Il logo del giubileo, l’artista e il suo atelier

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Il logo del giubileo sta invadendo gli appuntamenti e i riferimenti all’anno della misericordia (8 dicembre 2015 – 20 novembre 2016). Mostra la figura di Gesù nella discesa agli inferi mentre si carica sulle spalle l’umanità di Adamo. Nel mistero pasquale la morte (kenosi) del Figlio permette il riscatto definitivo dell’uomo dalla morte del peccato e da quella fisica. Fra i richiami più immediati vi sono gli sguardi, l’immagine del pastore, la dimensione trinitaria. Adamo guarda a Cristo, imparando da lui come vedere la realtà. Ma anche Cristo impara da Adamo a guardare con gli occhi umani. La tradizione affida a Gesù Buon Pastore di portare sulle spalle la pecora perduta; qui l’animale è sostituito dalla figura umana e ne enfatizza il significato. Infine la mandorla entro cui è contenuta l’immagine ha un movimento dalla profondità del buio (croce e morte) alla luce delle vesti del Signore e la sua forma semicircolare evoca la fonte trinitaria dell’amore, resa manifesta dalla dicitura: misericordiosi come il Padre. L’autore è p. Marko Rupnik e la sua scuola, l’Atelier del Centro Aletti di Roma.

Arte e vocazione

A novembre 2015 l’Atelier del Centro Aletti ha festeggiato i sui 20 anni di vita con una piccola pubblicazione di testimonianze e riflessioni per onorare p. Rupnik e fare memoria del percorso artistico ed ecclesiale compiuto. Si tratta di un piccolo gruppo di artisti (e teologi) che nei decenni si è ampliato e modificato dando vita, attraverso l’arte del mosaico ad un fenomeno ecclesiale che non ha paragoni nell’attuale panorama dell’arte liturgica. Non solo per la quantità di opere, alcune di grandi dimensioni (dell’ordine di centinaia di metri quadri), ma soprattutto per un tratto e un segno inconfondibili. Gli interventi artistici già compiuti sono ben oltre il centinaio e interessano una ventina di paesi, in prevalenza europei (Italia, Slovenia, Francia, Spagna, Cechia, Polonia, Romania, Portogallo, Serbia, Slovacchia, Austria, Ungheria, Croazia), ma anche mediorientali (Libano), e americani (USA, Brasile) e, nel prossimo futuro, Cina. Se le opere maggiori sono stati quelle della cappella Redemptoris Mater in Vaticano, nel santuario di Lourdes, a Fatima, a San Giovanni Rotondo (p. Pio da Pietrelcina) e a Cracovia (il tempio dedicato alla memoria di Giovanni Paolo II), gli interventi, anche di notevoli proporzioni, si stanno moltiplicando. Questo grazie all’affiatamento spirituale della squadra, alla crescita delle domande e a una gestione efficiente delle forze. Per esempio, le parte più complesse dei mosaici (i volti, i corpi, gli animali e gli elementi più articolati) nascono nell’atelier e vengono poi montati sul posto con un sistema pittorico che non è di semplice contenimento, ma interpretativo e creativo in ragione del luogo.

Sorprende i committenti (parroci, religiosi, vescovi, comunità non solo cattoliche) che i lavori sulle pareti e sull’abside inizino con la celebrazione eucaristica e la preghiera. La connessione preghiera e arte si amplia spesso alla capacità di intervento sull’intero spazio liturgico (altare, ambone, custodia eucaristica, aula).

Lipa e i libri

Una attività vorticosa, moltiplicata dal rilancio delle immagini su riviste, santini, strumenti mediali, pubblicazioni ufficiali o meno. Una espansione che trova nei libri dell’editrice Lipa un luogo di elaborazione e di riflessione a cavallo fra la tradizione cristiana orientale e occidentale. Sono circa 200 i volumi pubblicati dal 1994, tutti strettamente legati a quanto il Centro Aletti (composto da alcuni gesuiti e da alcune consacrate) va elaborando e dei riferimenti a teologi contemporanei e tradizionali coerenti con un pensiero non sovrapponibile alle scuole teologiche accademiche. Il riferimento a p. T. Spidlik e alle sue opere di approfondimento della tradizione russa e orientale e d’obbligo. Anche perché ha rappresentato un padre spirituale per il gruppo originario e un riferimento «nobile» per tutti. Ma accanto al suo nome e a quello dei partecipanti (p. Rupnik, M. Tenace, M. Campatelli, M. Zust, N. Goverkar) si possono ricordare i nomi di O. Clement, A. Taft, A. Schmeman, V. S. Soloviev, S. N. Bulgakov, S. P. Brock, P. N. Evdokimov, G. Marani, V. Truhlar.

Oggi è riconosciuta a p. Rupnik «una paternità che fa da perno, che rende a ciascuno ragione dell’aver messo anche la propria creatività a disposizione di un altro perché la componga assieme alla creatività degli altri. E a sua volta colui che la riceve la rimanda, insieme alla sua, lasciando che anche la sua sia plasmata, senza sigillarla, senza trattenere per se niente di ciò che ha ricevuto». Nelle testimonianze per l’occasione dei vent’anni torna insistentemente la consapevolezza di essere un fatto ecclesiale a servizio dell’intera Chiesa («il sentire nell’animo di essere tutt’uno con gli amici artisti che condividono con me in modo unico e originale questa esperienza di essere Chiesa»), di creare un’arte religiosa centrata su Cristo («è sempre più evidente che è l’amicizia di Cristo e in Cristo quella che ci tiene insieme») e capace di prendere sul serio la materia (l’esperienza dell’atelier «è l’ascolto del gemito della creazione che attende e chiede di essere lei pure liberata»), di avvertire la capacità artistica come vocazione (all’artista viene «chiesto un passaggio: dall’arte come espressione di sé, all’arte come ministero ecclesiale»).

