Non ho cosa che amo di maggior valore di ciò che mi manca,
perché, se ciò che amo mi appartenesse,
scadrei di quanto è scarso il mio amore.
Margherita Porete
L’inizio del romanzo La notte delle beghine di Aline Kiner ci trasporta nella vibrante e tumultuosa Parigi del XIV secolo, nel quartiere del Marais, dove sorgeva il Grande Beghinaggio Reale. Il Béguinage era un’oasi di autonomia e spiritualità femminile all’interno della città. Kiner così descrive le beghine che lo abitavano:
Qui, e nei quartieri limitrofi, hanno vissuto per quasi un secolo donne notevoli. Inclassificabili, sfuggenti a qualunque definizione, esse rifiutavano sia il matrimonio che il chiostro. Pregavano, lavoravano, studiavano, circolavano per la città senza restrizioni, viaggiavano e ricevevano amici, disponevano di beni, potevano trasmetterli alle sorelle. Indipendenti e libere. Una libertà di cui nessuna donna fino ad allora aveva mai goduto, né avrebbe potuto godere per secoli. Non tutte ne erano consapevoli. Ma alcune si batterono per conservarla, quella libertà. Per anni, percorrendo su e giù le viuzze del Marais, ho cercato le loro tracce. Giorno dopo giorno quelle donne mi sono venute incontro, ombre forti e leggere.
Nel corso del romanzo l’esecuzione di Marguerite Porete – arsa viva per aver scritto l’opera Mirroir des âmes simples et anéanties, considerata eretica dalle autorità ecclesiastiche –, assume un profondo significato simbolico. Questo evento gettò un’ombra sinistra sulla comunità delle beghine, che vennero sempre più percepite come una minaccia per l’ortodossia. Lo erano, in effetti, per la loro indipendenza, per la loro spiritualità troppo libera e personale.
“Beghina” si definisce Romana Guarnieri, una delle mistiche laiche del Novecento, sulle quali il libro di Lucetta Scaraffia, Dio non è così[1], accende i riflettori. Le altre sono Catherine Pozzi, Charlotte von Kirschbaum, Adrienne von Speyr, Banine, Elisabeth Behr Sigel, Simone Weil, Chiara Lubich. A unirle è un filo invisibile, un sentire racchiuso nel titolo del libro, che dice del loro desiderio di una comprensione personale e autentica di Dio, al di là delle proposte tradizionali e delle forme antiche, la ricerca audace di un Dio non narrato, ma vissuto, per un incontro nuovo.
Queste donne – annota Scaraffia – incarnano una nuova forma di misticismo femminile, laica, libera, avventurosa, che si inserisce nel più ampio movimento di emancipazione femminile del Novecento. Indipendentemente dalle loro appartenenze religiose, hanno mirato a rinnovare dall’interno le loro confessioni o a promuovere un concreto ecumenismo. Le loro vite, per lo più caratterizzate da professioni intellettuali e da esperienze affettive spesso al di fuori delle forme convenzionali, si distinguono da quelle delle mistiche tradizionali, sovente legate alla sofferenza fisica e provenienti da contesti più umili (come Marthe Robin e Teresa Neumann). Le loro scelte e i loro progetti sono stati rivoluzionari, gettando le basi per un ruolo più autorevole e paritario delle donne nella Chiesa e nella società, evidente nei modelli comunitari di Adrienne von Speyr e Chiara Lubich.
Lasciando al lettore il piacere di ripercorrere gli itinerari esistenziali e spirituali, interessantissimi, di Charlotte von Kirschbaum, Adrienne von Speyr, ispiratrici dei due maggiori teologi del Novecento, Karl Barth e Hans Urs von Balthasar, e quelli di Elisabeth Behr Sigel e Chiara Lubich, che hanno rinnovato dall’interno il cristianesimo ortodosso e quello cattolico, in questa recensione mi soffermerò sui ritratti di Romana Guarnieri, Banine, Catherine Pozzi, Simone Weil.
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Per introdurre il libro di Lucetta Scaraffia, comincio dal ritratto di Romana Guarnieri per un motivo che mi sembra importante. La vita e le scoperte di questa studiosa originale e coraggiosa gettano un ponte tra epoche diverse, tra le beghine medievali e le mistiche moderne, permettendo di intravvedere quel legame sotterraneo che pure le unisce, al di là e al di sotto delle importanti differenze che Scaraffia correttamente evidenzia nel suo libro.
