Un foglio bianco. È ciò che si sono trovati davanti gli studenti di un collega nelle ultime due ore di corso. Ha chiesto loro di farne ciò che volevano: chi ha disegnato, chi ha scritto, chi ha mescolato segni e parole… Voleva che sperimentassero l’ebbrezza e la paura della libertà: che cosa scegliamo di fare di fronte al vuoto?
«Vacanza» dal latino significa proprio «vuoto», uno spazio da riempire. Nessuno di loro ha lasciato il foglio bianco, dimostrando che la libertà non è lasciare tutte le possibilità aperte, ma è sfidare il vuoto e strappargli un significato. Così la loro libertà raccoglieva, in forma plastica, la sfida lanciata dall’approssimarsi del periodo delle vacanze: è impossibile non scegliere, ognuno di noi è chiamato a lasciare un segno sulla tela bianca della vita, perché scegliere definisce e compie la nostra identità.
Noto invece nei giovani una certa paura a prendere decisioni: siamo dominati da una libertà pigra e «autoimmune», ci si crede liberi quando si può scegliere tutto e se proprio si deve scegliere lo si fa in modo da poter tornare indietro. La libertà senza scelta è fuga dalla fatica e dall’ebbrezza che comporta impegnarla per ciò che vale. Quando Alessandro Magno bruciò le navi che avevano portato l’esercito davanti al ben più numeroso nemico, i suoi soldati, prima impauriti e pronti alla ritirata con quelle navi, sbaragliarono l’avversario: per tornare a casa si poteva solo avanzare.
Desideranti
Soltanto decidere impegna il desiderio e lo fa crescere. Decidere viene dal latino «tagliare», un tagliare fecondo che, vincolando il desiderio, lo libera dall’onnipotenza, dalla paura, dalla dispersione, che alla lunga lo spengono. Decidere è potare il desiderio e permettere alla sua linfa di concentrarsi nelle gemme migliori per dar frutto. Una vigna non potata, dopo aver prodotto un raccolto ricchissimo, diventa sterile. Così anche la nostra vita si spegne se non è incanalata dagli argini della scelta. Ma come scegliere?
Il collega ha raccontato ai suoi studenti di come Cesare, nel suo diario di guerra, descrive l’accampamento a fine battaglia: i soldati sopravvissuti, benché spossati, aspettano, nella notte, i compagni non ancora tornati.
Egli chiama coloro che attendono gli amici sotto le stelle: «desiderantes», i desideranti. Ai ragazzi ha chiesto di diventare tali, come? Riempiendo un’altra pagina con i loro desideri, disponendoli così come affioravano: li hanno strappati al foglio bianco con slancio. I desideri per viverli bisogna prima riconoscerli e pesarli. Allora ha chiesto di farne la mappa nella pagina accanto, affondare la testa nel cuore per stabilirne la gerarchia, ordinandoli in base alla profondità: in basso i più radicali salendo verso i più superficiali.
Hanno così scoperto che i desideri più profondi riguardano sempre anche le altre persone, ciò che possiamo essere e fare per il mondo, come i desideranti di Cesare. I desideri superficiali dipendono spesso da paure e attese, appaiono reali ma sono miraggi dettati dall’esterno e per contagio, dalla cultura a cui apparteniamo o dalle aspettative più o meno consapevoli degli altri: essere più belli, intelligenti, sicuri…
Questi desideri non impegnano la libertà rinnovandola, ma ne disperdono l’energia. I desideri più profondi invece spingono da dentro, sono la linfa della nostra vendemmia, un destino che può trasformarsi in destinazione. Richiedono il coraggio della vera libertà e così ci liberano dalle illusioni di bene e dai miraggi di felicità.
Rimanere in viaggio
«Mi capita di dovermi inginocchiare di colpo davanti al mio letto, persino in una fredda notte d’inverno. Ascoltarsi dentro. Non lasciarsi guidare da ciò che si avvicina da fuori, ma da ciò che si innalza da dentro». Sono le parole del diario di Etty Hillesum, ragazza ebrea che invece di scappare dalla persecuzione nazista, matura la decisione di aiutare gli altri a rischio di morire, come le accadrà ad Auschwitz nel 1943.
