Nel contesto attuale di rapida evoluzione tecnologica, il rapporto tra spiritualità e tecnologia digitale solleva domande profonde e complesse. L’intelligenza artificiale e le piattaforme digitali stanno progressivamente trasformando la nostra esperienza del sacro e del trascendente, introducendo nuove modalità di espressione e pratica spirituale. Quali le motivazioni che ci spingono a integrare queste tecnologie nella nostra vita spirituale?
Da questa domanda nasce una riflessione su ciò che definisco i «due volti» della spiritualità digitale, ciascuno con implicazioni etiche ed esistenziali uniche.
Spiritualità digitale
Quando ci riferiamo alla spiritualità digitale intendiamo, in prima battuta, l’uso delle tecnologie digitali per supportare, espandere o trasformare esperienze e pratiche spirituali. Questo fenomeno include attività che vanno dalla meditazione guidata tramite applicazioni (app), ai rituali religiosi in spazi virtuali, fino alla creazione di comunità spirituali online.
La spiritualità digitale, tuttavia, non si limita all’adozione di strumenti tecnologici per finalità pratiche, ma implica una ridefinizione profonda del modo in cui comprendiamo e viviamo il trascendente. Si tratta di un’interazione tra l’innovazione tecnologica e le dimensioni più intime della fede e della ricerca di significato. In questo contesto, la tecnologia non è solo uno strumento, ma diventa un mediatore e, in alcuni casi, un «co-creatore» dell’esperienza spirituale.
Tradizionalmente, la spiritualità è stata radicata in contesti fisici e comunitari: il tempio, la chiesa, la natura, il gruppo di meditazione. Con la digitalizzazione, questi spazi si espandono, aprendo nuove possibilità per l’interazione con il divino e con gli altri. La spiritualità digitale ridefinisce il trascendente attraverso tre dimensioni:
- Smaterializzazione dello spazio sacro: I luoghi fisici sono affiancati (o talvolta sostituiti) da spazi virtuali che permettono un accesso al sacro indipendentemente dalla geografia. Un’app di meditazione, una comunità online o una messa in streaming diventano spazi legittimi di esperienza spirituale.
- Temporalità fluida: La tecnologia consente di vivere la spiritualità in un tempo personalizzato, dove il rituale o la preghiera possono essere praticati on demand. Questo mutamento sfida il concetto tradizionale di liturgia come evento collettivo e sincronizzato.
- Interattività e personalizzazione: attraverso algoritmi di intelligenza artificiale e design personalizzato, la spiritualità digitale si adatta alle esigenze del singolo, offrendo percorsi spirituali sempre più individualizzati. Questo aspetto, pur arricchente, solleva interrogativi sulla frammentazione della comunità e sull’autenticità di un’esperienza che rischia di diventare eccessivamente «a misura di utente».
Ripensare il trascendente nell’era digitale
La spiritualità digitale può essere intesa come:
- strumento di supporto: tecnologie che facilitano pratiche già esistenti, come meditazione, preghiera e studio dei testi sacri.
- ambiente di interazione: luoghi virtuali in cui avvengono incontri spirituali, come le chiese online o i gruppi di meditazione su piattaforme digitali.
- innovazione esistenziale: esperienze che trasformano il modo in cui ci rapportiamo al sacro, come l’uso di intelligenza artificiale e realtà virtuale per esplorare concetti come l’aldilà o la presenza del divino.
Questa ridefinizione ci invita a riflettere: il trascendente, in un mondo digitale, mantiene la sua natura «altra» e irraggiungibile, o viene plasmato e reso accessibile da un processo di codifica tecnologica? Alcuni studiosi osservano che, in questo nuovo contesto, il sacro non scompare, ma si riconfigura attraverso il linguaggio dei dati, delle reti e delle immagini digitali.