Guarnieri è nota per aver riscoperto opere fondamentali, come Lo specchio delle anime semplici di Margherita Porete, che si credeva perduto, e per la traduzione e il riconoscimento delle poesie mistiche e delle lettere di Hadewijch di Anversa, aprendo in tal modo una nuova e fruttuosa pista di ricerca sulle pinzochere o beghine.
Nonostante il suo genio e la sua generosità illimitata nel supportare altri ricercatori, compresa la stessa Scaraffia, che nel libro racconta come la Guarnieri l’abbia aiutata nella sua ricerca su Rita da Cascia, gli ambienti accademici tradizionali – tanto laici quanto cattolici – tendevano a guardare con diffidenza alla sua passione intellettuale e alla sua autonomia di pensiero, elementi che contribuirono a relegarla in una posizione defilata rispetto alla figura più istituzionale di don Giuseppe De Luca, del quale fu assidua e creativa collaboratrice.
L’incontro nel 1938 con questo coraggioso sacerdote meridionale e fine intellettuale segnò infatti la nascita di “una singolare amicizia” tra i due e fu cruciale per Romana, che trovò in lui non solo un sodale e amico fidato ma anche lo scopo della sua vita: ridare prestigio alla cultura cattolica attraverso le Edizioni di Storia e Letteratura, aprendola al confronto con il mondo intellettuale laico.
Scaraffia nel capitolo dedicato a Guarnieri sottolinea come il riconoscimento del valore delle ricerche di Romana Guarnieri venne non dal mondo accademico, ma dal femminismo militante, e in particolare da Luisa Muraro, figura centrale di Diotima, comunità filosofica femminile fondata a Verona nel 1983, che comprese la portata rivoluzionaria delle scoperte di Romana, in particolare riguardo a Margherita Porete, la cui opera, secondo la studiosa veronese, si pone alle origini della mistica occidentale, influenzando il pensiero filosofico da Meister Eckhart fino a Heidegger.
Romana Guarnieri – nota Scaraffia – univa un rigoroso approccio storiografico a una profonda passione spirituale, vedendo le sante come amiche personali e compagne di viaggio. Questa sua prospettiva unica, che fondeva storia e spiritualità pur senza mai scadere nell’agiografia, non trovò e non poteva trovare accoglienza nel chiuso, talora angusto, ambito universitario.
Sebbene non abbia mai ricevuto il pieno riconoscimento dalle istituzioni del suo tempo, Romana incarnò una libertà spirituale che ha contribuito in modo fondamentale a riscrivere una parte essenziale della storia culturale europea e della spiritualità femminile. Questo risultato è, del resto, totalmente in linea con la Ruah di Dio, di cui lei era innamorata, e che, come si legge nelle Scritture, “spira dove vuole”. Per lei, – scrive Scaraffia – “le lunghe e appassionate discussioni con Luisa Muraro sono state feconde e importanti, e ne ha conservato le registrazioni intuendone la portata per una storia futura del rapporto fra due donne così diverse, che insieme hanno riscritto un pezzo di storia della cultura europea”. E – poco oltre – riporta quanto la studiosa veronese, ricordando questi incontri, scrive a proposito di Guarnieri:
Sì, era una donna libera e lo era grazie a Dio. Era una beghina. Per anni, sono andata avanti a studiare Lo specchio delle anime semplici, a leggere le scrittrici mistiche, le nordiche e le italiane, sulla strada che lei aveva percorso, e poi a riparlarne con lei. E non mi accorgevo di quello che era davanti ai miei occhi, finché Romana si decise a dirmelo esplicitamente. Stavamo parlando di Giovanna d’Arco, nello sforzo di captare la sua figura storica di giovane donna trapassando gli eroici stereotipi che la avvolgono. ‘Giovanna era una beghina’, disse Romana, ‘questo spiegherebbe la sua personalità dotata di tanta indipendenza spirituale’, aggiunse. A me pareva che non ci fosse il contesto storico per considerarla tale, una beghina, al che Romana esclamò: ‘Essere beghina è una scelta che si è rinnovata in diversi contesti, io lo sono!’” (Ivi, p. 147).
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Moderna, del tutto moderna, è la conversione di Banine (vero nome Umm el-Banine Assadoulaeff, 1905-1992), e Scaraffia la racconta in modo così accattivante da renderla un’esperienza vivida, risonante, capace di interpellarci personalmente.
