La cattiva salute della sanità (pubblica)

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I principi di eguaglianza, solidarietà e dignità della persona sono alla base del diritto costituzionale alla salute – unico fra i diritti definito «fondamentale» dalla Carta –, quindi dell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) italiano. Già questo non godeva di buona salute prima di essere messo a durissima prova dalla pandemia: minaccia di goderne ancor meno in futuro. Vediamone le principali ragioni, a mio parere.

Il personale … dimenticato

Per quanto riguarda i progetti e le risorse, la novità più rilevante è senz’altro costituita dal PNRR con cui il precedente governo ha tracciato, almeno sulla carta, una nuova articolazione della sanità territoriale – quella posta in evidente difficoltà dalla pandemia – e messo quindi a disposizione i denari per attivarla entro il 2026, con 1.400 Case di Comunità, 400 Ospedali di Comunità, 600 Centrali operative territoriali per la continuità assistenziale.

Il problema è che tali risorse forse bastano solo all’allestimento delle strutture, non certo ai costi per il personale da impiegare: parliamo di circa 12.000 medici e 70.000 infermieri. Questo va inserito nella pesantissima situazione dei conti pubblici italiani, come testimoniato dal dibattito in corso per l’approvazione della Legge Finanziaria 2023-26.

Di assoluta rilevanza è il fatto che, da quindici anni, il bilancio dello Stato tuttora preveda – per il personale globale del SSN – una spesa comunque non superiore a quella erogata nel 2004. Tale dispositivo ha impedito, in tutto questo tempo, la sostituzione dei medici, degli infermieri, degli amministrativi e dei tecnici sanitari pensionati, e ha portato alla chiusura di molte strutture: è stato calcolato che nel decennio 2010-2020 siano stati chiusi 111 Ospedali e 113 Pronto Soccorso, con il taglio di 37.000 posti letto (dati CIMO-Fesmed).

Abbandoni

Non basta. Lo stress da aumento dei carichi di lavoro – si pensi in particolare agli operatori che lavorano nei Pronto Soccorso – e le basse retribuzioni hanno provocato, tra 2019 e 2021, la dimissione volontaria di circa 8.000 medici dagli ospedali pubblici (dati ANAAO-Assomed): una vera e propria fuga verso la sanità privata o verso la possibilità di «prestazioni a gettone» per la stessa sanità pubblica, con cui, in un solo turno di lavoro, in emergenza, si possono guadagnare sino a 1.000 euro al netto.

Sostanzialmente per le stesse ragioni, ossia pesanti carichi di lavoro e bassa retribuzione, è accaduto che molti medici di famiglia – che non hanno un contratto di lavoro da dipendenti pubblici, bensì da liberi professionisti convenzionati – abbiano abbandonato: dal 2016 al 2021: il loro numero si è ridotto di 4.000 unità.

A ciò si aggiunga il freno del sistema formativo delle Facoltà di Medicina e Chirurgia che preparano medici, infermieri professionali, tecnici della riabilitazione, educatori professionali, che ha continuato ad adottare numeri chiusi di accesso ai corsi di laurea e di specializzazione post-laurea.

Un quadro di crisi profonda

Sto consapevolmente descrivendo, quindi, una situazione di grandissima fragilità del nostro SSN, tale da metterne in discussione oggi la sussistenza e quindi tale da obbligare a una rivisitazione radicale dell’impianto: dalla verifica dell’universalità degli accessi, alla globalità delle prestazioni di prevenzione, cura, riabilitazione, passando per l’integrazione fra sanità e sociale nelle dimensioni locali, in cui i Comuni dovrebbero poter svolgere un ruolo centrale.

Ravviso, quindi, una necessità più che urgente di reperire nuove risorse per il funzionamento del SSN; risorse evidentemente fornite da tasse responsabilmente pagate dai cittadini contribuenti: finalità di non poco conto, considerati gli orientamenti del Governo Meloni da poco in carica.

A fronte di tali complessità, si sta definendo un profilo politico-istituzionale-costituzionale in cui appare, sempre più, la disarticolazione del SSN in 21 Servizi Sanitari Regionali (SSR) autonomi, per non dire indipendenti, liberi di fare ciascuno come gli pare «in casa propria», senza vincoli di programmazione e di coordinamento nazionale.

Sono le Regioni economicamente più ricche, in primo luogo, a volerlo. Faccio qui riferimento alla «proposta Calderoli», che prevede l’accesso ai servizi per la salute in proporzione al reddito prodotto in ogni Regione: l’esito finale sarebbe un diritto di salute e di cura differenziato su base locale regionale, con chiaro vulnus costituzionale.

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