Ad esempio, una meditazione guidata da un’app non è solo un’imitazione della tradizione contemplativa, ma una nuova forma di esperienza spirituale, mediata dalla tecnologia. Le preghiere registrate e le letture di testi sacri, accessibili attraverso la realtà virtuale, creano un ambiente che non solo accompagna, ma in alcuni casi amplifica l’esperienza del divino. Il sacro non viene sostituito, ma ricreato attraverso nuove forme di mediazione.
Il primo volto: fuga dalla condizione umana
La visione del primo volto si riflette in correnti filosofiche come il transumanesimo, che promuove l’uso della tecnologia per superare i limiti biologici e cognitivi umani. Il transumanesimo, sostenuto da studiosi e pensatori come Ray Kurzweil, Nick Bostrom e Max More, vede la tecnologia come un’opportunità per trascendere le vulnerabilità della condizione umana, persino per raggiungere una forma di «immortalità digitale».
Questo tipo di spiritualità digitale presenta una serie di implicazioni etiche e ontologiche. Da un lato, potrebbe sembrare affascinante l’idea di “preservare” la nostra essenza attraverso avatar o archivi digitali, creando copie virtuali di noi stessi che possano continuare a «vivere» dopo la nostra morte. Tuttavia, la creazione di entità digitali che emulano la personalità e i ricordi di una persona solleva domande cruciali. Quanto sono autentici questi «simulacri spirituali»? Possono davvero sostituire l’esperienza viva e incarnata della persona? Se prendiamo la nozione classica di «persona» come unione tra corpo e spirito, è chiaro che l’immortalità digitale rischia di essere una forma vuota, priva di quell’elemento ineffabile che costituisce l’anima.
Inoltre, vi è il pericolo della deumanizzazione. In Alone Together, Sherry Turkle evidenzia come la tecnologia rischi di frammentare la nostra identità, anziché arricchirla. La creazione di copie digitali di noi stessi, invece di rappresentare un’autentica continuità, potrebbe condurre a una sorta di alienazione spirituale, in cui l’esperienza della persona reale viene ridotta a un simulacro tecnologico, privo di profondità e di autenticità.
La questione dell’autenticità di un’esperienza spirituale mediata dalla tecnologia è complessa e tocca diversi ambiti, dalla filosofia della mente alla teologia, passando per l’antropologia culturale. Un «simulacro spirituale» – come una preghiera in realtà virtuale o un’intelligenza artificiale progettata per guidare una meditazione – è autentico nella misura in cui chi lo vive lo percepisce come tale? Oppure l’autenticità richiede necessariamente una presenza fisica e incarnata?
Se un individuo trova significativa un’esperienza spirituale digitale, essa potrebbe essere considerata autentica, almeno dal punto di vista fenomenologico. Per esempio, una meditazione guidata da un’applicazione o una celebrazione liturgica virtuale può suscitare emozioni, riflessioni e connessioni spirituali reali per chi vi partecipa.
Tuttavia, dal punto di vista ontologico, queste esperienze potrebbero essere viste come parziali o limitate. La tradizione spirituale di molte religioni attribuisce valore all’incontro personale, alla fisicità del corpo, e al contesto comunitario come luoghi privilegiati per la manifestazione del sacro. In questo senso, i simulacri spirituali potrebbero essere considerati surrogati, incapaci di cogliere pienamente l’essenza del divino e dell’umano. Emerge dunque una tensione tra due approcci alla spiritualità:
a) La spiritualità come esperienza incarnata: La maggior parte delle tradizioni religiose pone l’accento sull’importanza del corpo e della presenza fisica nel vivere la spiritualità. Il cristianesimo, per esempio, celebra il mistero dell’incarnazione: Dio si fa carne e il contatto con il sacro avviene attraverso i sensi e la corporeità. Simulacri digitali, privi di corporeità e contesto relazionale diretto, potrebbero essere considerati incompleti.
b) La spiritualità come esperienza mediata: Tuttavia, si potrebbe sostenere che la mediazione tecnologica non è una novità. La stampa ha permesso la diffusione della Bibbia, le registrazioni hanno portato sermoni e canti spirituali in ogni casa, e oggi il digitale amplia queste possibilità. Se una persona può pregare con una guida virtuale o sentirsi parte di una comunità spirituale attraverso uno schermo, possiamo considerarla un’evoluzione naturale della mediazione tecnologica?