Nata a Baku in una famiglia ricca e occidentalizzata, Banine giunse a Parigi a 16 anni nel 1921. L’energia del sopravvissuto, che l’aveva spinta a svolgere mille mestieri per mantenersi dopo la perdita improvvisa delle fortune familiari in seguito alla rivoluzione bolscevica, si riversò con irruenza nella sua appassionata devozione per Ernst Jünger. Il loro incontro, avvenuto nel 1943 mentre lui era un ufficiale dell’esercito occupante, fu per lei un colpo di fulmine, mentre per lui, osserva tagliente Scaraffia, rimase un’annotazione distaccata nel diario.
Banine fu affascinata dalla personalità di Jünger e gli dedicò anni di intenso lavoro, traducendo le sue opere e promuovendole in Francia. Tuttavia il suo amore, una “fame d’amore” profonda che la perseguitava fin dall’infanzia orfana di madre, fu spesso frustrato dallo scrittore tedesco, che lei idealizzava come un eroe sofferente. Determinata a liberarsi da questa relazione masochista, distruttiva, Banine si ritrovò a un tratto senza qualcosa che l’occupasse, povera e disperata, e giunse a pensare al suicidio.
In questa profonda amarezza, però, le si aprì una nuova dimensione: un dialogo interiore che la condusse alla conversione al cristianesimo. La sua – sottolinea Scaraffia – non fu una conversione dall’islam (religione di nascita superficialmente praticata in una famiglia laicizzata) al cristianesimo, ma piuttosto il passaggio da un ateismo scettico alla ricerca appassionata di Dio. Questo intenso viaggio spirituale è narrato da Banine con lucidità e ironia nel suo libro Ho scelto l’oppio, il cui titolo provocatorio in riferimento a Marx, sottolinea la sua audacia.
Il distacco da Jünger, seppur doloroso, fu quindi il catalizzatore della sua esperienza mistica. Ho scelto l’oppio è il diario di questa trasformazione interiore, in cui Banine analizza con spietata sincerità la propria disperazione e la graduale scoperta della luce della grazia. Il suo percorso, seppur simile a quello di altri convertiti, è unico per la sua trasparenza e la sua costante auto-ironia. Banine, precisa Scaraffia, accettò la Chiesa con le sue imperfezioni, vedendole come un segno della sua umanità, che la rendeva più accessibile e aperta a persone imperfette, umane, per l’appunto, come era lei. Questo le permise di arrivare al battesimo, diventando, come lei stessa affermò con orgoglio, la prima musulmana convertita ad aver documentato il proprio percorso spirituale.
Il libro, elogiato da autorevoli teologi come Jean Daniélou, ma il più delle volte frainteso nella sua profondità, rivela come la “fame d’amore” e la ricerca di assoluto abbiano attraversato l’intera vita di Banine, dal suo rapporto con la natura caucasica, ai suoi amori giovanili, e al sofferto legame affettivo con Jünger, culminando nella sua ricerca di Dio. La sua capacità di guardare alla vita con lucidità e ironia, conclude Scaraffia, rivela una profonda comprensione della condizione umana e una spiritualità che le permetteva di trovare significato e prospettiva anche nelle difficoltà più estreme.
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La stessa “fame d’amore”, la medesima dedizione a un uomo profondamente amato che, frustrate, culminano nell’amore per Dio, le ritroviamo nella storia di Catherine Pozzi, un’altra mistica raccontata da Scaraffia. È, del resto, un percorso che si ripete di frequente, come dimostra anche il caso esemplare di Etty Hillesum, che Wanda Tommasi, studiosa attenta della mistica femminile, spiega così: “Non è la delusione d’amore a spingerle verso la fede, ma è proprio il vissuto stesso dell’innamoramento a consentire loro di sperimentare che il proprio centro di gravità non è in loro stesse, ma in un altro, nell’uomo appassionatamente amato. In seguito, questo centro di gravità, sempre collocato fuori di sé, sarà posto in Dio” (W. Tommasi, Vivere Dio qui e ora. La sapienza mistica di autrici del nostro tempo, Milano, Figlie di S. Paolo, 2023, p. 28).
In altre parole, è l’uscita da sé, la negazione di quell’io odioso, centro di tutto, che avviene nell’esperienza dell’amore vero, profondo, disinteressato per un altro essere umano, a rendere percepibile quel desiderio assoluto di Assoluto e quindi a innescare quel movimento affettivo che trova compimento, quiete, e piena soddisfazione nell’amore per Dio. “Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”, recita il celebre inizio delle Confessioni.
