parole / per narrare lo scempio / dei volti e dei nomi / dei gesti e dei desideri / degli abbozzi e dei sogni / come in cielo così in terra / Io cerco le parole / Per sottrarle / alla luce corrosiva / e avvolgerle / nel panno del silenzio / e adagiarle / nella teca della lentezza / e la teca nell’antro del tempo / dove la polla d’argento / l’acqua fossile / della terra sorgente” (M. Mattarelli, Almeno la notte, Bologna 2016).
[7] Cf. M. De Certeau, Lo straniero o l’unione nella differenza, Vita e Pensiero, 2010.
[8] Cf. G. Dossetti, La parola e il silenzio, Paoline, 2005 e G. Steiner, Linguaggio e silenzio. Saggi sul linguaggio, la letteratura e l’inumano, Garzanti, 2001.
[9] C. Paselli, Vivere nonostante tutto, a cura di A. Rocchi, Zikkaron, 2021, 66-67.
[10] Si pensi al tema della grazia nella trilogia di Marilynne Robinson: Gilead, Lila, Casa in italiano per Einaudi.
[11] Cf. A. Appadurai, Il futuro come fatto culturale. Saggio sulla condizione globale, Raffaello Cortina 2014. Sul tema si veda anche il dossier di Credere oggi 6/2023 e https://www.settimananews.it/cultura/il-futuro-e-i-sonnambuli/
[12] Lc 17,21.
[13] D. Fares, Prefazione a R. Guardini, L’opposizione polare, Corriere della Sera – La civiltà cattolica, 2014, VIII-IX.

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