I simulacri spirituali possono arricchire le pratiche spirituali, offrendo nuove opportunità di connessione e riflessione, soprattutto in situazioni di isolamento o impossibilità di partecipare fisicamente. Tuttavia, difficilmente possono sostituire completamente l’esperienza viva e incarnata della persona. Il rischio è che si trasformino in strumenti di alienazione, piuttosto che di comunione. La sfida per il futuro sarà integrare le tecnologie digitali nella spiritualità in modo responsabile, preservando la dimensione umana e relazionale dell’esperienza religiosa.
Il secondo volto: miglioramento della condizione umana
Al contrario, il secondo volto della spiritualità digitale mira a utilizzare la tecnologia per migliorare la condizione umana e promuovere la crescita spirituale. In questo contesto, la tecnologia non è vista come un sostituto dell’esperienza spirituale autentica, ma come un mezzo per supportarla e approfondirla.
Esempi concreti di questo approccio includono l’utilizzo di app di meditazione e preghiera, come Insight Timer o Calm, che permettono a milioni di persone di accedere a pratiche spirituali direttamente dal proprio smartphone. Queste piattaforme forniscono strumenti accessibili per il miglioramento del benessere mentale e spirituale, soprattutto in contesti dove la vicinanza fisica non è possibile.
Le app di meditazione e preghiera rappresentano una rivoluzione nel modo in cui le persone praticano e vivono la spiritualità, rendendola accessibile e adattabile ai ritmi moderni. Tuttavia, sollevano interrogativi fondamentali sull’autenticità dell’esperienza, sul rischio di individualismo e alienazione, e sulla tensione tra spiritualità e mercificazione. Perché queste app abbiano un impatto positivo, è necessario un uso consapevole, che le consideri non come sostituti delle esperienze incarnate e comunitarie, ma come strumenti complementari per arricchire la spiritualità personale e collettiva.
Anche i luoghi di culto virtuali e le comunità spirituali online, che si sono sviluppati durante la pandemia di COVID-19, rappresentano un esempio di come la tecnologia possa servire la spiritualità umana. Le comunità virtuali di fede hanno permesso alle persone di rimanere in contatto con la propria fede e con i propri valori spirituali in un momento di isolamento globale. Questo fenomeno dimostra come la tecnologia possa arricchire la nostra esperienza religiosa, offrendo nuove possibilità di connessione e crescita interiore.
Continuità spirituale digitale
Una delle prospettive più innovative del secondo volto della spiritualità digitale è il concetto di «continuità spirituale digitale». Con l’avvento di tecnologie come l’IA, è ora possibile preservare l’eredità spirituale di una persona attraverso strumenti come gli avatar memoriali. Questi avatar digitali, progettati per rispondere a domande e per simulare la personalità di una persona scomparsa, rappresentano un tentativo di mantenere viva la sua memoria. Tuttavia, questo approccio solleva una serie di questioni etiche riguardanti la privacy post-mortem e l’autenticità della memoria digitale.
La creazione di archivi digitali spirituali può anche contribuire a mantenere una forma di “presenza” dei defunti, aiutando i cari a elaborare il lutto e a sentirsi ancora connessi. Tuttavia, occorre interrogarsi sull’autenticità di queste esperienze. Come ha osservato Derrida, la memoria è intrinsecamente legata all’assenza; tentare di renderla “presente” tramite mezzi digitali può alterare la nostra comprensione della perdita e del ricordo.