Pozzi (1882-1934) è stata una poetessa e intellettuale francese la cui profonda spiritualità segretamente coltivata durante la vita, fu pienamente riconosciuta solo dopo la sua morte. Michel de Certeau, il maggior studioso della mistica moderna, la elevò a figura esemplare della spiritualità contemporanea, paragonandola alla poetessa medievale Hadewijch di Anversa. Nella sua poesia “Ave”, Certeau riconobbe “un nuovo modo di camminare” verso quel “desiderio senza nome” che caratterizza la ricerca mistica moderna.
Cresciuta nell’alta borghesia parigina, figlia del rinomato chirurgo Samuel Pozzi, Catherine visse fin dall’infanzia tra le luci della mondanità e le ombre dei conflitti familiari. Vivere al centro delle tensioni tra i genitori la segnò profondamente, lasciandole un “dolore spirituale” che, nel tempo, forse si somatizzò nella lunga e debilitante malattia che l’afflisse per molti anni, la tubercolosi.
Nonostante le aspettative sociali della sua epoca la destinassero unicamente a un matrimonio di convenienza, Catherine rifiutò un destino preconfezionato. La sua sete di conoscenza, non soddisfatta da un’educazione formale limitata alle “signorine”, la spinse a diventare un’autodidatta instancabile, dedicandosi a studi di greco antico, fisica quantistica, filosofia. La sua ricerca di un “amore assoluto” la portò a ripetute delusioni. Anche il decisivo incontro con il poeta Paul Valéry, sebbene caratterizzato da un’intensa sintonia intellettuale e spirituale, si rivelò un’ulteriore fonte di frustrazione. Valéry non fu disposto a sacrificare per lei la sua vita mondana e familiare, condannando Catherine, profondamente innamorata, a sperimentare la dolorosa realtà di un amore mai pienamente ricambiato.
È proprio in questa serie di disillusioni – scrive Scaraffia – che si radicò la sua ricerca di Dio. Non essendo legata fin dall’infanzia a specifiche tradizioni religiose – nonostante una nonna cattolica e un nonno pastore protestante –, Catherine intraprese un percorso spirituale autonomo e intenso. Come Simone Weil, con cui condivideva l’approccio intellettuale alla fede e una certa distanza dalla Chiesa istituzionale, Pozzi cercò Dio al di fuori dei canoni prestabiliti. La sua “ardente ricerca d’assoluto” la condusse a un dialogo intimo e incessante con il divino.
La sua vita fu un inno alla libertà intellettuale e spirituale, ma anche al corpo, perché è evidente, scrive, che, “quando funziona sottraendosi al corpo, lo spirito stesso decresce”. Fino ai suoi ultimi giorni, Catherine continuò a studiare, a scrivere e a curare la sua eleganza, che considerava un’espressione di “purezza”, un “esercizio di volontà” e una “presenza del divino nel dettaglio”. Le sue poesie e il suo diario, pubblicati postumi per sua volontà, rappresentano la testimonianza luminosa di una donna che, attraverso il dolore e la ricerca incessante, trovò un amore che superava ogni limite umano.
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Infine, in questa recensione vorrei soffermarmi sul ritratto che Scaraffia schizza di Simone Weil, che nel libro rappresenta un capitolo a parte, perché è una figura di mistica con la quale, pur apprezzando le sue geniali doti di pensatrice, la studiosa non è consonante.
Simone Weil (1909-1943) è una mistica e filosofa francese la cui opera, in gran parte postuma e frammentaria, è divenuta per la sua profonda spiritualità e l’intenso impegno intellettuale un punto di riferimento per atei e cattolici, per filosofi e poeti.
Nell’Autobiografia spirituale Weil stessa racconta di aver vissuto un’esperienza mistica che ha segnato profondamente il suo rapporto con il Dio cristiano. Nonostante si sia definita cattolica e dichiarasse di credere in ogni dogma del cattolicesimo, rimase sempre “sulla soglia” della Chiesa, nutrendo una profonda diffidenza verso l’istituzione ecclesiastica, che considerava estranea alla vera vita spirituale. La “religione vera” era, per lei, quella dei mistici, non quella istituzionale.