La fede nell’era organica

Al centro vi è dunque la fede che p. Rupnik esprime così: «Il nocciolo della nostra fede sta nel vivere la vita di Cristo, che è un amore assoluto del Figlio al Padre. E questo amore si realizza attraverso l’obbedienza. Ma, se isoliamo l’obbedienza dal contesto dell’amore, entriamo in una deviazione teologica, che prima o poi diventa anche una patologia psicologica. E, se dall’amore escludiamo l’obbedienza, succede lo stesso» (cf. N. Govekar, Il rosso della piazza d’oro. Intervista a p. Marko Ivan Rupnik, Lipa, Roma 2013).

Chi conosce la larga e cordiale ospitalità del Centro Aletti percepisce la fusione fra tradizione cristiana orientale e occidentale, fra riflessione teologica e pratica artistica, fra vita comune e relazioni internazionali attraverso i molti volti e persone che incontra. Un contesto che ha permesso a p. Rupnik un percorso artistico che, nel volume Il colore della luce (2003) ha sintetizzato in tre passaggi. Uno di tipo artistico. Dopo la grandi correnti di barocco, del classico, del romanticismo, l’arte contemporanea conclude in uno sbocco senza referenzialità. L’artista esprime solo se stesso. Il massimo della sua libertà coincide col massimo del formalismo. Da qui l’urgenza, dopo aver praticato la pittura astratta di porre a tema il senso della vita, riconoscendo la centralità di Cristo. Un secondo passaggio è di tipo teologico: dall’accademia alla teologia mistica. Esso è segnato da una attenzione qualificata alla tradizione spirituale e culturale dell’Oriente cristiano. Ben oltre gli stilemi della tramontante razionalità strumentale occidentale. Un terzo passaggio è personale: dall’artista che «sente», all’artista che «vive». Vi è un tratto ascetico di spessore fra un’arte proposta come raffinato mestiere e un’arte che risponde alla necessità della «bellezza che salva il mondo» (Dostoevskij). Elemento consumante certo, ma non più drammatico della percezione degli abissi e delle sudditanze dell’uomo che ha portato molti artisti alla pazzia e all’autodistruzione.

Il percorso artistico favorisce e si intreccia a quello teologico. Nell’introduzione al volume Teologia pastorale. A partire dalla bellezza (Lipa, Roma 2005), p. Rupnik e p. Spidlik così si esprimono. «Questo libro vorrebbe essere il tentativo di una ricerca teologica che assume responsabilmente la propria visione organica – che passa dalla Bibbia, alla liturgia, alla riflessione, al dogma, alla vita spirituale – e che per la sua stessa natura è missionaria e dialogica, dunque capace di creare linguaggi per un incontro interculturale». Ciò significa un giudizio severo sulla pretesa della razionalità strumentale di entrare da padrona nella teologia, sullo scientismo di una fetta della teologia accademica, sul cesaropapismo culturale esercitato dalla scienze positive nei confronti di tutta la riflessione attuale. La teologia pastorale di cui si parla nel volume non è la disciplina marginale dei programmi di studio delle facoltà ecclesiastiche, ma piuttosto «l’unità organica delle discipline teologiche in maniera che riappaia, come sorgente culmine del metodo teologico, la contemplazione». Una teologia senza contemplazione «cessa di essere la coscienza e l’autocoscienza della Chiesa». «Se la teologia smette di essere la risposta chela Chiesa dà alle sue questioni e smette anche di essere questione rivolta alla Chiesa, finisce per costruire dentro la Chiesa un mondo auto centrato», sostanzialmente inutile.

Dall’individuo alla comunione

L’arte contemporanea che è piena di inquietudine religiosa, ma lontana dalla fede è il segnale di un non risolto rapporto con l’antropocentrismo dal Rinascimento ad oggi. Se Eugenio Garin ha interpretato il Rinascimento come sintesi fra deposito cristiano e valori classici, Nicolaj Berdiaev lo legge come collisione fra le due concezioni e avvio della subalternità del cristianesimo. Rupnik riconosce in Cimabue un legame ancora vitale, ma che già con Ghirlandaio è perduto. Da Leonardo a Tiziano fino a Francis Bacon si distende l’inversione della polarità: quella cristiana che unisce persona e comunità si rovescia nella dinamica fra individuo e natura. Il parossismo insaziabile dell’individuo narcisista propizia la recisione di ogni legame e relazione sociale. Una visione di senso estranea a quella organica del cristianesimo.

Ma proprio ora, sulla scorta delle intuizioni di V. Ivanov, emerge la percezione di una nuova era, una rinnovata epoca organica, segnata dalla connessione fra uomo-natura-creato, rispetto all’esausta epoca critica, fondata sul primato del pensiero e della successione idea-pratica. Davanti all’in-umano, al post-umano e al trans-umano risorgono la domanda di senso e l’apertura allo Spirito. Il ritorno all’epoca organica delle origini del cristianesimo legittima il segno artistico dell’atelier, consapevolmente privo della terza dimensione (prospettiva), al di là delle differenze culturali e delle distanze geografiche.

L’altezza delle sfide provoca e provocherà discussioni e differenze. La cura per il futuro del cristianesimo e la vitalità della fede non permette pratiche e pensieri di poco conto.

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