Sinodalità, oltre gli slogan

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La sesta monografia che chiude l’annata della rivista Presbyteri è dedicata a una riflessione sulla sinodalità (qui). «La prospettiva con cui nella monografia guardiamo al Sinodo è quella della possibilità di “fermarsi insieme”, come prerogativa necessaria al “camminare insieme”. È la grande occasione di una “sosta”, al fine di comprendere le fondamenta bibliche e teologiche della sinodalità e la sua dimensione “spirituale”; riflettere sui ruoli e sugli strumenti; ridirsi quali sono le caratteristiche di una Chiesa in cammino e in particolare per noi qual è il compito del presbitero all’interno di questo processo». Pubblichiamo l’editoriale del numero.

«Lo sappiamo: a volte sarà faticoso, altre coinvolgente, altre ancora gravato dalla diffidenza che “tanto poi non cambia niente”, ma siamo certi che lo Spirito trasformerà la nostra povera vita e le nostre comunità e le renderà capaci di uscire, come a Pentecoste, e di parlare pieni del suo amore». Così scrive il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, nella introduzione al fascicolo I cantieri di Betania, che traccia alcune linee prospettiche per la nuova tappa del percorso sinodale.

L’incontro di Gesù con Marta e Maria, nella casa di Betania, raccontato nel Vangelo di Luca (10,38-42), è l’icona per il secondo anno del cammino della Chiesa italiana.

Facciamo un passo indietro  

All’inizio dell’estate, nel sito della Conferenza episcopale italiana, era stata pubblicata la Sintesi nazionale della fase diocesana del Sinodo.

Leggendo quel testo si rimaneva alquanto delusi, per una sintesi che proprio tale non era[1]. Si davano alcuni dati numerici interessanti: il coinvolgimento di circa 50.000 gruppi sinodali, 200 sintesi diocesane, 19 proposte di altri gruppi, raccolte in circa 1.500 pagine, con la partecipazione complessiva di oltre mezzo milione di persone.

Venivano presi in considerazione i dieci ambiti, sui quali si era lavorato e discusso nelle chiese locali. Ne emergeva un quadro realistico della realtà della Chiesa italiana e in ogni caso risultava assolutamente apprezzabile l’avvio di una prassi sinodale di ascolto, concreta seppur faticosa. In quel momento, però, sembrava logico attendersi una sintesi ed un rilancio di priorità, che allora non vennero proposte.

L’auspicio che veniva formulato da parecchi commentatori o anche da semplici fedeli, era quello di passare dalle parole ai fatti, individuando una strada concreta lungo la quale muoversi in maniera coerente.

Il desiderio condiviso era di tenere presente ciò che era emerso ascoltando la vita reale della gente, i problemi, le aspettative, i dubbi e le fatiche, ma anche il desiderio diffuso di una Chiesa meno scollegata dalla vita, più ancorata alla Parola di Dio e più coinvolta nel tessuto delle relazioni umane.

Questo è l’humus in cui è nato ed è continuamente chiamato a muoversi l’annuncio del Vangelo, e può ben riassumersi in un’espressione forte del poeta latino Terenzio: «Homo sum: humani nihil a me alieno puto»; tutto ciò che esprime l’umanità delle persone e della vita non può risultare estraneo a un altro essere umano, tantomeno ad un discepolo del Signore Gesù. Una estraneità che, purtroppo, sembra invece molto pervasiva e diffusa.

C’è una via privilegiata da percorrere, che nei giorni della pandemia è rimbalzata evidente, ma che troppo presto pare essersi insabbiata in una sorta di amnesia collettiva: prendersi «cura» delle persone, attenti alla loro dimensione umana, per alimentare quella spirituale, religiosa e cristiana.

«Il cristianesimo smette di essere marginale quando ritorna ad essere la religione che rispetta la libertà e la verità dell’uomo»[2].

Fin qui era doveroso fare un passo indietro nella memoria collettiva, per prendere atto che, seppur con i tentennamenti dell’inizio, il Sinodo si è messo in movimento.

Ora, il rilancio del cammino attraverso la via dei «cantieri» richiede un lavoro che ha senso solo se è in grado di continuare a intercettare le istanze delle persone concrete, cristiane e non, legate ad una storia e ad un luogo preciso, rileggendole alla luce di alcune categorie teologiche fondamentali, in particolare quella della sinodalità, in una situazione che richiede un urgente discernimento[3].