Questa posizione di profonda spiritualità, senza piena adesione alla fede codificata dalla tradizione, osserva Scaraffia, ha contribuito al suo vasto successo nel mondo contemporaneo, dove la vaga spiritualità è ricercata, mentre la fede, che è soprattutto obbedienza, suscita diffidenza.
Alla letteratura secondaria weiliana Scaraffia muove quindi alcune critiche per il tono agiografico con cui essa ritrae il personaggio e il pensiero di Weil. Gran parte di questa letteratura la presenta come costantemente impegnata a favore degli ultimi e dei deboli. Sebbene Weil abbia effettivamente partecipato a esperienze come il sindacalismo, il lavoro in fabbrica, la guerra civile spagnola, il pacifismo …, Scaraffia sottolinea come sia presente una significativa lacuna in questa narrazione: la mancanza di un coinvolgimento della filosofa nella persecuzione degli ebrei in un periodo storico in cui essi erano indiscutibilmente “gli ultimi”.
Scaraffia, rifacendosi in questa interpretazione al libro Chez les Weil: André et Simone di Sylvie Weil (nipote di Simone e figlia di André), ritiene che questo rifiuto sia stato in parte determinato dal contesto familiare: una famiglia di ebrei assimilati, intellettuali di formazione illuminista, per i quali la religione rappresentava un retaggio del passato.
Certamente, si tratta di una questione delicata, che ha imbarazzato gli esegeti, e confesso che personalmente non riesco a spiegarmi le ragioni profonde della cecità dei giudizi di Weil sull’Antico Testamento e sulla tradizione ebraica in generale. Nondimeno, penso che nel suo caso occorra tenere presente la distinzione tra antigiudaismo e antisemitismo. Durante il convegno su Simone Weil tenutosi a Cerisy nel 1974, Gilbert Kahn osservò che “nove decimi di ciò che Simone scrisse sui Giudei riguardano l’Antico Testamento”.
Facendo tesoro di questa indicazione, ho considerato il suo un antigiudaismo religioso di matrice e tradizione gnostica. Credo, in altri termini, che la polemica di Weil contro Israele derivi da un’incompatibilità religiosa, da motivi teologici e non razziali. Tuttavia, so che Emmanuel Lévinas non è dello stesso parere e che ha giudicato con severità sia la lettura parziale e faziosa della Bibbia ebraica da parte di Weil, sia alcune sue prese di posizione politiche, sottolineando il forte disagio che queste gli provocavano.
Nel libro di Scaraffia l’atteggiamento di Simone verso gli ebrei è interpretato, come già accennato, quale conseguenza della forte influenza esercitata su di lei dalla madre, che, avendo in antipatia la pia suocera praticante, avrebbe avuto un ruolo decisivo in questa dinamica. Allo stesso modo, e per l’influenza materna, Simone avrebbe manifestato anche un netto rifiuto della propria femminilità. Cresciuta in una famiglia in cui la madre prediligeva il figlio maschio e desiderava che anche lei fosse un uomo, Simone avrebbe mortificato il proprio corpo femminile, adottando un modello di vita e un aspetto mascolini.
Sicuramente l’influenza della famiglia su ognuno di noi, sui nostri più intimi convincimenti è potente. Tuttavia, forse sbagliando, ritengo che il libro di Sylvie Weil non sia del tutto attendibile e che la questione del difficile rapporto di Weil con l’ebraismo e con la sua femminilità sia più complicata e dipenda in parte dalla sua predilezione per il pensiero greco e in parte da una certa temperie culturale.
Nonostante le sue contraddizioni e la sua figura complessa, tuttavia, anche per Scaraffia, Simone Weil rimane un’intellettuale affascinante e una mistica la cui ricerca di Dio e della verità continua a ispirare e interrogare. La sua esperienza mistica, che Weil descrive come un incontro diretto con Cristo, è stata un evento trasformativo che l’ha portata a concepire la verità come qualcosa di ricevuto, una luce che illumina l’anima. Il merito indubbio di Weil è di aver cercato di legittimare intellettualmente la mistica, rendendola accessibile alla vita moderna e vivificando l’esperienza cristiana.
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Concludendo, nel suo libro Lucetta Scaraffia sottolinea come il misticismo nel Novecento sia stato frequentemente marginalizzato, incontrando l’ostilità sia delle istituzioni ecclesiastiche sia del mondo accademico. Nonostante ciò, il successo contemporaneo di queste mistiche laiche rivela la loro profonda capacità di rispondere a un bisogno spirituale diffuso, che le religioni tradizionali faticano ormai a soddisfare. Le loro esperienze, spesso non riconosciute dalle istituzioni, rappresentano una ricerca diretta e non mediata del divino. Questa ricerca le ha spinte a rompere con le convenzioni sociali e religiose, inclusi i ruoli di genere predefiniti.