Quello di Etty è un percorso graduale e coraggioso per abbracciare il desiderio più vero e profondo, il «desiderio vocazionale», la grande aspirazione, l’intuizione del proprio posto nel mondo, il segreto della felicità, qualunque sia la fatica da affrontare:
«È giusto sentirsi a volte confusi e disorientati e chiedersi di nuovo: lo vuoi davvero? E poi, ecco la paura gelida e l’incertezza e un sospiro per dire: mio Dio, bambina, in che cosa ti stai cacciando? Ma la certezza pian piano cresce. Sono diventata abbastanza matura per assumermi il mio «destino» e per smetterla di vivere una vita casuale. Avere un destino: non è più un sogno romantico o la ricerca dell’avventura, o un’infatuazione che spinge ad azioni folli e irresponsabili, ma è una serietà terribile e sacra, ed è così ardua e a un tempo così ineludibile».
I ragazzi diventano paurosi, apatici, storditi, rabbiosi, malati, perché non li aiutiamo a discernere i desideri profondi (dovremmo farlo prima noi). Li lasciamo in balia della dispersione e disperazione dei desideri superficiali e innocui per evitare fallimenti, sofferenze, cadute. Così eliminiamo il senso di avventura e pienezza implicito nella vera libertà, che decide di bruciare le navi.
Come dice Etty non si tratta di abbandonarsi ad azioni folli e romantiche, per essere ammirati, ma di maturare, cioè di non disperdersi: «Credo proprio di avere un regolatore interno. Un malumore mi avverte ogni volta che ho preso la strada sbagliata, e se continuo ad essere onesta e aperta, se conservo la mia volontà di diventare quella che dovrò essere e di fare ciò che la mia coscienza mi prescrive, in tempi come questi allora andrà tutto a posto».
La strada sbagliata impedisce il viaggio, che in inglese si dice «travel», da noi ne rimane traccia nella parola «travaglio»: il viaggio è un parto, generare chi siamo chiamati ad essere, la «diritta via» smarrita da Dante in apertura del suo poema. Il peccato non è la trasgressione di una regola, ma il tradimento di se stessi. «A te convien tenere altro viaggio» gli dice Virgilio: devi ancora partorirti.
Il tempo delle stagioni
In quelle due ore con il mio collega i ragazzi si sono sorpresi di fronte all’ordine del cuore, al peso dei desideri: volevano realizzare proprio quelli che avrebbero comportato più fatica e si sentivano già più liberi da quelli superficiali. Il desiderio è la linfa della vita umana, se non lo riduciamo a bisogni e piaceri, è slancio che consente di esplorare il mondo e integrare la resistenza che il mondo oppone: è il bambino nato dal travaglio.
Maturare ha una radice che indica l’arrivare al tempo giusto, la stessa di mattiniero, chi si alza per tempo. Né acerbo né marcio, maturo è chi rispetta il tempo delle stagioni, fedele alla chiamata che porta dentro, al dono che può fare di sé agli altri e al mondo. Per questo Agostino arriva a dire che pregare è prendere coscienza di ciò che Dio desidera in noi e attraverso di noi. La maturità si cela nel desiderio radicale, che chiama a partorirsi, a cambiare sé e il mondo da dentro verso fuori.
Ridimensionando i desideri superficiali, dettati da paure, aspettative, bisogni effimeri, possiamo provare ad abbracciare il desiderio radicale, che è linfa della vita e fa di noi un dono per il mondo: più ci impegna più rinnova lo slancio, perché è il modo in cui compiamo la nostra vita e quella altrui.
Il desiderio radicale dà frutto senza stancarsi, anzi si esalta, a differenza di quello superficiale che alla lunga stanca. Come Etty siamo chiamati a cose grandi, che si realizzano gradualmente, con la testa nel cuore e i piedi per terra. Siamo chiamati alla festa della vita compiuta.