Il concetto di continuità spirituale digitale apre una prospettiva affascinante, ma anche profondamente complessa, nel modo in cui affrontiamo il lutto, la memoria e la spiritualità. Gli avatar memoriali e gli archivi spirituali digitali non solo rappresentano una risposta tecnologica al bisogno umano di ricordare e connettersi, ma ridefiniscono anche il confine tra il vivente e il defunto, tra la memoria e la presenza. Tuttavia, questa trasformazione solleva interrogativi fondamentali:
- Autenticità e Identità dei Simulacri Digitali
Gli avatar memoriali, per quanto avanzati, sono inevitabilmente una rappresentazione parziale e limitata della persona che cercano di «sostituire». La loro capacità di rispondere a domande o simulare comportamenti dipende interamente dai dati con cui sono stati progettati: registrazioni vocali, messaggi scritti, foto, e altre tracce digitali.
Sorge una domanda cruciale: quanto possono essere considerati autentici questi simulacri? Sono davvero una estensione della persona o una costruzione algoritmica che interpreta e manipola i frammenti lasciati dietro? In che modo tale rappresentazione digitale potrebbe influenzare il modo in cui i vivi ricordano e rielaborano il lutto?
- La privacy post-mortem
L’idea di continuità spirituale digitale introduce anche preoccupazioni etiche riguardanti la privacy. I dati personali utilizzati per creare avatar e archivi digitali appartengono ancora alla persona deceduta? Chi ha il diritto di decidere come questi dati vengono utilizzati e preservati?
La privacy post-mortem è un terreno ancora poco regolamentato, che richiede attenzione sia dal punto di vista legale sia morale. Inoltre, esiste il rischio di abuso di questi dati da parte di terzi, compromettendo non solo la memoria del defunto, ma anche i sentimenti di chi resta.
- L’elaborazione del lutto
Dal punto di vista psicologico e spirituale, la possibilità di interagire con simulacri digitali dei propri cari potrebbe offrire conforto, ma anche ostacolare il processo naturale di elaborazione del lutto.
La filosofia, da Jacques Derrida a Paul Ricoeur, sottolinea l’importanza dell’assenza come elemento centrale della memoria: è attraverso la perdita che ricostruiamo un significato per la persona amata e per il nostro rapporto con essa. La continuità digitale, invece, rischia di creare un’illusione di presenza che potrebbe congelare il lutto o addirittura frammentarlo in un continuo stato di «non-perdita».
- Ridefinire il sacro nel digitale
La continuità spirituale digitale ci invita anche a riflettere su come il sacro si trasforma in questo contesto. Se il sacro è tradizionalmente legato a luoghi, oggetti e rituali che evocano trascendenza, nel mondo digitale esso diventa una questione di dati, reti e simulazioni.
Questa trasformazione può arricchire il nostro rapporto con il sacro, rendendolo più accessibile e fluido, ma rischia di perdere l’intensità e l’intimità che caratterizzano le esperienze spirituali incarnate e comunitarie.
- L’eredità spirituale per le generazioni future
Gli archivi digitali non sono solo strumenti di connessione con il passato, ma possono diventare risorse per le generazioni future. Attraverso di essi, i discendenti possono accedere a una memoria spirituale collettiva, apprendendo dai valori, dalle credenze e dalle esperienze di chi li ha preceduti. Tuttavia, questo potenziale educativo deve essere bilanciato con una riflessione critica: quanto è mediata e filtrata questa eredità dalla tecnologia? Che tipo di autenticità può offrire rispetto alle narrazioni orali o ai documenti tradizionali?
La continuità spirituale digitale rappresenta una sfida e un’opportunità straordinaria nel nostro rapporto con la memoria, la perdita e la spiritualità. Mentre offre nuovi strumenti per mantenere vivo il legame con i defunti, richiede un’attenta riflessione filosofica ed etica per evitare che queste innovazioni compromettano la profondità dell’esperienza umana. La tecnologia non può sostituire il valore unico del rapporto diretto, incarnato e comunitario con il sacro e con gli altri, ma può arricchirlo se utilizzata con consapevolezza e rispetto per la complessità del vivere e del ricordare.