La loro preziosa eredità, infine, consiste nell’aver offerto una via spirituale autentica e libera, capace di ispirare chiunque sia alla ricerca di un senso profondo della vita, un significato religioso, in un mondo sempre più secolarizzato.
Quest’ultimo accenno alla difficoltà di credere oggi nei modi trasmessi dalla tradizione, mi offre l’occasione per un’ultima osservazione di carattere più personale. Il tema affrontato da Scaraffia è di grande rilevanza, specialmente nel contesto odierno, poiché ci invita a interrogarci sulla distanza tra la fede degli antichi e la mistica dei moderni, in particolare nel quadro del declino del cristianesimo in questo nostro (occidentale) mondo secolarizzato.
All’inizio del Novecento, in uno scambio epistolare tra Loisy e Fogazzaro, si esprimeva la convinzione che il futuro del cristianesimo sarebbe stato affidato alla congiunzione di critica e mistica. Ora, leggendo il libro di Scaraffia, questo pensiero riemerge con forza, affiancato alle acute osservazioni di Ernst Troeltsch, che nel 1903 scriveva che già da quasi due secoli ci si trovava in “un atteggiamento distanziato rispetto alla tradizione ecclesiale”. Tale distanza, aggiungeva, poteva condurre a due esiti: o a “un’accezione sostanzialmente modificata” dell’idea ed essenza del cristianesimo, o a “una religiosità”, professata “in termini per lo più indipendenti rispetto alle religioni storiche”, connotata “in senso etico e artistico”, che, pur potendo talvolta coincidere con il cristianesimo, era comunque percepita come una forma specificamente moderna di religiosità.
Nella sua monografia del 1912 sulle dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, Troeltsch tornava poi sul punto, osservando che il misticismo rappresenta una riduzione a interiorità e immediatezza del patrimonio simbolico e dottrinale consolidatosi nel culto della chiesa. Questo patrimonio diviene così un possesso esclusivamente personale e intimo, attorno al quale si formano gruppi fluidi, legati da vincoli eminentemente individuali, mentre culto, dogma e memoria storica tendono a dissolversi. Aggiungeva poi un dettaglio relativo a quanto accadeva nei suoi anni, importante anche in relazione al libro di Scaraffia, in cui più volte è sottolineata questa combinazione: “Il misticismo ha affinità elettiva con l’autonomia della scienza, e offre asilo alla religiosità di elementi educati scientificamente; negli stati incolti diventa orgiasmo [si potrebbe pensare alla successiva fortuna del nazionalsocialismo – religione del sangue e della razza] e divozione sentimentale”.
Ora, la selezione delle mistiche operata da Scaraffia attesta, mi sembra, proprio questa situazione del cristianesimo nell’occidente e, più in generale, delle religioni in quel resto del mondo che si è occidentalizzato, sia integrandosi in esso sia opponendosi a esso.
Weil stessa, che come un sismografo registrava tutti i sommovimenti della sua epoca, già gravida della nostra, annotava nei Cahiers: “Occorre una nuova religione. Oppure un cristianesimo mutato al punto da essere diventato altro”.
Ma si tratta di un mutamento del vecchio cristianesimo o della sua morte? Di un passaggio, delicato quanto indispensabile, per dare nuova linfa, nuova vitale espressione all’antica fede nella situazione moderna o della fine della fede stessa? Credo questo sia il punto. Il vecchio Dio, il Dio tappabuchi è morto, come scrivevano Nietzsche e Bonhoeffer, ma l’antropologia cristiana – l’idea di essere umano che il cristianesimo ha scoperto o forgiato – è ancora sorprendentemente viva, come dimostra la mistica contemporanea. Essa si manifesta spesso in forme di spiritualità profonde ma indeterminate, prive di un riferimento trascendente definito, preferendo esprimersi, oserei dire consumarsi, nella poesia, nell’arte, nell’amore per la natura… È un’esperienza interiore che, se pur intensa, somiglia sempre più a un bateau ivre: affascinata dal fluire, ma priva di ancoraggio, senza più un porto sicuro verso cui orientarsi.