La casa di Betania

In questa prima parte del cammino sinodale, ricorda il documento CEI, sono risuonate «parole come: cammino, ascolto, accoglienza, ospitalità, servizio, casa, relazioni, accompagnamento, prossimità, condivisione… e hanno disegnato il sogno di una Chiesa come “casa di Betania” aperta a tutti»[4].

Credo che il dialogo tra Gesù e le sorelle di Betania, ma in particolare con Marta, possa suggerire qualche chiave di lettura mirata e attuale sia per la vita delle comunità cristiane, sia per un aiuto a ri-centrare il ministero ordinato, che esce visibilmente «scosso» dalla fotografia proposta nella prima fase dell’ascolto sinodale.

«Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10, 41-42).

Il principio attorno al quale ruota il servizio di Marta è il proprio «io». Un io religioso, legalistico, duro a convertirsi, perché non ne sente il bisogno. Un io che si ritiene a posto perché cerca di piacere a Dio e di sacrificarsi per lui. Il tanto agitarsi – che ben descrive anche l’affanno dei presbiteri oggi – nasce da una sorgente inquinata e per questo è segnata da turbamento e inquietudine (mérimnai).

Ciò che un ministro ordinato, ma anche ogni cristiano, non deve mai scordare è che non siamo noi a morire per Dio, perché è Dio che muore per noi. Ricordando le parole di san Paolo: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Diversamente, siamo sospinti dentro il groviglio di una eterna competizione con noi stessi e con le aspettative riposte su di noi.

L’unica cosa veramente necessaria per vivere e per annunciare il Vangelo è di sentirsi amati senza condizioni. Questo ci rende liberi. Contro tutti gli affanni personali e pastorali, il profeta Isaia ci ricorda: «Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza» (Is 30,15).

Parlando della continua necessità di una «conversione religiosa» il filosofo Bernard Lonergan scrive: «Significa innamorarsi in maniera ultramondana. È consegnarsi totalmente e sempre, senza condizioni, restrizioni e riserve».[5]

Il ministero ordinato recupera il suo significato profondo se rimette al centro il proprio consegnarsi totalmente a Dio, lasciandosi espropriare dal suo amore: un amore che possiamo ascoltare, vedere, toccare rimanendo, come Maria, ai piedi del Signore Gesù.

Lui viene, bussa alla porta e Maria gli apre. Sarebbe sciocco lavorare tantissimo per fare tutti i preparativi e poi non riconoscerlo quando arriva.

«Maria si è scelta la parte migliore».

Lei tace, Gesù ne prende le difese perché … solo lui la capisce e lei è la sola che lo ha capito. Dovremmo veramente riscoprire il silenzio, noi che siamo chiamati a dire spesso molte parole. Il silenzio è una grande forma di accoglienza, soprattutto in questa asfissiante società «cacofonica» in cui siamo immersi, dove tanti parlano, sbraitano e dicono tutto e il contrario di tutto. In una piccola «regola di vita» sarebbe da proporre un «elogio al silenzio» come vera modalità di accoglienza.

Sant’Agostino immagina che Gesù si rivolga a Marta dicendole: «Marta tu stai ancora navigando. Maria invece è già arrivata in porto».

Il cuore di Maria è già «dove è il suo tesoro» (Lc 12,34), perché lei ha preferito la sorgente d’acqua limpida e pura alle cisterne screpolate, costruite con tanto affanno ma che perdono l’acqua (Ger 2,13).

Scrive Silvano Fausti: «Maria è una Marta convertita alla compassione del Signore. Con lei Betania diviene la casa che ospita tutti, come l’albergo del samaritano che “tutti accoglie” (pandoxèion). Seduta ai suoi piedi si nutre di quella parola di vita che l’accompagnerà nel cammino che ancora resta da compiere e che le permetterà di gustare la voce dello sposo che già la accompagna»[6].

Il tuo popolo in cammino

È un canto di Pierangelo Sequeri, spesso cantato nelle nostre assemblee liturgiche. Quali potrebbero essere alcune prospettive per «un popolo in cammino sinodale» affinché riscopra il coraggio e la bellezza dell’andare «oltre»?

È un popolo che ha ritrovato la motivazione per uscire dal portone delle mura fortificate della cittadella, per muoversi verso un orizzonte diverso, consapevole che servono determinazione e tenacia nel portare a compimento la ricerca.

La meta è luminosa e vitale se la si colloca sullo sfondo della profezia di Isaia «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (43,18-19). È il nuovo che si affaccia alle nostre vite e verso di esso questo popolo sta camminando. Occorre essere coscienti che non si parte da zero, perché c’è la memoria di un cammino prezioso che è stato percorso. È essenziale fare memoria di esso non solo per ritrovare le proprie radici, ma anche per far tesoro di ciò che lungo la via si è appreso, raggiunto e consolidato.