Sfide e questioni etiche
L’introduzione della spiritualità digitale pone una serie di sfide etiche. La prima sfida riguarda l’autenticità e l’identità. Fino a che punto possiamo essere certi che l’esperienza spirituale virtuale non sostituisca o comprometta quella fisica? La seconda sfida riguarda la privacy post-mortem: chi possiede e gestisce questi archivi spirituali digitali? Questo aspetto è strettamente collegato al concetto di identità post-mortem e di memoria digitale, temi esplorati da Viktor Mayer-Schönberger nel suo libro Delete: The Virtue of Forgetting in the Digital Age.
Un’altra sfida riguarda il rischio di alienazione spirituale. Sebbene la tecnologia digitale ci permetta di essere più «connessi», vi è il pericolo che questa connessione si trasformi in una frammentazione della nostra esperienza spirituale, anziché arricchirla. Secondo Martin Heidegger, la tecnologia rischia di trasformare l’essere umano in una mera risorsa, riducendo la complessità dell’esperienza umana e spirituale a un’operazione tecnica.
In sintesi, la spiritualità digitale rappresenta un campo di frontiera, ma è essenziale che il suo sviluppo sia guidato da una visione etica e responsabile. Solo così l’intelligenza artificiale e le tecnologie digitali potranno diventare strumenti di crescita spirituale, senza compromettere l’integrità della nostra esperienza umana. La sfida sarà quella di integrare questi strumenti nella nostra vita spirituale in modo che siano al servizio dell’uomo e non che l’uomo diventi strumento della tecnologia.
Questa riflessione ci invita a considerare la tecnologia come un’alleata del nostro cammino spirituale, un mezzo per unire e non per dividere, per preservare e non per alienare, e infine per condurci verso una comprensione più profonda della nostra essenza umana e spirituale.
Alessandro Olivieri Pennesi è docente presso il Ciclio di specializzazione in Teologia spirituale della Pontificia Facoltà Teologica Teresianum a Roma (pagina personale)
Non so come si possano mettere in rapporto il sacro e l’intelligenza artificiale. Tale “sfida” mi sembra passibile solo di feconda mercificazione, nel caso che sopravvenga l’uso psicologico o materiale di memorie legate a un defunto poi, essa viene a preparare ol terreno per dei tentativi di circonvenzione e/o delle mistificazioni. Mi viene in mente in proposito, visto anche lo specifico ricordo luttuoso della pandemia da COVID 19, col divieto di conservazione privata delle ceneri degli estinti, in relazione a motivi che tradizionalmente sono sia al fine di evitare l’istituzione di paraliturgie che di carattere igienico. La spiritualità o la devozione personali privatamente è ovvio che si avvalgano di qualsiasi supporto efficace a veicolarne i contenuti, indipendentemente dal secolo di invenzione dello stesso (stampa TV, informatica). Ad un’altra sfera attiene la vidimazione pubblica dell’esercizio religioso e corrispondentemente la limitazione della liceità dell’ ontologica ingerenza di questo nella privacy di coloro che intendano farne pratica.
Connesso con quanto espresso è la fama di santità di fedeli e quindi le beatificazioni e canonizzazioni. Infatti il mondo digitale se da una parte può aiutare a diffondere modelli di santità dall’altra può anche costruirne in modo artefatto; tutto ciò oggi è incentivato dal fraintendimento tra chiamata universale alla santità (Lumen Gentium, 5) – che papa Francesco ha denominato santi della porta accanto non canonizzabili (Gaudete et exultate, 6-9) – e santità canonizzabile che richiede le virtù eroiche nella vita e non tanto negli scritti (Gaudete et exultate, 5). E poi nel caso che la santità eroica sia riconosciuta e confermata canonicamente c’è da distinguerla dall’uso – non sempre auspicabile – che se ne fa e in questo il digitale diventa non solo un mezzo.
Per un approfondimento cfr. https://www.causesanti.va/content/dam/causesanti/varie-sito/Padre-Maurizio-FAGGIONI—Santita-canonizzabile.pdf
Un profilo biografico ha espresso il parere che tutta la eroicità delle virtù sia prevalentemente basata sugli scritti e non sulla vita. E anche che da giovani, negli scritti siamo tutti santi e mistici.