La citazione da La notte delle beghine, da cui ho tratto lo spunto iniziale per questa recensione, si chiude con le parole dell’autrice che così racconta il suo rapporto con le beghine medievali:
Ho sentito le loro risa e i loro canti, il rumore del loro passo sul selciato, ho percepito sulla pelle quello stesso sole che aveva riscaldato la loro, e nelle narici l’odore del fiume vicino. Abbiamo sognato, tremato, camminato fianco a fianco. Come compagne separate dal tempo, ma che desideri, paure e ribellioni hanno riunito in uno stesso accordo, in una stessa eco lontana.
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Proprio come nell’esperienza raccontata da Kiner, mi pare che Lucetta Scaraffia, nel suo bel libro, abbia intrapreso un viaggio empatico nella mistica moderna, scoprendo, insieme alle sue amate beghine, che l’esistenza di Dio si rivela nell’incolmabile distanza tra ciò che possiamo afferrare con le sole nostre forze e ciò che siamo capaci di desiderare. Un desiderio assoluto, infinito, che tuttavia, se non incontra una realtà viva e concreta a cui rivolgersi, rischia di dissolversi in una spiritualità vaga, indistinta, un’ansia romantica. Un amore, ancora una volta, non corrisposto. Un amore infelice.
È proprio questo senso di tensione struggente, assoluta, infinita, ma anche di attesa di un compimento, che la poesia Ave, nella suggestiva traduzione di Paolo Bettiolo, riesce a restituire pienamente:
Ave.
Altissimo amore, se può accadere che muoia
Senz’aver saputo di dove ti avevo,
In quale sole era la tua dimora
In quale passato il tuo tempo, in quale ora
Ti amavo,
Altissimo amore, che trascendi la memoria,
Fuoco senza focolare di cui ho fatto il mio giorno,
In quale destino inscrivevi la mia storia,
In quale sonno si vedeva la tua gloria,
Oh mia dimora …
Quando sarò a me stessa persa
E divisa per l’infinito abisso,
Infinitamente, quando sarò rotta,
Quando il presente di cui sono vestita
Avrà tradito,
Dall’universo in mille corpi spezzata,
Da mille istanti ancora non raccolti,
Da cenere nei cieli al nulla gettata,
Tu rifarai per una strana annata
Un unico tesoro
Tu rifarai il mio nome e la mia immagine
Da mille corpi portati via dal giorno,
Viva unità senza nome né volto,
Cuore dello spirito, oh centro del miraggio,
Altissimo amore.
[1] L. Scaraffia, Dio non è così. Otto mistiche laiche del Novecento, Bompiani 2025.
Recipitur ad modum recipientis: tantissime informazioni ma le stesse mistiche direbbero: “Io ho solo amato Dio”
Comincio a trovare insopportabili queste letture laiche. della esperienza di vita cristiana. Letto tutto si resta nella tautologia di ogni ricerca scientifica. Manca la Novità della fede e della Rivelazione”
Tutte le donne che studiano le donne, oggi, non rendono ragione del vero femminile nella fede. Peccato!
Vorrei aggiungere due elementi a questa recensione sul volume di L. Scaraffìa riguardante delle rappresentanti della mistica femminile contemporanea: la “lacuna” espressiva di Simone Weil sulla tragedia vissuta dagli ebrei durante la shoah non aggiunge certamente del discredito alla sua resistenza al nazifascismo, che l’ha portata a vivere in esilio il periodo della fine del decennio in cui la Germania promulgava le leggi razziali, fino a morire di malattia, ancora in Inghilterra, durante il 1943 mentre i partigiani francesi combattevano in armi. Credo anch’io che né in ciò né altrove sia da leggere alcun suo atteggiamento antigiudaico, ma semmai la dimostrazione ai suoi contemporanei di una solidarietà in senso contrario. Quanto all’interpretazione dell’esperienza mistica vissuta dai due esempi femminili che hanno trasferito il loro amore da una delusione sentimentale a quello claustrale votato all’Altissimo, sono riferimenti a delle storie personali assai rispettabili in quanto tali ma che mi paiono avere poco a che fare con la presentazione della natura del misticismo in rapporto all’istituzionalizzazione religiosa e che comunque in sé anch’esse non posano far dimenticare l’ impronta del vissuto storico del ruolo della donna, come nel caso della collaboratrice di Juenger agli inizi del medesimo difficile primo cinquantennio del XX sec.