Come cogliere ciò che veramente vale ed è prezioso in questo particolare momento storico, carico di apprensione e incertezza? Come custodirlo e annunciarlo insieme?

Dai «cantieri di Betania» possiamo cogliere che chi è pellegrino lungo questa strada di vita, riconosce che il suo ascoltare è essenzialmente un ricevere. Ciò non è possibile se non ci si percepisce in un «camminare insieme», in una sincera relazione di condivisione. Potrebbe essere utile riconsiderare, in tutta la sua attualità, una «teologia della vocazione», dove vocazione è il modo stesso di intendere la vita, di darle un senso, uno scopo e, di conseguenza, un come.

Il terzo «cantiere di Betania» propone la dimensione delle diaconie e della formazione spirituale che «focalizza l’ambito dei servizi e ministeri ecclesiali, per vincere l’affanno e radicare meglio l’azione nell’ascolto della Parola di Dio e dei fratelli».

Già nel 1977 era stata proposta alla Chiesa italiana una traiettoria di riflessione e di impegno ministeriale, nell’ambito del documento pastorale Evangelizzazione e ministeri[7]. A seguire, nella esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici (1988), Giovanni Paolo II scriveva al n. 23: «Ora i Padri sinodali hanno espresso il desiderio che il “motu proprio Ministeria quaedam” sia rivisto, tenendo conto dell’uso delle Chiese locali e soprattutto indicando i criteri secondo cui debbano essere scelti i destinatari di ciascun ministero». In quel particolare momento storico ed ecclesiale, i ministeri erano visti come specializzazioni e competenze da valorizzare. Oggi il modo di riconsiderarli e di metterli in atto dovrebbe essere diverso, perché nel nostro modo di vivere prevale il senso della complessità e della interconnessione.

Come dire che «sulla parte prevale l’insieme». È il quarto principio di papa Francesco: «Il tutto è superiore alla parte» (EG 234-237). Con esso egli ci stimola ad allargare lo sguardo per riconoscere la presenza o la possibilità di scoprire e fare un bene più grande. E suggerisce di prestare attenzione alla dimensione globale della realtà per non cadere nel “localismo”, perché «il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma. Dunque, non si dev’essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi» (EG 235).

Trovo molto suggestivo ciò che scrive P. Timothy Radcliffe, a commento dell’intervento di papa Francesco al Simposio internazionale Per una teologia fondamentale del sacerdozio.

Nella Bibbia, quando Dio si rivolge a qualcuno, solitamente la risposta che riceve è «Hinnèni», «Eccomi». La mia identità più profonda risiede in quella parola: «Eccomi». Rimango seduto in silenzio, vulnerabile di fronte a Dio, e lascio svanire ogni altra sensazione superficiale di identità. Sant’Agostino dice a Dio: «Tu eri con me e io non ero con te». Dio aspetta che io torni a casa, a me stesso, dove Lui è pronto ad abbracciarmi come il padre con il figliol prodigo. Ogni volta che ho perso il senso della mia vocazione ciò è avvenuto perché sono fuggito da quel silenzio in cui ho il coraggio di essere me stesso, nudo di fronte a Dio e senza vergogna[8].


[1] Vinicio Albanesi, Sinodo: la (non) sintesi italiana, in SettimanaNews – 27 agosto 2022.
[2] Ibid.
[3] Cfr. Maurizio Rossi, Sinodo: la voce delle Chiese italiane, in SettimanaNews – 29 agosto 2022.
[4] Conferenza Episcopale Italiana, I cantieri di Betania. Prospettive per il secondo anno del Cammino sinodale, Roma 11 luglio 2022, 5.
[5] Bernard Lonergan, Il metodo in teologia, OBL, vol. 12, Città Nuova, Roma 2000, 271. B. Lonergan (1904-1984) è stato un teologo gesuita canadese; è considerato uno dei più importanti pensatori cattolici del XX secolo.
[6] Silvano Fausti, Una comunità legge il vangelo di Luca, EDB, Bologna 1997, 401.
[7] Conferenza Episcopale Italiana, Evangelizzazione e ministeri. Documento pastorale dell’Episcopato italiano, Roma 15 agosto 1977.
[8] Timothy Radcliffe, Riflessioni sulla spiritualità del presbitero, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2022.

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